Buongiorno a tutti e a tutte, ringrazio Antonio Carratta direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, e Giorgio Resta prorettore per il coordinamento delle attività internazionali, per la loro partecipazione e per aver consentito che il nostro convegno avesse luogo in quest’aula dell’Università di Roma Tre. Ringrazio quanti e quante hanno aderito all’iniziativa di oggi e l’hanno resa possibile, i relatori e le relatrici, in particolare Dario Ippolito che presiederà la seconda parte della giornata,
Non nascondo l’emozione di procedere alla lettura della lettera che papa Francesco ha inviato ai convegnisti scritta in spagnolo usando parole al tempo stesso calde e severe: la leggiamo nella traduzione fatta da Ferrajoli.
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Prima di introdurre i lavori credo di interpretare il sentimento di tutti i presenti nel volere inviare un saluto caloroso e riconoscente a Raniero La Valle, da sempre alla testa di importanti iniziative pacifiste, e fondatore, con Luigi Ferrajoli, del progetto per una Costituzione della Terra.
Questo è il primo convegno organizzato da Costituente Terra dopo che, nell’assemblea del 22 febbraio scorso, l’associazione ha rivisto il suo statuto, e accordato il suo programma a numerose adesioni provenienti da paesi diversi, in particolare dalla Spagna, e dall’area latino americana, oltre che da soggetti diversi, associazioni e singoli che vedono nel progetto un modello di civiltà capace di indicare una prospettiva, prefigurare – si badi: prefigurare -, un sistema giuridico-istituzionale di tipo globale, sovraordinato agli stati nazionali.
Una tale prospettiva appare come la sola in grado di contrastare le catastrofi mondiali, alcune annunciate, altre tragicamente sotto i nostri occhi, che minacciano l’abitabilità del pianeta e la sopravvivenza dell’umanità.
L’incontro risponde alla necessità e all’urgenza di contribuire al dibattito sulla guerra e sul disarmo portando all’attenzione ricerche, dati, riflessioni, e anche atti di denuncia, che aiutano a meglio comprendere, nel merito, lo stato delle cose presenti, al di fuori e oltre le informazioni propagandate o più facilmente accessibili, e conformate agli interessi di guerra.
Probabilmente a qualcuno non sarà sfuggito il titolo bobbiano a cui è intestato il convegno – Il problema della guerra e le vie della pace – un vecchio saggio del filosofo torinese (di cui peraltro ricorrono quest’anno vent’anni dalla morte), uscito nel 1979 e successivamente aggiornato in tre nuove edizioni fino all’ultima del 1997, nelle quali l’autore arriverà a riflettere anche sulle guerre degli anni Novanta: quella del Golfo, e quella della ex-Jugoslavia.
Alla luce di quelle guerre degli anni ’90 fino alle due attualmente in corso, che contraddittoriamente – rispetto allo stesso pensiero di Bobbio degli anni settanta –, fanno ancora appello alla “guerra giusta” e alla legittimità della guerra di difesa, non importa quanti siano gli attori coinvolti, e il grado di potenza distruttiva impiegato, ricorrere al titolo di quell’opera del filosofo del diritto, vale soprattutto per ricordare la presa di coscienza che Bobbio ebbe a manifestare quando incontrò il pensiero radicale di Gunther Anders e fece sua la lezione militante del filosofo tedesco; Bobbio non potè fare a meno di riconoscere, grazie ad Anders, di essere di fronte a una vera “svolta storica”, quella della situazione atomica cercando di accordarvi il suo pacifismo giuridico/istituzionale.
Le posizioni prese vent’anni dopo da Bobbio, – negli anni in cui il linguaggio giornalistico adottò l’espressione “operazione di polizia internazionale”, cui non può non rinviare l’“operazione militare speciale” russa, o peggio, quando il fronte interventista escogitò l’ossimoro inaudito di “guerra umanitaria” – quelle posizioni di Bobbio inclini a giustificare le guerre all’Iraq e alla ex Jugoslavia, preferiamo ora metterle da parte e lasciarle allo sconcerto (al rispettoso disappunto) che ingenerò in diversi suoi allievi, come Danilo Zolo e lo stesso Luigi Ferrajoli. Zolo parlò delle luci e delle ombre del pacifismo giuridico di Bobbio, mentre, sul versante cattolico, padre Ernesto Balducci si riferiva probabilmente a lui quando definì quelle posizioni belliciste “disavventure della cultura laica”.
