Newsletter n. 62 del 2 febbraio 2022 – IL SEGRETO

Cari Amiche e Amici, La rielezione di Mattarella a presidente della Repubblica, che ha suscitato un generale consenso, può tuttavia prestarsi a manovre di sovvertimento costituzionale che è necessario fronteggiare. […]

Cari Amiche e Amici,
La rielezione di Mattarella a presidente della Repubblica, che ha suscitato un generale consenso, può tuttavia prestarsi a manovre di sovvertimento costituzionale che è necessario fronteggiare. La prima consiste nella delegittimazione dell’attuale sistema per l’elezione del capo dello Stato che invece si è dimostrato validissimo. Esso è giunto al risultato in soli cinque giorni, fortemente rallentati peraltro dalla pandemia che ha costretto alla rarefazione del voto. Ha anche efficacemente fermato la corsa di candidature del tutto inappropriate: prima di tutto l’autocandidatura di Berlusconi che la procedura di tipo parlamentare rendeva irrealistica ma che una procedura plebiscitaria attraverso un voto popolare avrebbe invece reso possibile; allo stesso modo un’elezione popolare avrebbe reso plausibile il falsissimo argomento di una dovuta alternanza tra “presidente di sinistra” e “presidente di destra”, aprendo la strada ai Trump e ai Goldwater di turno. Si è pure confermata la validità del sistema parlamentare integrato dalle rappresentanze regionali che prevede come salutare il formarsi di maggioranze diverse per le elezioni al Parlamento e quella al Quirinale mediante la intenzionale esclusione della sincronia tra esse, con evidente vantaggio per la divisione e il reciproco controllo dei poteri. Il risvolto negativo è semmai che il raddoppio di un lungo settennato possa portare con sé un’errata percezione di un rapporto di necessità tra il destino di una persona e il destino del Paese, con l’idea sullo sfondo dell’Uomo della Provvidenza o dell’uomo solo (e non certo della donna!) al comando.
Né vale l’argomento che i social e le maratone televisive  polarizzino oggi l’attenzione dell’opinione pubblica sui palazzi del potere, come settanta anni fa, quando questo processo elettorale fu concepito, non era prevedibile, perché anzi questo argomento lo avvalora per il più largo coinvolgimento che comporta; d’altra parte anche in questo caso una ragionevole durata dello spettacolo elettorale mentre è servita a dare il pane  ai giornalisti (anche se sempre gli stessi con inevitabile usura dei rispettivi volti) non ha bloccato per troppo tempo i lavori in corso nel Paese.
Il vero rischio è oggi quello di una deriva verso il presidenzialismo, non solo per la suggestione esercitata dal rinnovo del mandato a Mattarella, ma anche per la esplicita diffamazione dei partiti e delle loro leadership che è stata perpetrata durante tutta la vicenda, mentre proprio le leadership (e non i “peones” come con altrettanto disprezzo sono stati celebrati come protagonisti i semplici parlamentari) hanno condotto il gioco  compreso il suo esito, deciso nel vertice finale mentre centinaia di grandi elettori erano tenuti in surplace con l’astensione.
Il vero regista dell’operazione è stato del resto il segretario del partito più sperimentato, Enrico Letta, che col realismo di una lunga esperienza parlamentare ha sempre saputo di non avere in mano le carte se non per la conferma di Mattarella. Ciò lo ha condotto a non fare mai alcun nome, tanto meno dell’unico veramente desiderato, cosa resa più agevole dal grande successo mediatico del trasloco degli scatoloni presidenziali e ha permesso ai suoi luogotenenti di “farlo crescere” nelle urne, come è stato apertamente ammesso, nella ben assecondata disattenzione generale.
Il rischio di una caduta in un presidenzialismo monocratico mediante un’elezione popolare diretta è ora aumentato per il fatto che l’ha esaltato, come il proprio “sogno”, l’attore politico che, conformemente al ruolo di guastatore abituale che si è ritagliato nell’attuale congiuntura, ha sbarrato la strada all’unica candidata apprezzata da tutti e giunta fino a un passo dall’elezione.  L’attore politico è stato Renzi, e la candidata era Elisabetta Belloni, che è entrata in scena come  parte di una rosa proposta  da Cinque Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, con la partecipazione straordinaria di Letta, in grado dunque di coagulare una maggioranza schiacciante dell’Assemblea elettorale, È stato questo fausto evento, a un passo dal realizzarsi, che ha miracolosamente prodotto la repentina conclusione della vicenda, l’inopinato ritorno in campo del presidente Mattarella, la rinuncia definitiva di Draghi, la reprimenda del ministro degli Esteri Di Maio al suo capopartito Conte, e il tripudio finale.
Le circostanze e le concomitanze sono tali che incuriosisce la domanda sul perché la candidatura Belloni sia stata così facilmente sventata. Non potendo ammettersi che la causa ne sia stata una parossistica misoginia di tutto il sistema, occorre accogliere la motivazione addotta e presa per buona che non si potesse portare alla presidenza della Repubblica la responsabile (da sette mesi) dei Servizi di Sicurezza. Ma  allora resta da chiedersi il perché. Non si trattava infatti di fare presidente della Repubblica il capo della Stasi, del KGB, della CIA, del Mossad o magari della Spectre, a volerci  mettere dentro anche una tipologia di jamesbondiana memoria; si trattava invece della direttrice generale dei Servizi “segreti” italiani, a capo dei quali c’è il presidente del Consiglio. Per quanto essi in passato siano stati deviati,  si dovrebbe spiegare perché oggi sia infamante o inabilitante dirigerli; o chiedersi  se vi sia qualche norma di purità rituale o pericolo  per qualcuno a far sì che una persona con più di cinquant’anni investita di tale incarico sia la sola in Italia a non godere del diritto civile e politico di fare il presidente della Repubblica; questa sì che sarebbe una “sgrammaticatura” costituzionale, come è stato ammesso dallo stesso segretario Letta, mentre non è credibile che a preoccuparsi della grammatica costituzionale sia chi a suo tempo ne voleva sovvertire la sintassi dimezzando la rappresentanza e abolendo il Senato. A meno che a non volerlo fosse qualche Servizio, per nulla segreto,  straniero, dal momento che sarebbe un “delirio”, come ha sostenuto platealmente Cacciari sull’Espresso, eleggere qualcuno che non goda “della fiducia delle grandi potenze economico-finanziarie da cui dipendono i nostri destini”, o magari fosse l’Arabia Saudita.  Così il segreto rimane: ma “per favore” la prossima volta ditelo sui tetti.
Nel sito pubblichiamo  un appello urgente, aperto alle firme, contro le provocazioni che potrebbero portare a una guerra in Europa e nel mondo. Pubblichiamo anche un vecchio discorso di Palmiro Togliatti che, al di là delle contingenze politiche del tempo, illustra il valore permanente della proporzionale in un sistema rappresentativo, e un contributo di Raniero La Valle sul problema della collocazione costituzionale delle religioni  nella nuova società globale.
Con i più cordiali saluti

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