1. Il neopopulismo securitario e i suoi danni politici – Ho molto apprezzato il titolo del vostro convegno, “un mare di vergogna” nel quale, a causa delle politiche delle nostre istituzioni, rischia di naufragare la nostra civiltà giuridica e politica. La vergogna consiste anzitutto nelle innumerevoli violazioni del diritto internazionale e dei diritti fondamentali stabiliti nella nostra Costituzione e nella Carta europea dei diritti in tema di libertà personale, di diritto d’asilo, di divieto di respingimenti collettivi e di dovere di soccorso in mare. Ma c’è un’altra vergogna, forse ancor più grave perché in grado di minare le basi sociali della nostra democrazia. Essa consiste nel discredito e nella squalificazione, fino alla criminalizzazione, dell’impegno civile, morale e politico di quanti salvano in mare la vita di migranti che tentano di raggiungere il nostro Paese e di chi si batte in difesa dei loro diritti e della loro dignità di persone. Questa seconda vergogna della nostra vita pubblica è stata inaugurata, all’inizio di questa legislatura, dalle politiche dell’ex ministro Matteo Salvini, che hanno segnato un salto di qualità nelle forme del populismo. Il vecchio populismo penale faceva leva sulla paura per la criminalità di strada e di sussistenza, cioè per fatti enfatizzati ma pur sempre illegali, onde produrre paura e ottenere consenso a misure inutili e demagogiche ma pur sempre giuridicamente legittime, come gli inasprimenti delle pene decisi con i vari pacchetti di sicurezza. Il nuovo populismo punitivo, esattamente al contrario, fa leva sull’istigazione all’odio e sulla diffamazione di condotte non solo lecite ma virtuose, come il salvataggio di vite umane in mare, al fine di alimentare paure e razzismi e ottenere consenso a misure illegali, come la chiusura dei porti, la preordinata omissione di soccorso, le lesioni dei diritti umani e la trasformazione in irregolari di immigrati regolari.
Ebbene, un penoso contributo a questo nuovo populismo punitivo è venuto dalla sentenza del Tribunale di Locri che ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione e alla restituzione, lui nullatenente, di 702.410 euro da lui investiti nelle attività dell’accoglienza. È una sentenza assurda. Non si dica che essa è consistita nella severa applicazione della legge – della dura lex, sed lex –, o che dovremmo aspettarne la motivazione per pronunciarci sulla sua incredibile crudeltà. Sappiamo benissimo che rientra nella discrezionalità dei giudici sia l’interpretazione delle leggi, sia l’accertamento e la valutazione dei fatti e delle prove, sia la determinazione della misura della pena. Era dunque ben possibile una pronuncia diversa, quanto meno nella durata della pena, che è stata quasi il doppio di quella – 7 anni e 11 mesi – già incredibilmente e scandalosamente alta richiesta dal pubblico ministero.
La verità è che ci troviamo di fronte a un eccesso, a un surplus di volontà punitiva, che non si spiega se non con l’intento di pronunciare una sentenza esemplare diretta a penalizzare l’accoglienza dei migranti. Ciò che accomuna questa condanna crudele e il populismo crudele di Matteo Salvini, che da ministro promuoveva le omissioni di soccorso nei confronti dei naufraghi e il linciaggio di Carole Rackete per aver disobbedito ai suoi divieti, è la volontà di criminalizzare la solidarietà e il senso di umanità, quali si manifestano nei salvataggi delle vite in mare dei migranti e nelle politiche di accoglienza messe in atto a sostegno di questi disperati. Mimmo Lucano, è noto a tutti, è diventato un simbolo, a livello mondiale, di un modello di accoglienza dei migranti fondato sulla loro integrazione sociale e sul rispetto della loro dignità di persone. Ciò che si è voluto colpire con questa sentenza è stato evidentemente questo modello. Ciò che con essa si è voluto difendere è tutto ciò che Lucano ha voluto combattere: l’intolleranza per i migranti, la loro diffamazione come terroristi o potenziali criminali, la loro oppressione e discriminazione razzista.