Vale la pena di citare almeno una delle tesi di Anders di contrasto alla condizione atomica per toccare il vivo della sua inesausta battaglia morale e politica con cui anche un grande spirito scettico come Bobbio dovette misurarsi:
Ciò che può colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle “cortine”. Così, nell’età finale, non ci sono più distanze. Ognuno può colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro agli effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale, ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l’orizzonte di ciò che ci riguarda, e cioè l’orizzonte della nostra responsabilità, coincida con l’orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioè che diventi anch’esso globale. Non ci sono più che “vicini”. (G.A., Tesi sull’età atomica, in Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Milano, Linea d’ombra, 1995 (prima ed. Einaudi 1961) p.239
Richiamare la fase, per così dire, “andersiana” di Bobbio, che in quegli stessi anni era anche in rapporti con Aldo Capitini e con la sua filosofia della non-violenza, vale anche a ricordare, in questa sede, quanto fu ampio e articolato il dibattito pubblico sulla necessità del disarmo e quanto attivo ed esteso il movimento pacifista che in seguito, negli anni settanta, ebbe un ruolo decisivo nell’avversare la guerra del Vietnam e agevolarne la fine.
Il forte dissenso che l’opinione pubblica manifestò era però favorito dalla copertura giornalistica/televisiva, e anche fotografica di quella guerra e dei suoi orrori.
Il ripudio della guerra, per quelli che hanno la fortuna di non farla con il loro corpo, si alimenta delle immagini, o della capacità di immaginare, vale a dire della conoscenza della guerra: Dulce bellum inexpertis è l’adagio da cui si avvia tutta la riflessione di Erasmo contro la guerra: solo chi non la conosce, o non se la sa immaginare, può desiderarla. Per un “difetto di immaginazione e di responsabilità” – gli farà eco Gunther Anders secoli dopo – non possiamo immaginare i milioni di morti causati dalla potenza nucleare. Si possono piangere i volti singoli delle persone, non i megacorpses, ovvero megacadaveri, come è stata coniata l’unità di misura corrispondente a cento milioni di persone. La forza di dolore e di indignazione si arresta molto prima, se non riesce a gettare lo stigma di tutta la comunità internazionale sui responsabili dei 34.000 morti di Gaza (e più di 78.000 feriti, di cui il 70% sono donne e bambini).
Provate a pensare se avessimo le immagini delle sofferenze e della morte di ciascuna di quelle donne, bambine, bambini, neonati. O delle vittime civili delle guerre del Golfo, dell’Afganistan, della Jugoslavia, che si contano a centinaia di migliaia e forse milioni, morte anche a causa della fame, e delle malattie che ne sono seguite – tutte guerre a cui abbiamo prestato armi, e contingenti. Disponibili sono al più le riprese e le immagini delle macerie, ma non le prove delle mutilazioni e delle agonie degli esseri umani. <ovviamente mi riferisco ai principali canali dell’informazione>
Per questo è più facile imbattersi in foto di soldatesse sui carrarmati o che imbracciano un mitra, piuttosto che in quelle di donne ammazzate a migliaia. Nonostante sappiamo che le vittime delle guerre sono soprattutto civili, e fra queste, soprattutto donne e bambini, di loro non sappiamo nulla, non le vediamo! Se sapessimo davvero, di ciascuna di loro, non potremmo pensare ad altro, parlare di altro, avremmo ritegno a sostenere guerre per la libertà e la sicurezza.
