Guerra e vendetta

L’attacco micidiale di Hamas e la rappresaglia indiscriminata dello Stato di Israele, Il popolo palestinese non è il carnefice ma la vittima

Attacco di Hamas, 7 ottobre 2023. A ridosso del confine di Israele con la striscia di Gaza, dove sorgono i villaggi Kibbutz, si celebra la festa dello Shabbat, con un festival che raduna, in un’area prospicente il confine di Gaza, centinaia di giovani israeliani. All’improvviso lo scenario gioioso dei giovani in festa si trasforma in un incubo. È l’attacco terroristico di Hamas che miete 1400 vittime. Un massacro compiuto in modo efferato, con la carneficina di centinaia di giovani inermi al festival, barbarie commesse nei kibbutz sulla popolazione indifesa, orrore per l’omicidio di bambini in culla, deportazione di 242 persone, detenute come ostaggi da Hamas. Il mondo intero, stupito, si chiede: “Come è stato possibile che succedesse in un contesto di totale controllo di Israele sul territorio occupato?”. Come risposta sono state sorprendenti per chi scrive le considerazioni del figlio che vive a Berlino “Mamma, ti sei posta la domanda sul perché il raduno festivaliero di migliaia di giovani sia stato organizzato a ridosso del confine? Perché non è stato predisposto un apparato di controllo e sicurezza dello Shin Bet? Perché nell’attacco di Hamas le forze dell’ordine sono intervenute con tanto ritardo?” La prima risposta che è venuta in mente a chi scrive è stata l’immagine delle esercitazioni via mare e via cielo durate due mesi precedenti l’attacco di Hamas, di cui si erano accorti gli egiziani, i quali avevano allertato Israele. Immediatamente si è sovrapposta un’altra immagine, quella della seduta di Netanyahu con i membri del suo partito Likud, ai quali esprime il suo pensiero e il suo piano: “Chiunque voglia contrastare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro ad Hamas. Questo fa parte della nostra strategia.” (Haaretz.com)

Guerra e vendetta. È la risposta immediata di Netanyahu all’attacco terroristico di Hamas. Netanyahu è sicuro. L’orrore destato dall’attentato di Hamas avrebbe ricompattato il popolo israeliano intorno al suo presidente per dare una risposta collettiva al massacro, avrebbe sospeso resa dei conti circa le corruzioni di cui Netanyahu è accusato, avrebbe fermato il movimento popolare di protesta contro di lui, per aver imbrigliato il potere della magistratura al potere governativo. Cavalcando l’indignazione, lo sgomento e l’orrore per quello che appare agli israeliani un genocidio che ricorda la Shoah, Netanyahu lancia il proclama di guerra e vendetta: “Battaglia tra i figli della luce (il bene) e i figli delle tenebre (il male), tra l’umanità e la legge della giungla (le belve)”. In questa atmosfera, il Ministro della difesa Yoav Gallant si è così espresso: “Stiamo combattendo contro animali umani e agiremo di conseguenza” (Shatz A., Israeliani e palestinesi, patologia della vendetta, in Internazionale, 27/10/-2/11, 2023. Dopo l’attacco di Hamas la retorica dello sterminio dell’estrema destra israeliana diventa opinione comune. Un esponente del Likud, il partito di Netanyahu, ha dichiarato che l’obiettivo di Israele dovrebbe essere una Nakba, che eclissi quella del 1948. L’ex primo Ministro israeliano Naftali Bennett ha risposto alla domanda di un giornalista di Sky News: “Davvero mi sta chiedendo dei civili palestinesi? Ma che problemi ha? Noi stiamo combattendo contro i nazisti.” Immediata la solidarietà degli Stati Uniti (ai quali fa eco l’Unione Europea), per bocca del presidente Biden, che definisce Hamas il male assoluto da affrontare, combattere e distruggere e invia nel Mar Mediterraneo due portaerei e successivamente un sommergibile. Biden, prossimo alla riconferma del mandato, consapevole del dissenso dei paesi orientali, tra cui Cina, Russia e Iran, rivolge un discorso alla Nazione in cui ribadisce la necessità del sostegno a Israele e del ruolo degli Stati Uniti nel mondo: “Gli USA devono riprendere il loro ruolo di rappresentante e di garante nella democrazia nel mondo”. Successivamente Biden si reca in Israele per assicurare a Netanyahu l’incondizionato supporto degli Stati Uniti contro Hamas. Seguono a turno i presidenti dei governi europei, esclusi la Spagna e il Portogallo, offrendo solidarietà e aiuti a Netanyahu. Singolare il comportamento di Ursula Von der Leyen, presidente della Comunità Europea, la quale senza consultare i colleghi, si precipita in Israele per esprimere solidarietà e offrire aiuti a Netanyahu, sospinta, forse, dal buco nero che grava sulla coscienza dei tedeschi dal tempo della Shoah. Per quanto riguarda l’operazione israeliana GUERRA E VENDETTA, l’Europa è silente e assente sul genocidio dei palestinesi che si sta perpetrando a Gaza. Di più, con la scusa di una possibile infiltrazione di terroristi, undici paesi della UE hanno deciso di chiudere le frontiere e sospendere il trattato di Schengen per i richiedenti asilo.

