CAUSE EFFETTI E RISCHI DELLA GUERRA IN UCRAINA

Un’analisi del generale di corpo d’armata Fabio Mini  sulle responsabilità della crisi. L’ideologia del dominio e il rivestimento dell’idealismo “liberal” che informano la condotta americana. La spinta illegittima della NATO all’espansione in Europa e nel mondo. Le minacce di Putin

Fabio Mini

Un’analisi del generale di corpo d’armata Fabio Mini  sulle responsabilità della crisi. L’ideologia del dominio e il rivestimento dell’idealismo “liberal” che informano la condotta americana. La spinta illegittima della NATO all’espansione in Europa e nel mondo. Le minacce di Putin

Fabio Mini

Da un articolo di “Limes”, uscito sulla rivista l’11 marzo, riprendiamo questa lunga analisi sulla crisi internazionale in atto ( Estratti. I titoli sono nostri):

La Russia si rende conto che ogni tentativo di salvaguardare la propria sovranità e i propri interessi regionali viene contrastato dalle sanzioni volute dagli Stati Uniti. Deve perciò subire una tripla penalizzazione: le sue risorse d’esportazione sono depotenziate nella quantità e nel prezzo (in calo per effetto della contrazione della domanda) e le sue importazioni sono danneggiate dai prezzi (in aumento per effetto della minore offerta) e dai pagamenti in dollari. Ma la penalizzazione più importante è la terza, quella geopolitica: sottostare ai ricatti esterni fa perdere credibilità e influenza. Ormai sono anni che nella parte continentale dell’Europa la Russia deve ingoiare i continui rospi forniti dagli americani e dalla Nato. L’offensiva Usa-Nato iniziata trent’anni fa, fatta di provocazioni, umiliazioni, erosione di territori, destabilizzazione ai confini e sostegno all’eversione interna deve essere affrontata anche sul piano della sicurezza e della potenza militare. Mentre la Cina ritiene di avere tempo e vuole agire sul piano economico e finanziario, la Russia deve e vuole dimostrare di poter opporsi alle provocazioni anche con le armi. I diversi atteggiamenti russi e cinesi trovano tuttavia una concordanza d’interessi territoriali, economici e geopolitici in Asia centrale, nel settore energetico e nella cooperazione militare-industriale. Gli Stati Uniti lo hanno già capito e non si fanno sfuggire alcuna occasione per costringere l’Europa a tagliare i rapporti sia politici sia economici con Russia e Cina. Di fatto, le manovre americane costringono sempre di più Mosca ad armarsi e armare Pechino. Se non altro per spostare il confronto sul piano geopolitico e strategico, dove la deterrenza militare può fare molto di più della minaccia economica. C’è abbastanza per far ragionare tutti e in particolare Europa e America. Se non fosse per la debolezza politica interna, la sudditanza nei confronti degli Stati Uniti e la delega permanente della propria sicurezza alla Nato, l’Unione Europea potrebbe essere la potenza equilibratrice per tutto l’Occidente e perfino per Russia e Cina. Ma quei «se» pesano come macigni.

Gli interessi della Cina e quelli americani

L’Ucraina è l’unico territorio europeo non occupato dalla Nato e quindi dagli Stati Uniti, è l’ultima porta sull’Europa ricca e spendacciona, è svincolata dal mare e quindi indipendente dai traffici marittimi, è la vera fascia di connessione tra Occidente e Oriente e per vie fluviali tra Nord e Sud Europa, ha risorse sufficienti per non essere di peso a nessuno e con le royalties dei transiti energetici e commerciali sarebbe uno Stato ultraricco e la popolazione non avrebbe bisogno di lavorare o tantomeno di emigrare. Ma soprattutto è l’ultimo baluardo per due opposte concezioni strategiche di livello globale. Da un lato, per Russia e Cina (e per gli interessi europei) c’è la strategia positiva di apertura di quel raccordo intercontinentale che secondo i piani russi e cinesi deve essere libero e sicuro. L’interesse primario delle nuove vie della seta cinesi è che l’intero tratto continentale eurasiatico sia sicuro ed esente da condizionamenti o minacce. Tale esigenza di apertura inizia alle porte di Pechino, si sviluppa in Asia centrale e si conclude in Europa. L’Ucraina è l’ultimo grande tratto insicuro e teatro di chiusure, condizionamenti e minacce. Un corollario non trascurabile della presa di posizione russa sull’Ucraina è anche il fatto che la Cina non costituisce il compenso naturale per la perdita dell’Europa centrale e rischia inoltre di essere chiusa dalla stretta americana nel Pacifico. La Russia non vuole e non può dipendere dalla Cina né economicamente né militarmente. E viceversa. Per gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Australia c’è la strategia della negazione, della chiusura e dell’interdizione di aree di transito sia marittimo sia continentale. La negazione marittima è in atto da tempo nei confronti della Russia e della Cina. La negazione dei territori continentali, iniziata in Europa con l’allargamento della Nato e in Asia centrale con la guerra in Afghanistan e il sostegno alle «rivoluzioni colorate» non si completa se non si chiude la porta ucraina. Poco importa, anzi meglio, se la chiusura penalizza gli «alleati» europei diventati nel tempo sospettosi e riluttanti. E se poi la chiusura comporta il rischio di distruggere l’Europa, si può sempre tornare al Piano Morgenthau di ridurre la Germania alla pastorizia o al Piano Marshall, entrambi mastodontici affari per gli Stati Uniti. Crisi in Europa per salvare Biden, Putin e Xi Jinping? Al netto delle grandi strategie, tutti e tre i leader hanno qualcosa da perdere: Biden e la sua amministrazione, comunque vadano le elezioni di mid-term, perderanno quel poco di autonomia parlamentare che consente di governare i tre ambiti d’interesse nazionale nelle competenze federali: politica estera, intelligence e Forze armate, economia. Non a caso la spinta a un’azione più forte del Congresso nei confronti della Russia e della Cina non punta alla guerra immediata in Europa o nel Pacifico, ma a mettere il presidente in difficoltà di fronte alla nazione e al mondo. Da parte loro, i russi hanno deciso di avanzare richieste «inaccettabili» contando proprio sulla debolezza di Biden, accusato dagli oppositori di non essere in grado di mantenere alcuna delle promesse fatte in campagna elettorale: uscita dall’epidemia, aumento dell’occupazione, maggiore benessere, difesa della democrazia. Per la maggioranza americana (e non solo) tornare a discutere di clima, consultare gli alleati e terminare le guerre non sono successi ma sconfitte. E comunque lo spettro della guerra in Europa e in Asia, calda o fredda, favorisce le prospettive di ripresa economica interna al momento estremamente necessaria. L’atteggiamento di Biden, apparentemente rivolto al compattamento della Nato e dell’Unione Europea, porta invece alla loro disarticolazione. Alla fine dell’emergenza ucraina, la compattezza delle due organizzazioni si dissolverà tra le macerie della crisi economica, finanziaria e motivazionale che è il solo risultato certo della questione. Washington già da tempo si è resa conto che la Nato è diventata più un peso che un aiuto e che la sua coesione non è scontata, né sentita o facilmente ottenibile. Gli Stati Uniti, con il determinante aiuto della Gran Bretagna, preferiscono l’approccio bilaterale ai paesi europei con i quali da sempre tessono reti di cooperazione e integrazione militare a prescindere dalla Nato.