Il danno più grave di queste pratiche istituzionali – delle politiche contro gli immigrati di Matteo Salvini come della sentenza del Tribunale di Locri – è il crollo del senso morale a livello di massa provocato dall’istigazione all’intolleranza nei confronti dei deboli da esse veicolato. E’ un veleno distruttivo, immesso nella società italiana, che ha abbassato lo spirito pubblico e il senso morale nella cultura di massa. Quando la disumanità e l’immoralità vengono esibite, ostentate a livello istituzionale, attraverso slogan come “prima gli italiani” o “la pacchia è finita” a sostegno dell’omissione di soccorso o con la penalizzazione dell’accoglienza e della solidarietà, esse contagiano la società e si trasformano in senso comune. Non sono soltanto legittimate, ma anche assecondate e alimentate. Non capiremmo, senza questo ruolo performativo del senso morale svolto dall’esibizione dell’immoralità al vertice dello Stato, il consenso di massa di cui godettero i totalitarismi del secolo scorso.
Queste politiche crudeli – questo il loro danno civile e politico – hanno avvelenato la società, in Italia e in Europa. Hanno seminato la paura e l’odio per i diversi, solo perché diversi. Hanno logorato i legami sociali. Hanno screditato, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Hanno svalutato i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia e, prima ancora, della convivenza civile. Hanno rifondato le basi ideologiche del razzismo che consiste, essenzialmente, nell’idea che l’umanità è divisa tra chi ha il diritto di vivere e chi non è degno di sopravvivere a causa della sua diversa identità. Perseguire il consenso tramite l’esibizione dell’immoralità e dell’illegalità equivale sempre a deprimere la moralità corrente e ad alterare, nel senso comune, le basi del nostro Stato di diritto, consistenti anzitutto nella dignità della persona, di qualunque persona, nel valore della solidarietà e nella difesa dei diritti fondamentali, i quali sono tutti leggi dei più deboli in alternativa alla legge del più forte destinata a prevalere ove essi non siano garantiti bensì ignorati o violati.
2. La questione migranti come questione centrale dalla quale dipende l’identità democratica dell’Italia e dell’Europa – Se questo è vero, dobbiamo riconoscere che questo nuovo populismo crudele ha fatto della questione migranti la questione di fondo sulla quale si gioca il futuro della nostra civiltà: non solo dell’Italia, ma anche dell’Unione Europea – nata, non dimentichiamolo, contro i razzismi e i nazionalismi, contro i genocidi e i fili spinati, contro i campi di concentramento e contro le oppressioni e le discriminazioni razziali – i cui Paesi membri sono oggi tutti variamente impegnati nella limitazione della libertà di accesso e di circolazione delle persone. Di più: sulla questione migranti, l’intero Occidente rischia il crollo della sua identità morale e politica. Le politiche di esclusione dei migranti e le pratiche repressive della solidarietà ci pongono infatti davanti a una contraddizione scandalosa e a lungo andare insostenibile: la contraddizione tra i nostri conclamati valori – l’uguaglianza, la dignità della persona, l’universalismo dei diritti fondamentali di tutti – e la loro negazione da parte di quelle politiche e di quelle pratiche. E’ una contraddizione che, se non risolta, renderà impronunciabili gli stessi diritti fondamentali, i quali sono universali e indivisibili oppure, semplicemente, non sono. Sicché non potremo continuare a lungo a proclamarli decentemente come i “valori” dell’Occidente se continuerà questo gigantesco apartheid planetario da cui fuggono i migranti e che esclude dal loro godimento, in contrasto con le tante Carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale e con la nostra celebrata tradizione liberale, oltre un miliardo di persone che vivono in condizioni di povertà estrema e milioni di esseri umani che muoiono ogni anno per fame e per mancanza di acqua potabile e di farmaci salva-vita.