Nazificazione dei Palestinesi. Il “male assoluto” proclamato da Biden non riguarda solo Hamas, se consideriamo che i palestinesi sono considerati nazisti dagli israeliani e l’orrore provocato dall’attacco di Hamas, il ripetersi d genocidio della Shoah. È la voce che si eleva tra gli abitanti di Israele in seguito al massacro di Hamas: “Il mio Omar preso dai nuovi nazisti… Da superstite rivivo l’Olocausto… Hamas peggio dei nazisti… che il mondo stavolta sia dalla nostra parte” (La Stampa, 15/10/2023). La nazificazione degli oppositori di Israele è una vecchia strategia del potere israeliano per coinvolgere l’opinione pubblica. Una strategia che mette al riparo le sue guerre e le sue politiche espansionistiche sul territorio palestinese, tenendo conto che Israele non ha mai definito i suoi confini. Nel 1982, Menachem Begin disse che stava combattendo i nazisti nella sua guerra contro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in Libano. (Shatz A., cit.)

Israele, terra santa-terra di Israele. A questo punto è il caso di analizzare il rifiuto israeliano dei palestinesi, sin dalla nascita dello Stato di Israele. Per capire l’atteggiamento di Israele nei confronti dei palestinesi, bisogna partire dal credo biblico ebraico sul diritto degli ebrei di vivere in Palestina, terra di Israele. Nella scrittura Dio riconosce gli ebrei quale popolo eletto cui ha concesso il territorio in Palestina, terra santa-terra di Israele (nome dato da Dio al patriarca degli ebrei, Giacobbe, che significa “Colui che combatte con Dio”). È importante questo assioma identitario per capire il rifiuto di Israele, in particolare nella forma del Sionismo religioso, nell’accettare la convivenza con un popolo estraneo considerato blasfemo.

Palestina, due popoli-due Stati, nascita dello Stato di Israele. Nel 1947, l’ONU, in seguito alla Shoah e al rifiuto dei paesi occidentali di accogliere gli ebrei, approva la risoluzione “due popoli, due Stati”. Nella divisione del territorio palestinese, l’ONU assegna agli ebrei, che avevano una popolazione di 608 mila abitanti, il 56% del territorio, dove si trovano le principali fonti idriche della regione, e lo sbocco sul Mar Rosso. Ai palestinesi, che contavano 1 milione 237 mila abitanti, assegna il 44% di un territorio, che non consente neppure lo sbocco sul Mar Rosso. Nel maggio 1948, l’Agenzia Ebraica dichiara, unilateralmente, l’indipendenza dello Stato di Israele, che, da allora, si caratterizza per essere una Repubblica con sistema parlamentare democratico a rappresentanza proporzionale. Resta inevasa la costituzione dello Stato di Palestina per l’ingiusta ripartizione territoriale. Il che comporta da parte palestinese il non riconoscimento dello Stato di Israele. Riconoscimento che avverrà nel 1974 ad opera di Arafat.