Nel suo intervento al I Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura a Parigi nel 193 5( dove parteciparono 230 delegati di 38 paesi, tra cui tutti o quasi i grandi del Novecento, da Aragon a Bloch, da Breton, a Gide, da Musil a Pasternak, fino a Thomas Mann), Bertolt Brecht invocò: “Si abbia pietà della cultura , ma prima di tutto si abbia pietà degli uomini! La cultura è salva quando gli uomini sono salvi”.
Anche oggi se non sono salvi le donne e i bambini, non resta nulla da salvare.
Per loro vi sono molte buone intenzioni, come voluto dalla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Il tentativo, in generale, è stato quello di affrontare le questioni su sicurezza e pace internazionali attraverso una prospettiva di genere, ma, a più di vent’anni dalla sua adozione, come evidenziato recentemente dall’eurodeputata irlandese Clare Daly in un Dibattito al Parlamento Europeo (luglio 2023), vi è anche il rischio di femminilizzare le forze armate piuttosto che disarmare i conflitti. E, in ogni caso, per quanto riguarda l’Italia, il IV PAN Piano d’Azione Nazionale “Donne, Pace e Sicurezza”, sempre rinnovato e finanziato fin qui da tutti i governi, per la prima volta con una donna a capo del governo, per quest’anno non è stato finanziato.
Sempre la stessa condizione della invisibilità delle vittime e della loro calcolata irrilevanza si pone con l’impiego delle tecnologie digitali più avanzate, nelle nuove guerre di annientamento.
Con l’abbattimento dei bersagli programmati dall’intelligenza artificiale, compreso il numero dei civili sacrificabili, il teatro di guerra è digitalizzato, fatto oggetto di un algoritmo e reso fulmineo. Il massacro trascende tempi e distanze, e può rinunciare finanche al sentimento d’odio. Se errore c’è, come c’è, non si tratta di errore umano, ma dell’algoritmo.
Il doppio uso, civile e militare, della tecnologia c’è sempre stato; oggi però esso è divenuto inestricabile nell’abbraccio tra apparati militari e piattaforme digitali. Dati, infrastrutture satellitari, sistemi cloud sono reimpiegati nella guerra in un intreccio di implicazioni non solo strategico-militari, ma economiche, politiche e decisionali.
Ma, da quando siamo entrati nell’era atomica, ognuno è una vittima designata, tenuta in ostaggio. La detenzione stessa delle armi atomiche è fuorilegge, il ricatto in esse contenuto della distruzione totale è una minaccia di morte in atto, che svela quale sia il vero volto della “deterrenza”, ogni volta che si contrappongono potenze nucleari: nella crisi dei missili a Cuba e, oggi, nel conflitto russo-ucraino. Con la differenza che allora la crisi, che allarmò il mondo intero, venne superata in 13 giorni di fitte trattative. Oggi quella dimensione di intollerabile allerta è alimentata di continuo in un gioco al rialzo che, senza alcun riguardo rispetto ai principi dell’umanità e ai dettami della coscienza pubblica, e in spregio a tutti i trattati che lo vietano, osa ormai minacciare apertamente il ricorso all’arma nucleare, non strategica, ma “solo” tattica.
La guerra fredda spaventava più di quella calda odierna. Nelle risposte alle due interrogazioni parlamentari che si sono avute nel 2005 (Governo Berlusconi) prima firmataria Elettra Deiana e nel 2014, con la deputata Basilio (Governo Letta) riguardo alle circostanze di violazione da parte dell’Italia del Trattato di non proliferazione nucleare, si può notare, oltre all’opacità delle informazioni, e allo stato di minorità nel quale viene relegato il cittadino della repubblica, il tono solenne con cui viene riaffermata l’imperiosità del patto atlantico.
Una realtà di rischio incommensurabile come è la situazione atomica, che già ha effetti gravi sull’ambiente, sulla salute delle popolazioni che vivono nelle vicinanze degli arsenali e nel raggio d’azione delle esercitazioni e dei test nucleari, poggia esclusivamente sul potere autoritario e indiscusso dei vertici di governo, e dall’altro poggia sul gioco d’azzardo, criminale e puerile, di una scommessa psicologica, ovvero, che vi sia “nella mente del potenziale avversario, una totale incertezza”, nella convinzione “che un’aggressione contro la NATO , non è un’opzione percorribile”. Parole testuali.