L’Unione Europea e la Gran Bretagna

Per quanto riguarda l’Unione Europea, i paesi della «Vecchia Europa», tra cui l’Italia, stanno subendo i ricatti della «Nuova Europa» di matrice orientale, anche questa sponsorizzata dalla Gran Bretagna, il cui scopo era di entrare nella Ue e nella Nato per assicurarsi la copertura americana in senso antirusso. La crisi ucraina sta dimostrando che il ricatto sta funzionando e l’Europa è diventata il teatro di battaglia militare ed economico nello scontro Usa-Russia, che entrambi non vorrebbero diventasse diretto. Lo scontro è invece fortemente voluto dalla Nuova Europa. Verso questa eventualità si muovono anche gli inglesi che, pur agendo nella sfera degli Usa, tentano di sfasciare l’Europa usando la Nato. Infatti, l’evento più pericoloso della crisi ucraina non è stato lo schieramento militare russo e nemmeno la minaccia americana di sanzioni economiche devastanti per la Russia e l’Europa intera: ma il presunto intervento di mediazione della Gran Bretagna, che storicamente ha sempre innescato e alimentato i confitti invece di evitarli. In questo campo gli Stati Uniti non riescono a controllare gli inglesi e neppure vogliono farlo, soprattutto se lasciarli fare significa eliminare dalla competizione globale l’Ue e l’euro. La Gran Bretagna ha un proprio scopo strategico che concorre ma non necessariamente coincide con quello statunitense. A partire dall’implosione dell’Urss e dal ritiro dalla Germania unificata dell’Armata del Reno (in pratica tutto l’esercito regolare inglese), Londra ha usato la Nato per ritagliarsi il ruolo di forza di spedizione «fuori area», ovvero dappertutto. Ma il vero scopo strategico rimane in Europa ed è il controllo, in proprio o per conto della Nato, dei mari del Nord e del Baltico. La Russia ha un grande vincolo economico e militare. Dal punto di vista economico ha bisogno di esportare le proprie risorse energetiche e la via più redditizia, anche dal punto di vista geopolitico, è quella eurasiatica. La Cina sarebbe in grado di assicurare uno sbocco importante, ma non duraturo, non sufficiente e politicamente non remunerativo. La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, che controllano e condizionano tutti i paesi sotto la loro influenza, compromette la credibilità russa e la guerra per l’Ucraina compromette quella cinese. Sul piano militare Putin controlla le sue Forze armate e l’intelligence, ma sa di non poter contare interamente sull’affidabilità della Bielorussia e delle formazioni paramilitari che i suoi stessi generali appoggiano lungo il confine con l’Ucraina. Il presidente Aljaksandr Lukašenka non prende e non esegue ordini che possano mettere a rischio la sua sopravvivenza politica e Putin non è certo disposto a garantirla «a qualunque costo». I «patrioti» del Donbas hanno la capacità di organizzare pretesti o di rispondere senza scrupoli alle provocazioni ucraine e non vogliono alcun accordo tra Russia e Ucraina che passi sulla loro pelle. Così come non lo vogliono le truppe mercenarie e clienti delle forze speciali anglo-americane in Ucraina delle quali lo stesso presidente Zelens’kyj è virtualmente ostaggio. Non vogliono alcun accordo neppure Polonia, Norvegia e repubbliche baltiche fomentate e sostenute anche militarmente dalla Gran Bretagna. Putin crede che l’azione inglese possa essere neutralizzata da un accordo diretto con gli Stati Uniti. Tuttavia, anche se la Gran Bretagna accettasse un riassetto della sicurezza europea più distensivo nei confronti della Russia nessuno le impedirebbe di riassumere per conto della Nato o degli americani il controllo militare del settore nord-europeo dove con la Norvegia condivide gli interessi petroliferi e con Polonia, Stati baltici, Svezia e Finlandia di fatto gestisce la «difesa» del fianco a diretto contatto con la Russia. Anzi, si può essere certi che gli Stati Uniti lo accetterebbero ben volentieri, consolidando il fronte antirusso e aggravando così la situazione. In ogni caso, sia Biden sia Putin, nonostante siano i primi attori e si sentano onnipotenti, non possono ignorare i condizionamenti imposti dalle «comparse» e quindi tantomeno possono tralasciare quelli imposti dal terzo grande attore: la Cina.

