A SCUOLA DAL VIRUS

Per un salto di civiltà A SCUOLA DAL VIRUS Luigi Ferrajoli Il carattere planetario di questa epidemia offre una drammatica conferma della necessità e dell’urgenza di una risposta globale ai […]

Per un salto di civiltà

A SCUOLA DAL VIRUS
Luigi Ferrajoli

Il carattere planetario di questa epidemia offre una drammatica conferma della necessità e dell’urgenza di una risposta globale ai problemi di tutti

1. La pandemia del coronavirus sta cambiando e ancor più cambierà la vita di tutti. Essa costringe a ripensare la politica e l’economia e a riflettere sul nostro presente, sul nostro passato e sul nostro futuro.
Innanzitutto sul nostro presente, e quindi sulla risposta istituzionale – le limitazioni delle nostre libertà – ad essa data dal nostro governo. Si tratta di una risposta assolutamente necessaria. Fortunatamente, in Italia, la nostra Costituzione non prevede lo stato d’emergenza, previsto invece in molti altri ordinamenti, come per esempio quello francese, dove è stato dichiarato il 24 marzo, e quello spagnolo dove è stato dichiarato il 14 marzo. E’ una fortuna. Questi istituti, come l’esperienza insegna, sono pericolosissimi, a causa della genericità dei loro presupposti che lascia aperti spazi indeterminati di arbitrio. Per esempio l’articolo 16 della Costituzione francese del 1958 prevede l’“état d’urgence”, che consente le non meglio precisate “misure richieste” dalle “circostanze”. E l’articolo 116 della Costituzione spagnola del 1978 prevede ben tre stati d’emergenza – l’“estado de alarma”, l’“estado d’excepcion” e l’“estado de sitio” (o stato d’assedio) – consistenti, come dice la legge organica n. 4/81, nelle non meno indeterminate “misure strettamente indispensabili” per far fronte alle “circostanze straordinarie” del tipo più diverso. Addirittura in Ungheria Orban si è attribuito “pieni poteri” senza limiti di tempo.

GIUSTE LE MISURE ANTIVIRUS

La nostra Costituzione, invece, non ammette eccezioni alla democrazia. E tuttavia ha ugualmente consentito, a riprova della non necessità di simili stati d’eccezione, le misure adottate per arginare il contagio, legittimate dai limiti da essa imposti unicamente alla libertà di circolazione, alla libertà di riunione e alla libertà personale. L’articolo 16 prevede infatti che la libertà di circolazione possa essere limitata dalla legge “per motivi di sanità o di sicurezza”; l’articolo 18 prevede che l’esercizio della libertà di riunione possa essere vietato dalle “autorità” “per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica”; l’articolo 32 prevede la possibile limitazione della libertà personale, come è la quarantena dei contagiati, attraverso la soggezione a un “trattamento sanitario” obbligatorio “nell’interesse della collettività”. Non si tratta dunque di limitazioni in bianco, come le sospensioni dei diritti e del normale funzionamento degli organi costituzionali rese possibili da generici stati d’assedio o d’eccezione. Si tratta unicamente delle limitazioni di quelle tre libertà, richieste dalla garanzia del diritto alla vita: un valore, la vita, la cui tutela rappresenta la ragion d’essere di tutto il diritto e dell’intero artificio istituzionale.
Tutto questo non toglie che per le limitazioni di tali libertà costituzionali si sarebbe dovuto sempre adottare la forma del decreto-legge, e non quella dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri contenenti “disposizioni attuative” dei ben cinque decreti-legge prodotti dal governo. Diversamente da questi DPCM, infatti, il decreto legge è un atto di rango legislativo, sottoposto al controllo del Parlamento e al vaglio sommario di costituzionalità, al momento dell’emanazione, del Presidente della Repubblica. Il Parlamento, invece, è rimasto sostanzialmente estraneo alla discussione e alla formulazione di tali norme. Sarà solo informato ogni 15 giorni delle misure adottate. Troppo poco.
Naturalmente, a sostegno delle limitazioni della libera circolazione, che sono altrettante limitazioni della libera circolazione del virus, le regole e le sanzioni da sole non bastano. E’ assolutamente necessaria la loro massima condivisione, sulla base della consapevolezza della loro necessità a tutela della salute e della vita di tutti. Ebbene, dobbiamo riconoscere che questa condivisione c’è stata, e che la popolazione ha in larghissima parte rispettato le misure disposte. Soprattutto, dobbiamo esprimere ammirazione e gratitudine nei confronti di medici e infermieri, che stanno mettendo in pericolo la loro vita. L’Italia sta insomma dando una prova straordinaria di maturità e di senso civico: nello spirito di sacrificio di quanti devono venire a contatto con i malati e nella disciplina e nel senso di responsabilità con cui le misure dirette a impedire il contagio vengono rispettate dalla grande maggioranza delle persone.