Non dobbiamo d’altro canto dimenticare che il diritto di emigrare è stabilito dalla nostra Costituzione, che lo enuncia nell’articolo 35, 4° comma, e dal diritto internazionale, che lo afferma negli articoli 13, 2° comma e 14, 1° comma della Dichiarazione universale dei diritti umani e nell’articolo 12, 2° e 3° comma del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966. Non solo. Esso è il più antico dei diritti fondamentali, essendo stato teorizzato fin dal secolo XVI da Francisco De Vitoria – a sostegno della conquista del “nuovo mondo”, quando erano gli europei a “emigrare” per colonizzare e depredare il resto del pianeta – e poi rivendicato da John Locke, che lo pose alla base del diritto alla sopravvivenza: giacché tale diritto, egli scrisse, diversamente dal diritto alla vita contro la violenza omicida, non richiede garanzie, essendo assicurato dal lavoro, sempre accessibile a tutti purché lo si voglia emigrando “negli incolti deserti dell’America” perché c’è “terra sufficiente nel mondo a bastare al doppio dei suoi abitanti” (Due trattati sul governo. Secondo Trattato [1690], Utet, Torino 1960, §§ 37 e 36, pp. 268 e 267).
Tutte le volte che parlo di immigrazione ricordo sempre questa nostra tradizione politica, in origine così cinicamente strumentale ed oggi altrettanto cinicamente contraddetta, per generare quanto meno una cattiva coscienza in grado di agire da freno sulle pulsioni xenofobe che hanno animato le nostre penose risposte istituzionali al fenomeno migratorio. Dopo cinque secoli di colonizzazioni e rapine, non sono più gli occidentali a far uso del diritto di emigrare nei Paesi poveri del mondo, ma sono al contrario le masse di affamati di quei medesimi Paesi che premono alle nostre frontiere. E con il rovesciamento dell’asimmetria si è prodotto anche un rovesciamento del diritto. Oggi che l’esercizio del diritto di emigrare è diventato possibile per tutti ed è per di più la sola alternativa di vita per milioni di esseri umani, non solo se ne è dimenticata l’origine storica e il fondamento giuridico nella nostra stessa tradizione, ma lo si reprime con la stessa feroce durezza con cui lo si brandì alle origini della civiltà moderna a scopo di conquista, rapina e colonizzazione.
Per questo la battaglia contro le attuali pratiche disumane messe in atto nei confronti dei migranti non è solo in difesa dei diritti di queste persone. Essa è in difesa dell’identità civile e democratica dei nostri ordinamenti. L’Europa è destinataria di una parte ridottissima delle migrazioni nel mondo. Eppure la sua storia è stata una storia di conquiste e di colonizzazione proprio dei Paesi dai quali provengono oggi i migranti, impoveriti anche dalle politiche predatorie messe in atto da secoli nei loro confronti dai Paesi europei. Avrebbe dunque il dovere morale, più di qualunque altro Paese, di farsi carico delle ragioni dell’emigrazione e di accogliere e di integrare quanti fuggono dai disastri passati e presenti da essa stessa provocati.
Più in generale, la questione migranti si sta rivelando come una questione centrale per il futuro della democrazia e della pace a livello globale. Affermare la dignità dei migranti come persone equivale infatti ad affermare e a difendere la nostra dignità e, insieme, la dignità della nostra Repubblica. Rifiutare la parola d’ordine “prima gli italiani” equivale a rifiutare il razzismo e la svalutazione dei differenti che stanno dietro queste parole. Lottare contro il veleno razzista che sta diffondendosi nella società equivale a difendere l’identità democratica dei nostri ordinamenti. La questione migranti sta insomma diventando il banco di prova della credibilità dei principi di uguaglianza e dignità delle persone sui quali si fondano le nostre democrazie. Se prendiamo sul serio i diritti umani, non possiamo non rifiutare l’odierno paradosso in forza del quale nell’età della globalizzazione tutto, fuorché le persone, può liberamente circolare: comunicazioni e informazioni, merci e capitali alla ricerca dei luoghi nei quali si può massimamente sfruttare il lavoro, inquinare l’ambiente, non pagare le imposte e corrompere i governi. Non possiamo non riconoscere, in breve, che il diritto di emigrare fa parte del diritto vigente, che implica ovviamente il diritto di immigrare in qualche parte della Terra e va perciò garantito almeno quanto la libertà di circolazione delle merci e dei capitali.