Gli Stati Uniti possono combattere due guerre

Durante questa crisi, alcuni analisti hanno voluto vedere nella Cina l’àncora di salvezza della Russia e la possibilità che l’eventuale fronte unico sino-russo sia in grado di dissuadere gli Stati Uniti da uno scontro frontale. L’ipotesi avanzata è che l’invasione russa dell’Ucraina possa essere duplicata dall’invasione cinese di Taiwan. L’America si troverebbe a dover combattere su due fronti e comunque, per evitare un disastro globale, sarebbe costretta a cedere sia l’Ucraina alla Russia, sia Taiwan alla Cina. L’idea non è peregrina e probabilmente l’hanno accarezzata alcuni generali e gerarchi russi e altrettanti generali e gerarchi cinesi. Di fatto, gli Stati Uniti nell’ultimo decennio hanno ripreso alla mano la strategia del potere unilaterale e ulteriormente sviluppato le capacità strategiche e operative di poter combattere simultaneamente due confitti regionali e vincerli entrambi. Sulla capacità tecnologica di preparare tale guerra non ci sono dubbi, sulla capacità di vincerla non ci sono certezze. In Europa, contro la Russia, si tratterebbe di una battaglia strategica nucleare e convenzionale aeroterrestre e nel Pacifico di una battaglia nucleare e convenzionale aeronavale. Di certo questa idea è stata vagheggiata da molti generali e gerarchi americani e filo-americani che, contrariamente al presidente Obama, non sono stati mai convinti di dover rinunciare a questa opzione per mancanza dei mezzi necessari. Rifacendo i calcoli e spremendo fino al limite le risorse statunitensi e quelle mondiali che gli Stati Uniti riuscirebbero a rastrellare con le manovre finanziarie e la «tosatura delle pecore destinate al macello»[1], le due guerre sarebbero possibili e secondo i falchi del Pentagono eliminerebbero tutti i problemi. Due sole condizioni: farlo presto e risolvere in poco tempo i confitti. Sulla prima sono tutti d’accordo; sono anni che si stanno affilando le armi e che il cerchio attorno all’Eurasia si stringe sempre di più, sulla seconda la storia degli ultimi trent’anni induce alla cautela. Le guerre non si vincono più, perché non finiscono mai.

Il dominio del mondo

Nessuno sta invadendo il mondo e nemmeno minacciando militarmente gli Stati Uniti e i loro alleati. Eppure stanno prevalendo l’isteria e la «chiamata alle armi». In effetti gli Stati Uniti stanno galoppando da soli verso la perdita del controllo sul mondo. I tempi del «destino manifesto», dell’«innocenza», dell’«eccezionalità» e dell’incontrastata imposizione della superpotenza militare americana sono finiti e non per colpa dei cinesi o dei russi. Secondo Qiao Liang sono finiti anche i tempi dello sfruttamento economico-finanziario americano che con il monopolio del dollaro e i trucchi della finanza internazionale per oltre quarant’anni ha garantito agli Stati Uniti uno stile di vita migliore e una ricchezza maggiore. Il «destino manifesto», che sembra un’espressione obsoleta con la quale gli Stati Uniti esprimevano la convinzione di avere l’ovvia (manifesta) e inevitabile (destino) «missione» di espandersi, diffondendo la loro forma di libertà e democrazia, è ancora un cardine della geopolitica americana come lo è stato all’epoca dell’espansione nel continente americano, poi verso l’Oceano Pacifico e quindi nelle aree degli imperi europei e coloniali. Tale idea si unisce ancora alle reminiscenze dell’«eccezionalismo» americano, del «nazionalismo romantico» e del credo nella naturale superiorità di quella che in altri tempi veniva chiamata la «razza anglosassone». Purtroppo sono reminiscenze ormai incancrenite, malgrado tutte le dichiarazioni dei vari diritti inalienabili per la cui salvaguardia gli americani dicono di combattere. Alcuni giorni fa il democraticissimo New York Times ha commentato con evidente rammarico la vittoria di atleti americani di origini asiatiche alle Olimpiadi invernali «in discipline un tempo prerogativa dei “bianchi”» (sic). L’innocenza si è persa con le nefandezze commesse prima, durante e dopo tutti i confitti, le destabilizzazioni, i colpi di Stato, gli omicidi e i crimini di guerra. L’eccezionalità americana è svanita con le pratiche di sfruttamento paradossalmente identiche a quelle degli imperi adottate dagli Stati Uniti nei riguardi del resto del mondo fin dalla loro formazione. Si deve a Kissinger la frase «gli Stati Uniti non hanno alleati, ma solo interessi». E infatti i padri fondatori hanno scritto la costituzione esplicitando i loro interessi: unità, giustizia e tranquillità interna, difesa comune, benessere e libertà «per noi stessi e i nostri posteri». E infine il mito della superpotenza militare – stabilito durante la seconda guerra mondiale e consolidato con i bombardamenti a tappeto sull’Europa e sul Giappone – si è infranto durante tutte le successive, penose avventure «missionarie» in Corea, Vietnam, Iraq, Somalia, Siria e Afghanistan. Invece di prendere atto dei mutamenti negli assetti globali e adoperarsi per un adattamento a nuovi equilibri e nuove esigenze, gli Stati Uniti rimangono ancorati ai «giochi di potere degli imperi coloniali» e agli «stereotipi ideologici» della guerra fredda. Mentre i primi sono oggetto di studio attento sul piano accademico e politico i secondi sono patrimonio comune della stragrande maggioranza degli americani. Giochi di potere e stereotipi si trovano combinati nella scelta quasi forzata degli strumenti della politica di forza: economica, finanziaria e militare. Siamo ancora al vecchio detto attribuito a Fulbright «se hai solo il martello, tutto ciò che vedi sono chiodi», oppure alla famosa frase di Dean Rusk, peraltro persona mite e ragionevole, «l’intervento militare all’estero è una costante geopolitica americana».