MA ESALTATE LE DISEGUAGLIANZE

Non si tratta di misure lievi. Benché disposte da norme generali ed astratte, queste misure, peraltro, accrescono e drammatizzano le disuguaglianze: tra chi può stare in casa e chi è obbligato ad andare a lavorare, tra chi ha una casa e chi non l’ha, tra chi ha grandi case con giardino o terrazze e quanti sono costretti a vivere in tanti in una stanza, tra chi è solo e povero e quanti vivono con le loro famiglie. Ma si pensi, soprattutto, alle carceri affollate, ai campi rom e alle situazioni drammatiche dei senzatetto; alle masse dei migranti accampati ai confini della fortezza Europa, o reclusi nei lager libici, oppure accalcati a Lesbo o nei campi italiani; agli immigrati resi clandestini e gettati sulla strada dal primo decreto Salvini, che ha soppresso il permesso di soggiorno per motivi umanitari. E si pensi ai palestinesi, reclusi in quel carcere a cielo aperto che è la striscia di Gaza e ai milioni di persone che in tutte le metropoli – in America Latina, in Africa, in India – vivono accalcati in povere baraccopoli. Un focolaio di contagio che si sviluppasse tra questi disperati provocherebbe ecatombe delle quali probabilmente non verremmo neppure a conoscenza.

L’IMPREVIDENZA PASSATA

2. Ancor più amara è la riflessione, sollecitata dal virus, sul nostro passato. Questa tragedia ha portato alla luce la miopia delle politiche dei governi, che in questi ultimi dieci anni, all’insegna dell’obiettivo della riduzione delle imposte, hanno tagliato in Italia la spesa per la salute pubblica, soppresso 70.000 posti letto, chiuso 359 ospedali o reparti ospedalieri e ridotto il personale sanitario, non sostituendo migliaia di medici e di infermieri andati in pensione. Si è manifestato, in queste politiche irresponsabili, un sostanziale accordo tra populisti e liberisti, parimenti disinteressati alla garanzia del diritto alla salute: i primi perché questa garanzia non ha mai interessato, nell’immediato, la grande maggioranza degli elettori ma soltanto i malati, prevalentemente vecchi; i secondi per il loro disinteresse per la sanità pubblica e la loro preferenza per la sanità privata.
Improvvisamente, l’epidemia del coronavirus, con il suo carico quotidiano di morti e di contagiati, ha posto la sanità al centro delle preoccupazioni di tutti. Infettando potenzialmente tutti, ha spodestato l’economia dalla centralità passata. Ha fatto scoprire il valore inestimabile della sanità pubblica e del suo carattere universalistico e gratuito. Ha sollecitato e promosso la moltiplicazione dei reparti di terapia intensiva e la produzione di idonee attrezzature sanitarie. Ha infine mostrato l’irrazionalità – e, a mio parere, l’incostituzionalità – dell’esistenza, in Italia, di 20 sistemi sanitari differenti, quante sono le Regioni, in contraddizione con l’uguaglianza nei diritti fondamentali sulla quale si fondano la solidarietà e l’unità nazionale.
Non solo. Il coronavirus ha colto tutti i governi, incluso il nostro, impreparati, svelandone, soprattutto con le inadeguate risposte iniziali, l’irresponsabile imprevidenza. Benché il pericolo di una pandemia fosse stato previsto fin dal settembre 2019 da un rapporto della Banca Mondiale, nulla è stato fatto per fronteggiarlo. In vista delle guerre si fanno in tutti i Paesi esercitazioni militari, si costruiscono bunker, si mettono in atto simulazioni di attacchi e tecniche di difesa. Contro il pericolo annunciato di una pandemia non è stato fatto assolutamente nulla. Il paradosso è stato raggiunto con le attrezzature sanitarie. In previsioni delle guerre si accumulano armi, carri armati e missili nucleari sempre più micidiali. Il coronavirus ci ha fatto invece scoprire l’incredibile mancanza di posti letto, di reparti di terapia intensiva, di respiratori, di tamponi e di mascherine. Ha svelato l’assurda insufficienza di medici e infermieri e la totale assenza di un’organizzazione per l’assistenza domiciliare. Ci siamo insomma accorti di essere privi delle misure più elementari per fronteggiare il contagio.
Naturalmente questa imprevidenza si sta rivelando nella maniera più drammatica nei Paesi, come gli Stati Uniti, che difettano di una sanità pubblica. In questi Paesi, chi non ha un’assicurazione adeguata non potrà curarsi. Decine di milioni di poveri saranno così abbandonati a se stessi. Questa impreparazione e questa imprevidenza sono in gran parte inevitabili nei Paesi poveri. Ma sono solo il segno di un’incredibile follia quando riguardano le grandi potenze, potenti quanto ad armi e a finanza, ma debolissime quanto alla difesa della vita e della salute. Negli Stati Uniti Trump ha cancellato la modesta riforma sanitaria di Obama, lasciando milioni di poveri senza la possibilità di curarsi. La più grande potenza del mondo continua a produrre armi nucleari, ma si è trovata sprovvista di respiratori e di tamponi e così mette in conto decine, forse centinaia di migliaia di morti.