Ora, senza dimenticare le 59 guerre in corso, il riferimento alle due vicine è d’obbligo. Tanto l’una offre la massima difficoltà di essere letta e compresa e risolta, tanto l’altra è palese, inequivocabile nella sua condotta e nei suoi obiettivi finali.
Lo scandalo è doppio, non solo perché le guerre sono due, ma perché, in continuità l’una con l’altra, in coesistenza l’una con l’altra, esse vengono condotte nella violazione dei principi che hanno fondato dopo la seconda guerra mondiale la nostra democrazia, e cioè il ripudio della guerra e l’ingiunzione del “mai più”. La violazione di quei due principi, che avviene insieme, dovrebbe produrre un doppio scandalo: a) lo scandalo dell’arma nucleare, che peraltro è una contraddizione in termini non essendo un’arma, ma una catastrofe, che viene nominata apertamente non costituendo più un tabù, b) lo scandalo di un potenziale genocidio, che al contrario, non può essere né nominato, né impedito. Sono le due facce di una stessa realtà bellica, che da una parte mistifica e falsifica tutto, dagli atti di sabotaggio, alle immagini diffuse sui principali giornali, alla sua durata, al suo andamento, e soprattutto al numero delle vittime, da entrambe le parti, perché altrimenti si dovrebbe ammettere, da parte di chi la promuove, o che la guerra è persa, o che è inutile, o che è un crimine.
Dall’altra parte non vengono posti limiti al governo di Israele di agire come se fosse dotato di potere assoluto, come le potenze di Antico Regime. L’impunità del governo di Israele, almeno finora, è la stessa di cui ha goduto e gode il governo che ha utilizzato la bomba a Hiroshima e Nagasaki.
Per ottenere consenso sociale ampio e duraturo non è sufficiente occupare i media. Occorre insediarsi nelle istituzioni che sono massimamente formative e prestigiose: che sono la scuola e l’università. Occorre educare alla cultura militare, e stringere accordi con gli atenei: un convegno dello scorso 10 maggio a cura dell’”Osservatorio contro la militarizzazione della scuola e dell’università”, ha mostrato con ricchezza di relazioni e di casi documentati, il grado di penetrazione già raggiunto nelle due istituzioni pubbliche, da parte dell’industria bellica e delle forze armate.
Ma, di rimando, la popolazione universitaria in gran parte del mondo occidentale non resta passiva, come già in passato, a dimostrazione che scuola e università, prima che palestre di competenze e competizione, e merito, sono luoghi di esperienze, di conoscenza e di incubazione delle trasformazioni sociali.
Le conquiste del diritto internazionale, che con i trattati di non proliferazione e di proibizione delle armi nucleari hanno messo fuorilegge costruttori e detentori e trafficanti della bomba, dopo decenni di esecrazione e suppliche di scienziati, di credenti e di atei in tutto il mondo, e di attività instancabile, e spesso invisibile, da parte della società civile, quelle conquiste del diritto reclamano una nuova convergenza di saperi, di pratiche e di sentimenti, affinché ciascuno non si limiti a “pensare i propri pensieri”.
Prima di passare la parola a Luigi Ferrajoli, concludo, ancora una volta, con le parole di Gunther Anders : «Ciò che può colpire tutti ci riguarda tutti. Il tetto che sta per crollare diventa il nostro tetto. Come morituri ora siamo veramente noi … Ora lo siamo. Dimostriamo che lo possiamo essere anche da vivi». Che è un modo per tornare a ringraziare papa Francesco per le sue parole di vicinanza, che tanto somigliano a quelle appena pronunciate: «Nessuno deve sentirsi estraneo a ciò che succede nella nostra casa comune. E’ così che il diritto deve attuarsi e rendersi effettivo, differenziandosi dalle mere dichiarazioni di principio». (Dalla lettera di Francesco).
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