Gli inviti della NATO

Nel 1997 la Nato invita nell’Alleanza Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria. Così si forma la prima linea dell’espansione a est. Nel 2002 su proposta britannica vengono invitate altre sette nazioni (Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania), completando l’accerchiamento della Russia a nord e sud-est. Nel 2008 Mosca impedisce l’adesione della Georgia e nel 2014 si oppone con forza a quella dell’Ucraina. Nel 2008 si tappano i «buchi» di Albania e Croazia, nel 2015 e nel 2018 quelli del Montenegro e della Macedonia del Nord. Con otto allargamenti successivi e trenta Stati membri schierati attorno alla Russia la reazione di Putin non era imprevedibile. Stephen Walt, editorialista di Foreign Policy e professore a Harvard ha recentemente scritto che «la grande tragedia è che tutta questa vicenda era evitabile»[2]. «Se gli Stati Uniti e i loro alleati europei non avessero ceduto all’arroganza, all’illusione e all’idealismo liberal[3] e si fossero invece affidati alle intuizioni fondamentali del realismo, la crisi attuale non si sarebbe verificata. Infatti, la Russia probabilmente non avrebbe mai preso la Crimea, e l’Ucraina sarebbe più sicura oggi. Il mondo sta pagando un prezzo alto per aver fatto affidamento su una teoria errata della politica mondiale».

Mentre il realismo parte dal presupposto che la guerra è sempre possibile e che non ci si può fidare degli altri, il liberalismo divide il mondo in «Stati buoni» (quelli che incarnano i valori liberali) e «Stati cattivi»  (praticamente tutti gli altri) e sostiene che i confitti nascono principalmente dagli impulsi aggressivi di autocrati, dittatori e altri leader illiberali. «Per i liberal, la soluzione è quella di rovesciare i tiranni e diffondere la democrazia, convinti che le democrazie non combattano l’una contro l’altra, specialmente quando sono legate dal commercio, dagli investimenti e da un insieme di regole concordate». In realtà (tanto per essere realisti) quella descritta da Walt non era una visione rosea delle relazioni internazionali, ma una vera e propria forzatura logica. Infatti, gli oppositori dell’allargamento della Nato, tra cui noti esperti come George Kennan, Michael Mandelbaum e l’ex segretario alla difesa William Perry, avvertirono che la Russia lo avrebbe inevitabilmente considerato come una minaccia e che andare avanti avrebbe avvelenato le relazioni con Mosca. I sostenitori dell’espansione vinsero il dibattito sostenendo che avrebbe aiutato a consolidare le nuove democrazie nell’Europa orientale e centrale e a creare una «vasta zona di pace» in Europa. Secondo loro, non importava che alcuni dei nuovi membri della Nato avessero poco o nessun valore militare per l’Alleanza e potessero essere difficili da difendere, perché «la pace sarebbe stata così solida e duratura che qualsiasi promessa di proteggere questi nuovi alleati non avrebbe mai dovuto essere onorata». Si trattava in sostanza di un cinico bluff camuffato da idealismo che oggi sta per essere scoperto in tutta la sua drammaticità. «I dubbi della Russia sono aumentati quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq nel 2003 – una decisione che ha mostrato un certo disprezzo intenzionale per il diritto internazionale». Questo comportamento ripetuto nella crisi libica e in quella siriana «spiega perché Mosca sta ora insistendo su garanzie scritte». In realtà tali garanzie non sarebbero necessarie se la Nato e in primis il suo ineffabile e muscolare segretario generale, il norvegese Stoltenberg, si attenessero alla lettera e allo spirito del Trattato Atlantico. Finché si permette alla Nato e a molti suoi membri di ignorare il trattato significa che ogni altro impegno scritto sarebbe un esercizio inutile e perfino dannoso. Infatti, l’articolo 1 impegna le parti a rispettare lo statuto delle Nazioni Unite e a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale che pregiudichi la pace e la sicurezza. L’allargamento è stato da subito una controversia internazionale che pregiudicava la sicurezza e la pace. Gli articoli 5 e 6 sulla cosiddetta mutua difesa si riferiscono ai territori dei singoli Stati membri minacciati da attacco armato. E l’Ucraina non è compresa. L’articolo 7 stabilisce che il Trattato non pregiudica e non dovrà essere considerato in alcun modo lesivo dei diritti e degli obblighi derivanti dallo statuto alle parti che sono membri delle Nazioni Unite o della responsabilità primaria del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.