IL FUTURO DELLA SANITÀ PUBBLICA

3. Infine la riflessione sul nostro futuro: sul futuro del nostro Paese, dell’Europa, del mondo. Questa epidemia ha mostrato l’enorme valore della nostra sanità pubblica, gratuita e accessibile a tutti, in attuazione del diritto universale alla salute previsto dall’articolo 32 della nostra Costituzione. Ha mostrato, insieme alla miopia delle politiche del passato, la necessità di potenziare il nostro sistema sanitario, aumentando il numero degli ospedali, dei posti letto, dei reparti di terapia intensiva, dei medici e degli infermieri e delle attrezzature necessarie, dai tamponi ai respiratori e alle mascherine. Ha infine mostrato la superiorità dei sistemi politici che dispongono di una sanità pubblica, rispetto a quelli nei quali la salute e la vita sono affidate alle assicurazioni e alla sanità privata. Non possiamo neppure immaginare ciò che succederà negli Stati Uniti, dove soltanto un tampone costa qualche migliaio di dollari, o in molti Paesi dell’America Latina; per non parlare dell’Africa e di gran parte dell’Asia.
C’è poi un altro ordine di insegnamenti che proviene dal carattere globale di questa epidemia, diffusasi ormai in tutto il mondo: la necessità di fronteggiarla con misure efficaci e soprattutto omogenee. Basta infatti che in qualche Paese vengano adottate misure inadeguate perché si riaprano, con gli spostamenti, i pericoli di contagio in tutti gli altri Paesi. Di qui, ripeto, la necessità che vengano adottate misure uniformi su tutto il territorio nazionale, affidate perciò allo Stato centrale anziché alle Regioni. Ma di qui, soprattutto, la necessità di una risposta di livello quanto meno europeo e, in prospettiva, di livello globale.
L’Unione Europea sta invece perdendo un’occasione preziosa per dar prova della sua unità e della sua ragion d’essere. I suoi 27 Paesi membri si sono mossi finora in ordine sparso, adottando ciascuno, in tempi diversi e quasi sempre in ritardo, strategie differenti: dalle misure rigorose dell’Italia e della Spagna a quelle più lievi della Francia e della Germania. Eppure una gestione comune dell’epidemia sarebbe addirittura imposta dai Trattati. L’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, dedicato alla sanità pubblica, dopo aver affermato che “l’Unione è garante di un livello elevato di protezione della salute umana”, stabilisce che “gli Stati membri coordinano tra loro, in collegamento con la Commissione, le rispettive politiche” e che “il Parlamento europeo e il Consiglio possono anche adottare misure per proteggere la salute umana, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera”. Inoltre l’articolo 222, intitolato “clausole di solidarietà”, stabilisce che “l’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia vittima di una calamità naturale”. E’ invece accaduto che l’Unione Europea – la cui Commissione ha tra i suoi componenti un commissario per la salute, un altro per la coesione e perfino un commissario per la gestione delle crisi – ha rinunciato a prendere in mano il governo dell’epidemia con direttive sanitarie omogenee per tutti i suoi Stati membri. Se a questa abdicazione al proprio ruolo si aggiunge il penoso conflitto tra sovranisti del nord e sovranisti del sud a proposito dell’emissione di eurobond, il cui valore quali segni di solidarietà è assai più politico che economico, è evidente il rischio di suicidio dell’Unione, rivelatasi capace di imporre agli Stati membri solo sacrifici a beneficio dei pareggi di bilancio e non anche misure sanitarie a beneficio della vita dei suoi cittadini.