Ma ci sono altre due ragioni che fanno della questione migranti una questione centrale per il futuro delle nostre democrazie e dell’ordine internazionale.
La prima ragione consiste nel fatto, di cui occorrerebbe promuovere la piena consapevolezza, che ogni migrante, ogni fuga, segnala un problema globale irrisolto. Le migrazioni sono il prodotto di tutte le grandi emergenze e catastrofi che minacciano il futuro del nostro pianeta: innanzitutto del cambiamento climatico, provocato quasi interamente dai Paesi ricchi ma dei cui effetti – le alluvioni, le desertificazioni, le siccità, gli inquinamenti dell’acqua e dell’aria – soffrono soprattutto le popolazioni povere del mondo; in secondo luogo delle guerre e della diffusione incontrollata delle armi, prodotte e vendute dai nostri Paesi; in terzo luogo dei fondamentalismi e delle persecuzioni politiche, o religiose o etniche; infine della povertà estrema, della fame e della mancanza di acqua potabile, di alimentazione di base e di farmaci salva-vita che affliggono quasi un miliardo di esseri umani. Ebbene, i migranti – di solito le persone più giovani, più valide e intraprendenti dei loro Paesi – fuggono da queste lesioni micidiali di tutti i diritti fondamentali, dei quali pure sono titolari sulla base delle tante Carte internazionali dei diritti umani. Segnalano dunque una duplice vittimizzazione e una duplice lesione del principio di uguaglianza. Dopo che i loro territori sono stati a lungo depredati dalle nostre colonizzazioni, i migranti fuggono oggi dalle disuguaglianze sostanziali – la fame, la miseria, le devastazioni ambientali – provocate in gran parte dalle nostre politiche odierne e, dopo terribili odissee, incontrano nei nostri Paesi le oppressioni e le discriminazioni cagionate dalle loro differenze personali legate al loro status di stranieri.
C’è poi un’altra ragione della centralità politica della questione migranti. Le stragi nel Mediterraneo saranno ricordate come una colpa imperdonabile, perché potevano e potrebbero essere evitate. I terribili effetti dell’attuale chiusura delle frontiere dei Paesi ricchi – le migliaia di persone che muoiono ogni anno nel tentativo di raggiungere le nostre coste; le decine di migliaia di persone cacciate dall’Algeria e lasciate vagare e morire nel deserto del Sahara; quelle rinchiuse in condizioni disumane nell’inferno delle carceri libiche e turche; le migliaia di migranti che si affollano ai nostri confini contro barriere e fili spinati, lasciati al freddo e alla fame; le crudeli espulsioni di immigrati irregolari che vivono da anni nei nostri Paesi – sono gli orrori dei nostri tempi che imporranno ai costituenti del futuro un nuovo “mai più”. Di questi crimini i nostri governanti e quanti li hanno votati e sostenuti dovranno un giorno vergognarsi. Non potranno dire: non sapevamo. Nell’età dell’informazione sappiamo tutto. Siamo a conoscenza delle migliaia di morti provocati da quelle politiche. Sappiamo perfettamente che in Libia i migranti vengono torturati, stuprati, schiavizzati, uccisi. Conosciamo esattamente le forme di sfruttamento selvaggio cui sono sottoposti molti migranti una volta raggiunta l’Italia.