La Russia è parte delle Nazioni Unite e la politica della Nato ne ha leso i diritti, compromettendo la pace e la sicurezza di tutto il mondo. Da questa lesione parte la reazione russa e sorprende che non sia scattata prima. L’articolo 10 stabilisce che le parti «possono», con accordo unanime, invitare a aderire al trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei princìpi dello stesso e di «contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale». Durante il vertice della Nato di Bucarest del 2008, il presidente americano G.W. Bush, nonostante il parere contrario della propria intelligence[4], parlò espressamente dell’ammissione alla Nato di Georgia e Ucraina. Paesi che non potevano contribuire alla sicurezza dell’Alleanza, se non peggiorandola. Inoltre, il vincolo dell’unanimità conferisce a ciascun membro un pari diritto di veto che ne rispetta la dignità ma lo rende anche individualmente responsabile delle conseguenze del mancato esercizio di tale diritto. Quindi non impedire l’ingresso nell’Alleanza di tutti quei paesi che avrebbero alterato gli equilibri, minacciato la propria sicurezza e quella di altri paesi è stata una violazione del Trattato Atlantico e dello stesso statuto dell’Onu. Tutti sapevano che la Polonia e i paesi baltici avrebbero alterato tali equilibri e la Russia non era nelle condizioni d’impedirlo. Lo erano però la Germania, la Norvegia, la Francia, l’Italia e perfino il Lussemburgo, ma non hanno fatto o detto nulla. A partire dal 1997 ci sono stati vari cicli di ammissione di nuovi membri, fino all’adesione della Macedonia nel 2018, che hanno portato a trenta i membri dell’Alleanza e a chiudere la Russia su tutti i lati tranne quello ucraino. Oggi tutti assistono stupiti al fatto che la Federazione è in grado di far valere i propri diritti e soprattutto le ragioni della propria sicurezza. Eppure la retorica imposta da un’annosa velina americana passata alla Nato continua a minacciare la sicurezza di tutti. «È un luogo comune in Occidente», scrive Walt, «difendere l’espansione della Nato e dare la colpa della crisi ucraina solo a Putin. Ma Putin non è l’unico responsabile della crisi in corso, e l’indignazione morale per le sue azioni o il suo carattere non è una strategia. Né è probabile che sanzioni maggiori e più dure lo inducano a cedere alle richieste occidentali. Per quanto spiacevole possa essere, gli Stati Uniti e i loro alleati devono riconoscere che l’allineamento geopolitico dell’Ucraina è un interesse vitale per la Russia, che è disposta a usare la forza per difenderlo. E questo non perché Putin è uno spietato autocrate con una nostalgica passione per il vecchio passato sovietico. Le grandi potenze non sono mai indifferenti alle forze geostrategiche schierate ai loro confini e la Russia si preoccuperebbe profondamente dell’allineamento geopolitico dell’Ucraina anche se qualcun altro fosse al comando. L’indisponibilità degli Stati Uniti e dell’Europa ad accettare questa realtà di base è una delle ragioni principali per cui il mondo è in questa crisi oggi».