UNA SFERA PUBBLICA GLOBALE

Non solo. Il carattere planetario di questa epidemia offre una drammatica conferma della necessità e dell’urgenza di una risposta globale a simili emergenze che solo può provenire dalla creazione di una sfera pubblica sovrastatale: precisamente, dallo sviluppo di un costituzionalismo planetario quale è stato proposto e promosso dalla scuola “Costituente Terra” che inaugurata a Roma il 21 febbraio scorso. Questa emergenza ha infatti un carattere specifico rispetto a tutte le altre, incluse quella ecologica e quella nucleare. A causa del suo terribile bilancio quotidiano di morti in tutto il mondo, essa rende assai più visibile e intollerabile di qualunque altra emergenza la mancanza di adeguate istituzioni globali di garanzia, che pure avrebbero dovuto essere introdotte in attuazione delle tante Carte internazionali dei diritti umani. Più di qualunque altra catastrofe, essa rende perciò più urgente e, insieme, più universalmente condivisa la necessità di colmare questa lacuna.
Può quindi seguirne un risveglio della ragione. Esiste già un’Organizzazione mondiale della Sanità. Ma essa non ha i mezzi e gli apparati necessari neppure per portare nei Paesi poveri del mondo i farmaci salva-vita – in origine poco più di 200, oggi 460 – che 40 anni fa stabilì che dovessero essere universalmente accessibili e la cui mancanza provoca ogni anno 8 milioni di morti. Oggi l’epidemia globale colpisce tutti, senza distinzione tra ricchi e poveri. Potrebbe perciò fornire l’occasione per fare dell’OMS una vera istituzione di garanzia globale, dotata dei poteri e dei mezzi necessari per affrontare le crisi con misure razionali e adeguate, non condizionate da interessi politici o economici contingenti o di parte, ma finalizzate unicamente alla garanzia della vita di tutti gli esseri umani.
E’ insomma possibile che la pandemia del coronavirus, colpendo tutto il genere umano, senza distinzioni di nazionalità e di ricchezze, generi la consapevolezza della nostra comune fragilità, della nostra interdipendenza e del nostro comune destino. E’ anzi auspicabile che essa, oltre al frammento di un costituzionalismo planetario in tema di sanità, valga a sollecitare la presa di coscienza che siamo tutti esposti, sia pure non immediatamente né direttamente, ad altre gravi catastrofi – ambientali, nucleari, umanitarie –, la cui prevenzione richiede altre istituzioni globali di garanzia: per esempio l’istituzione di un demanio planetario a tutela di beni comuni come l’acqua, l’aria, i grandi ghiacciai e le grandi foreste; la messa al bando delle armi nucleari ed anche di quelle convenzionali, la cui diffusione è responsabile di centinaia di migliaia di omicidi ogni anno; il monopolio della forza militare in capo all’Onu; un fisco globale in grado di finanziare i diritti sociali alla salute, all’istruzione e all’alimentazione di base, pur proclamati in tante Carte internazionali.
Sembrano ipotesi utopistiche. E invece sono le sole risposte razionali e realistiche alle grandi sfide da cui dipende il futuro dell’umanità. Questa epidemia ha posto all’ordine del giorno la necessità di un costituzionalismo globale e di una sfera pubblica planetaria nell’interesse di tutti. Di questo salto di civiltà esistono tutti i presupposti. Si è infatti sviluppato in queste settimane un senso straordinario e inaspettato di solidarietà tra le persone e tra i popoli, che si è manifestato negli aiuti e nei medici venuti in Italia dalla Cina, da Cuba, dalla Polonia e perfino dall’Albania. Per la prima volta nella storia, la tragedia che tutti ci accomuna sta forse generando la percezione di un interesse pubblico dell’umanità ben più generale di tutti gli interessi nazionali e di parte: l’interesse alla sopravvivenza del genere umano, quale unico popolo, accomunato dai medesimi diritti e dai pericoli comuni di catastrofi globali.

Luigi Ferrajoli

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