3. Una regola di deontologia giudiziaria: la comprensione e la valutazione equitativa della singolarità di ciascun caso sottoposto al giudizio – Infine un’ultima considerazione, che riguarda specificamente la giurisdizione e che è sollecitata proprio dalla durissima sentenza di condanna del Tribunale di Locri contro Mimmo Lucano. Essa riguarda la fonte di legittimazione della giurisdizione, che grazie alla Costituzione repubblicana non consiste più soltanto nella soggezione dei giudici alle leggi, ma anche nel ruolo di garanzia dei principi di uguaglianza e dignità delle persone, dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale e dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti. Ebbene, i diritti fondamentali equivalgono tutti ad altrettante leggi dei più deboli – dei più deboli fisicamente, oppure economicamente, oppure socialmente – contro le leggi dei più forti che vigerebbero in loro assenza. E quali soggetti sono più deboli di quei disperati che affrontano terribili odissee e rischiano la vita nel tentativo di raggiungere i nostri Paesi? È l’articolo 3 capoverso della nostra Costituzione che impone di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’uguaglianza delle persone. Naturalmente questo non vuol dire non applicare le leggi in tema di migrazione e non punire le loro violazioni. Vuol dire tuttavia che il giudizio, in accordo con questo principio basilare della nostra Costituzione, deve tener conto degli specifici connotati “di fatto” dei casi sottoposti al giudizio. Deve avere, in breve, un’indispensabile dimensione equitativa.
Vengo così a una regola di deontologia giudiziaria sulla quale ho insistito più volte e che è stata letteralmente ribaltata dalla sentenza del Tribunale di Locri. È la regola dell’equità. Si tratta di una regola a mio parere fondamentale dell’epistemologia giudiziaria, che purtroppo è ignorata dalle teorie processualistiche e che, soprattutto, è costantemente violata dall’esercizio burocratico del potere giudiziario. Che cosa è l’equità? L’equità è una dimensione conoscitiva del giudizio che non ha nulla a che vedere con le altre due tradizionali dimensioni conoscitive del ragionamento giudiziario: né con la corretta interpretazione della legge nell’affermazione della verità giuridica, né con la corretta valutazione dei fatti e delle prove nell’accertamento della verità fattuale. Essa riguarda la comprensione e la valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun fatto, di ciascun caso, di ciascuna vicenda sottoposta al giudizio un fatto, un caso, una vicenda irriducibilmente diversa da qualunque altra, pur se sussumibile – per esempio il furto di una mela come il furto di un diamante – nella medesima fattispecie legale. Giacché ogni fatto è diverso da qualunque altro, e il giudice, ma ancor prima il Pubblico Ministero non può sottrarsi alla comprensione equitativa dei suoi specifici e irripetibili connotati. Giacché il giudice non giudica il furto, o la truffa o il peculato in astratto, ma il furto o la truffa o il peculato concreto: quello, appunto, sottoposto volta a volta al suo giudizio.
Ebbene, è chiaro che la comprensione del contesto, delle concrete circostanze, delle ragioni singolari del fatto comporta sempre, anzi impone, un atteggiamento di indulgenza a favore dei soggetti più deboli, che più di tutti sono titolari di diritti fondamentali lesi o insoddisfatti. I codici penali prevedono attenuanti e aggravanti per meglio connotare ciascun fatto sottoposto al giudizio. Per esempio l’articolo 62, n. 1 del nostro codice penale prevede l’attenuante consistente nell’“aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale”: circostanza indubitabile nei comportamenti di Mimmo Lucano ma clamorosamente ignorata dalla sentenza dei giudici di Locri. Questa sentenza, con la sua insensata durezza, ci fa comprendere l’assoluta inderogabilità della dimensione equitativa di ogni giudizio, che nessun insieme di circostanze attenuanti o aggravanti è sufficiente a sostituire, essendo essa legata all’infinità dei connotati fattuali dei diversi fatti, ciascuno dei quali, ripeto, è irripetibilmente diverso da qualunque altro, ed impone al giudice il dovere e la responsabilità di conoscerne e valutarne l’intera complessità e singolarità, alla luce dei valori costituzionali.
Luigi Ferrajoli
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