La guerra alla Jugoslavia

A queste considerazioni molto razionali e condivisibili si può soltanto osservare che l’idealismo attribuito ai liberal statunitensi è una comoda favoletta nella quale non crede più nessuno né in America né tantomeno altrove. Ogni pretesa idealista è stata smentita dai fatti. Non devono perciò sorprendere le azioni di Mosca e diventano vergognose le posizioni di quegli europei che oggi si ergono a garanti dell’integrità territoriale ucraina quando sono stati i primi a violare il diritto internazionale e l’integrità di un paese sovrano europeo con la guerra e l’occupazione militare. L’Ucraina è oggi lo specchio di ciò che gli Stati Uniti, la Nato e l’Europa hanno fatto alla Serbia (al tempo Repubblica Federale di Jugoslavia comprendente il Montenegro) in e per il Kosovo. Erano tutti «liberal» quelli che fecero fallire i colloqui di Rambouillet per attaccare la Serbia, quelli che s’inventarono la catastrofe umanitaria per legittimare l’aggressione armata chiamandola «ingerenza umanitaria». Erano idealisti quelli che bombardarono la Serbia per settanta giorni e con il pretesto umanitario inviarono contingenti militari a occupare il Kosovo, con un’operazione di «pace» che dura da 24 anni e che non ha ancora permesso una soluzione ragionevole, razionale e concordata per la stabilizzazione definitiva. Erano idealisti quelli che hanno riconosciuto l’autoproclamazione della Repubblica del Kosovo, sottraendo alla sovranità di Belgrado il cuore della cultura slava. Allora, è idealista anche Putin che con l’Ucraina ha fatto proprio il «modello Kosovo» inventato da noi e che tuttavia anche con l’invasione non ha ancora raggiunto la ferocia di uno di quei settanta giorni di bombardamenti che noi destinammo alla Serbia. Ovviamente un cattivo esempio non può essere seguito come uno buono. E quindi non sono «canaglie», ma saggi realisti, quei paesi che subiscono ricatti e sanzioni dagli Stati Uniti perché si rifiutano di riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Sanno che facendolo avallerebbero in modo palese le pretese secessioniste all’interno dei propri Stati. Se il «modello Kosovo» della Nato copiato da Putin diventasse una prassi la Cina se la dovrebbe vedere con le pretese uigure, tibetane e di Hong Kong e noi ce la dovremmo vedere con i nostri separatisti del Nord o gli indipendentisti borbonici. Si può essere certi che la Cina non riconoscerà l’indipendenza delle due repubbliche del Donbas e così faranno altri paesi occidentali o ipocritamente «idealisti». Ma Putin ha pensato anche a questo e se la foglia di fico dell’intervento umanitario o della cooperazione all’interno delle proprie organizzazioni regionali (Csi e Csto), che prevede la possibilità d’interventi di peacekeeping (come fatto con l’Ossezia), non dovesse bastare ha certamente pronta la soluzione dell’annessione referendaria già usata in Crimea. In quel modo le due repubbliche sarebbero parte integrante della Federazione e i relativi problemi sarebbero «interni». E quindi troverebbe molto d’accordo la Cina che da decenni si oppone alle interferenze straniere nelle questioni «interne» di Tibet, Xinjiang, Hong Kong e Taiwan. Il cattivo esempio del Kosovo è infatti tale non solo per come è stata trattata la Serbia, ma per come da allora l’intero teatro balcanico è stato lasciato da tutti gli occidentali, idealisti e realisti, in un penoso limbo.

Previsione possibile

Conclusione: la previsione degli sviluppi futuri della crisi ucraina non è impossibile. Il passato è uno e i futuri sono tanti ma dipendono da ciò che si è fatto nel passato e si fa nel presente. Con questa chiave gli avvenimenti del passato che hanno portato a questa situazione sono chiari, basta soltanto accettarli per ciò che sono e non per ciò che vorremmo fossero stati. Il presente non è confuso o caotico, ma soltanto volutamente manipolato da chi si rifiuta di accettarlo. Il futuro più probabile non è detto che si realizzi perché sulle decisioni dei grandi uomini incidono spesso l’insipienza e le miserie umane dei loro consiglieri. In questo caso Biden parte svantaggiato: troppi consiglieri, troppi esperti e spin doctors abili soltanto nel manipolare le informazioni e confezionare propaganda, mentre lui deve navigare a vista secondo l’umore degli oppositori e dei sondaggisti. Putin e Xi Jinping sono avvantaggiati non tanto perché non ascoltano nessuno e non devono rispondere a nessuno, ma perché hanno avuto molto tempo per decidere e sviluppare una strategia che comprende anche le risposte alle varie contingenze in caso di fallimento della politica. A tale strategia si riferiscono tutte le pianificazioni militari e non di cui fanno parte le misure da adottare in caso di fallimento della diplomazia (come accaduto), la delegittimazione politica (come accaduto), la propaganda (o guerra psicologica e dell’informazione) che prevede l’approntamento di comunicati stampa e video per ciascuna opzione e le risposte operative alle prevedibili accuse di aggressione da parte di chi ha fatto e fa le stesse cose chiamandole operazioni umanitarie.

Per quanto riguarda la situazione politico-militare, nelle prime fasi gli eventi si stavano sviluppando in due direzioni non divergenti. La prima, sanzioni per la Russia e risposta di Mosca con annessione referendaria del Donbas. Quindi, passaggio alla guerra diretta tra Russia e Ucraina. La seconda, provocazione della Nato e/o di Gran Bretagna e Norvegia che, con il pretesto di difendere le repubbliche baltiche e la Polonia, avrebbero potuto attaccare in un modo qualsiasi le forze russe o bielorusse. Quindi, guerra diretta fra Russia e Nato. In entrambi i casi vi è la certezza di una forte crisi economica ed energetica in Europa e della conseguente frattura interna alla stessa Unione e alla Nato. Le due strade conducevano al disastro ma potevano essere bloccate: la prima impedendo l’annessione nel Donbas; la seconda impedendo qualsiasi strumentalizzazione o pretesto della Nato. Quindi la soluzione migliore per attivare entrambi i blocchi si poteva sviluppare su due piani: su quello «tattico» occorreva superare lo stallo conflittuale nel Donbas con la forza o con i negoziati. E qui chi avrebbe dovuto sedersi a un tavolo non erano soltanto i politici e gli ambasciatori ma i capi militari delle parti contrapposte: comandanti ucraini e russi. La situazione in Kosovo si sbloccò nel 1999 con gli accordi di Kumanovo fra comandanti Nato e serbi. I bombardamenti non avevano sconfitto i serbi e il buon senso fra comandanti contrapposti evitò un vero massacro. La cosa ovviamente non piacque agli americani, ma la risoluzione delle Nazioni Unite 1244 poté essere formulata soltanto sulla base di tali accordi.

La situazione politico-militare a livello strategico riguardava invece Russia e Stati Uniti, che avrebbero dovuto confrontarsi su una base concreta di opzioni e compromessi. Ed è stata la chiusura di questo secondo livello a creare la situazione di oggi. Una chiusura che non è partita da Putin o da Biden, ma dalla Nato. Questa volta, però, sono venuti allo scoperto coloro che nell’ambito dell’Alleanza non hanno mai voluto né pace né sicurezza in Europa. La Gran Bretagna, che continua a forzare gli eventi e con accordi bilaterali coi paesi dell’Europa settentrionale sta destabilizzando l’intero confine Nord della Russia. La Polonia, per cui Italia, Germania e Ungheria avrebbero «disonorato» l’Europa per non aver soddisfatto le richieste (di chi?) di sanzioni più pesanti nei confronti della Russia. Non si sa se sia vero, ma se lo fosse, per la prima volta nella storia della Nato tre paesi membri non avrebbero ceduto alle «richieste» di qualcuno per difendere l’Europa e salvarla dallo sfacelo. Ed è venuta fuori la figura dell’uomo che ha conquistato l’Ucraina facendola ridere e ora rischia di perderla facendola piangere.

Oggi la soluzione tattica è più difficile perché con l’invasione il livello decisionale si è alzato al livello politico. Comunque gli accordi fra comandanti contrapposti sono ancora possibili visto che l’invasione russa non è una manovra unitaria su vasta scala, come definita ed esecrata dai nostri cronisti, ma una serie di penetrazioni specifiche in varie aree connesse dallo scopo strategico, ma tatticamente indipendenti.

La soluzione è possibile

Al livello politico-strategico Russia e Stati Uniti devono confrontarsi su una base concreta e la migliore in questo momento è l’impegno russo a non proseguire la pressione militare, a non annettere le repubbliche del Donbas e consentire all’Ucraina e alle stesse repubbliche di chiedere l’accesso all’Unione Europea. A questo si affianca l’impegno degli Stati Uniti a impedire alla Nato ulteriori espansioni in Europa e invitare l’Ucraina a riconoscere l’indipendenza delle due repubbliche del Donbas la cui stabilizzazione potrà essere garantita da una forza diretta dalle Nazioni Unite; infine è necessario l’impegno di entrambi a sospendere e ridurre gli armamenti e gli schieramenti militari in Europa e ripristinare le misure di fiducia reciproca a suo tempo attuate nel controllo degli armamenti. Da parte sua, l’Unione europea deve essere «riformata» e più aperta verso il centro euroasiatico. La Cina, in questa fase, può essere lasciata fuori dai contatti diretti ma può agire in ambito Onu e altrove come equilibratrice e mediatrice tra le posizioni statunitensi e quelle russe.

In ogni caso è necessaria una dose di grande lucidità e buon senso per uscire da una situazione veramente grave, non soltanto perché in gioco ci sono un po’ di poltrone del potere e qualche gasdotto. Le condanne dei nostri governi per l’invasione sono ampiamente giustificate da un’azione che, pur fotocopiata sui modelli Nato, rimane inaccettabile. Inoltre lo specchio kosovaro è deformante. La Nato che intervenne contro la Serbia era un gigantesco apparato militare di cui gli Stati Uniti erano la prima linea. Furono loro a far fallire le iniziative diplomatiche e ad avallare i falsi massacri, come quello di Ra0ak, addotti a pretesto umanitario. Furono loro a sdoganare quella che pochi mesi prima avevano definito come organizzazione terrorista, facendola diventare «patriottica». Furono loro ad assumere in sede Nato la direzione della guerra e la gestione dei bombardamenti. La sproporzione fra Nato e Serbia non lasciava alcuna chance alla difesa militare e neppure alla resistenza popolare serba contro l’invasione che si svolse in territorio kosovaro. Oggi in Ucraina gli Stati Uniti sono distanti e distratti e per questo l’Alleanza Atlantica, fortunatamente, non ha ancora ripetuto l’errore giuridico commesso con il Kosovo. La popolazione urbana è in grado di opporsi alle penetrazioni russe «grazie» alle armi inviate dall’Europa, ma di fatto la Nato si limita a osservare dall’esterno e proteggere i paesi membri confinanti mentre l’Ucraina deve sbrigarsela da sola. Nessuno si sognò di punire la Nato per l’invasione, ma si punì la Serbia con bombardamenti, sottrazione di sovranità, sanzioni e isolamento.

Le prime sanzioni contro la Russia sembrano meno gravi di quelle prevedibili, ma Putin non si deve illudere. La vendetta statunitense e della Nato in questi casi è più feroce dei bombardamenti. Tutti i leader che periodicamente vengono definiti pazzi prima o poi diventano obiettivi di «killeraggio» fisico o politico per supposti crimini umanitari e «contro la pace». La strategia russa, contrariamente a quella della Nato di due decenni fa, ha scopi e orizzonti temporali chiari. Il primo, a lungo termine, è il riassetto della sicurezza in Europa; il secondo, limitato, è la garanzia «legale» della non adesione dell’Ucraina alla Nato; il terzo, anch’esso limitato, è il riassorbimento dei territori russofoni o etnicamente russi controllati da paesi «ostili» o vessatori nei confronti della popolazione russa. Il quarto è garantire la libertà di movimento nelle zone costiere e marittime di tutta la Russia. Tali scopi fluiscono dalla necessità politicostrategica di sottrarsi all’accerchiamento e all’isolamento da parte degli Stati Uniti e relativi alleati. Ognuno di questi scopi investe sia la politica (estera e interna) sia la diplomazia, così come l’uso della forza. L’invasione armata dell’Ucraina di questi giorni è il naturale sbocco del fallimento della diplomazia per il conseguimento dei due scopi limitati (il secondo e il terzo). Di fronte all’inutilità e all’indisponibilità sostanziale degli Usa, della Nato e dell’Unione Europea a rivedere le loro posizioni sull’Ucraina, la Russia ha scelto l’opzione del riconoscimento delle repubbliche separatiste come primo passo per la conclusione a «modo suo» della guerra nel Donbas. Una guerra che dura da otto anni e che non si è mai fermata nonostante gli accordi di Minsk. Una guerra che l’Ucraina avrebbe voluto risolvere «a modo suo» coinvolgendo l’Europa, la Nato e in particolare Stati Uniti e Gran Bretagna trascinandovi il mondo. L’invio di miliardi di dollari, armi, consiglieri e truppe occidentali in Ucraina è iniziato prima della crisi nel Donbas e perfino prima dell’annessione russa della Crimea. Il riconoscimento delle repubbliche separatiste è stata un’azione prettamente politica largamente prevedibile e prevista. E tale era anche l’azione militare successiva a sostegno del recupero dei territori del Donbas, visto che Stati Uniti e Nato hanno sempre parlato d’invasione anche quando i separatisti erano veramente soli e soggetti alle angherie ucraine.

L’inimmaginabile

A queste azioni, ufficialmente preannunciate, invece di tornare a discutere come sarebbe stato logico e opportuno, Stati Uniti, Nato e Gran Bretagna hanno continuato ad alzare i toni e le minacce perfino nei confronti di alleati come Francia e Germania. Ma, cosa ancora più grave, è stata innescata l’isteria in Polonia e negli Stati baltici attraverso l’invio di truppe e aerei da combattimento, con il pretesto di difenderli da una invasione. Anche questo era prevedibile e nella pianificazione della Nato esistono decine di misure relative alla reazione alleata agli attacchi armati dall’esterno. La Nato non ha mai sottovalutato l’importanza strategica che l’allineamento dell’Ucraina ha per Mosca e per questo l’espansione è stata ancor più deliberata e provocatoria.  Ma durante questa crisi ha anche messo in connessione la questione ucraina con quella del Baltico. Di fatto, l’ammissione dell’Ucraina nella Nato servirebbe a togliere territori cuscinetto alla Russia e a costituire una copertura militare Nato dal Baltico al Mar Nero. Per ora, Mosca sta pensando a sistemare la questione ucraina unicamente sotto il profilo dell’ingresso nella Nato. Se riuscisse in breve tempo a strappare un accordo sufficientemente dignitoso potrebbe ritirare le truppe e capitalizzare i risultati. Se invece gli stessi negoziati si trasformassero in pretesti dilatori, la Russia dovrà cedere e uscire sconfitta dal quadro internazionale o giocare la misteriosa carta della «reazione nemmeno immaginabile» anticipata nell’avvertimento alla Nato.

Una frase sibillina e preoccupante, quella di Putin, perché il rischio che con un pretesto un alleato qualsiasi intervenga in Ucraina è molto elevato. Inoltre, a fianco della positiva eventualità che l’ammonimento di Putin sia un bluff, sono state già contemplate tutte le peggiori ipotesi possibili: dalla guerra strutturale su tutta l’Europa, alla cyber-war, alla guerra sulla gente, alla guerra nucleare tattica, alla guerra spaziale e alla guerra nucleare globale. Lo stesso Biden ha avvertito chi lo tira per la giacchetta sulla questione delle sanzioni che l’alternativa è la terza guerra mondiale. E se questo è vero, è anche vero che i missili intercontinentali nucleari di tutto il mondo hanno già ricevuto la programmazione degli obiettivi. La Polonia ha chiesto che vengano schierati sul suo territorio armi nucleari e la Bielorussia ha già detto che se ciò accadesse vorrebbe da Putin altrettante armi. Ma allora cos’è che non possiamo nemmeno immaginare? La risposta è lapalissiana: l’inimmaginabile è tale perché è inimmaginabile, bisogna solo preoccuparsi e basta. Magari è proprio quello che Putin vuole.

Fabio Mini

[1]  Cfr. Q. LIANG, L’arco dell’impero Con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, Gorizia 2021, Libreria Editrice Goriziana. L’espressione si riferisce alla capacità statunitense di appropriarsi della ricchezza materiale del mondo attraverso il monopolio del dollaro (merce preziosa in cambio di un pezzo di carta verde) e di attirare i capitali internazionali con le manovre sui tassi d’interesse.

[2] S. WALT, «Liberal  illusions caused the Ukrainian crisis», Foreign Policy, 11/2/2022.

 

[3] Con il termine liberal si individua una corrente politica progressista di stampo socialdemocratico e quindi di sinistra, attenta ai temi sociali e ambientali ma anche al capitalismo meritocratico e al welfare. Nell’ambito del Partito democratico e del Partito repubblicano i liberal si collocano a sinistra. Tuttavia i liberal repubblicani sono definiti «repubblicani solo di nome». I liberal non sono assimilabili ai liberali europei e italiani che si collocano al centro o al centro-destra.

[4] Dichiarazione di Fiona Hill. Cit. in S. WALT, op. cit.

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