La politica israeliana del displacement palestinese. Nella Dichiarazione di Indipendenza israeliana si legge: “Israele promuoverà lo sviluppo del paese a beneficio di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sui valori di libertà, giustizia e pace, come annunciarono i profeti; assicurerà completa uguaglianza dei diritti sociali e politici di tutti i suoi abitanti, indipendentemente da religione, razza o sesso; garantirà libertà di religione, coscienza, lingua, educazione e cultura: tutelerà i sacri luoghi di tutte le religioni.”. Nella stessa data della Dichiarazione d’Indipendenza, Ben Gurion, futuro primo ministro israeliano, dichiarava all’esecutivo dell’Agenzia Ebraica: “Sono favorevole al trasferimento dei palestinesi (displacement), non ci vedo nulla di immorale”. In tal senso vengono disattesi da subito i principi sui quali lo Stato di Israele si impegnava a realizzare la convivenza delle popolazioni presenti in Palestina. Di fatto, con la dichiarazione di Ben Gurion venivano annullate le aspettative di chi avanzava pretese sulla Palestina, cioè i palestinesi. Per quanto riguarda il rinvio sine die della costituzione dello Stato palestinese, contribuirono le guerre mosse a Israele dai paesi arabi, dall’Egitto e dalla Giordania. Risultato, Israele vinse le guerre e occupò gran parte del territorio, destinato alla formazione dello Stato palestinese, Cisgiordania, Gaza e il Negev. L’idea di considerare i palestinesi una popolazione araba, quindi solidale con i belligeranti contro Israele, ha determinato la convinzione negli israeliani di avere a che fare con i nemici. Così il displacement inizia già durante le guerre, vedi l’operazione della brigata ebraica Alessandroni, che provocò migliaia di morti, lo sfollamento di 700 mila palestinesi e la distruzione di interi villaggi. (Delle Donne M., cit.)

Israele procede con il displacement: occupazioni, muri e bypass road.

L’obiettivo di Israele è quello di realizzare centri urbani per gli ebrei (coloni) collegati da grandi vie di comunicazione (le cosiddette by pass road) il cui transito non è consentito ai palestinesi. Israele gestisce l’erogazione delle risorse primarie: fonti idriche, distribuzione dell’acqua ai palestinesi, così come l’elettricità e il carburante. Nei confronti di questi beni essenziali, gli israeliani possono aprire o chiudere i rubinetti a loro volontà. La situazione peggiora con l’innalzamento dei muri attorno agli insediamenti palestinesi. Per separare i coloni da contatti con i palestinesi e isolare ancor più le comunità palestinesi tra loro, Israele procede circondando i villaggi palestinesi con muraglie, che non di rado tagliano in due uno stesso villaggio. Complessivamente le muraglie hanno una lunghezza di 730 km intervallate da reti con porte metalliche elettrificate. Gli insediamenti israeliani nei territori occupati e le strade riservate solo ai coloni, non fanno più della Cisgiordania un paese, ma un complesso di isole separate dove i palestinesi, chiusi in qualche chilometro quadrato non possono nemmeno comunicare tra loro. La Cisgiordania oggi è un’esposizione universale a cielo aperto di tutto ciò che divide: terrapieni, blocchi di cemento, reticolati di ferro. Per accedere ai loro terreni agricoli gli agricoltori

devono ottenere permessi militari che vanno rinnovati ripetutamente. Per chi riesce a ottenerli, l’accesso è consentito solo a piedi e attraverso gli appositi cancelli agricoli che compaiono sui permessi (Amnesty International, L’Apartheid di Israele (…) un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità, www.amnesty.org).

Il conflitto Israeliano-palestinese. La vulgata occidentale sui media e nell’opinione pubblica, utilizza da decenni la formula “conflitto israeliano-palestinese”. Di fatto, non si tratta di un conflitto, cioè una guerra, guerreggiata tra due popoli, due Stati, due nazioni entrambe riconosciute, cioè libere e autonome in senso assoluto. Lo è Israele, ma non la Palestina. Nei territori palestinesi occupati non si dà un apparato statale, governativo, di sicurezza interna, né apparati militari come un esercito nazionale in difesa del territorio dello Stato palestinese. Qui sta l’equivoco, il falso e ambiguo modo di intendere e valutare ciò che accade in Palestina. Di fatto, la Palestina come nazione e come Stato non esiste. La Risoluzione ONU del 1947 “Palestina due popoli-due Stati”, ha visto nascere solo lo Stato nazione di Israele. Nulla di fatto per i palestinesi, ingiustamente mortificati nelle aspettative per una risoluzione equanime di Due popoli-due Stati.

Oppressione del popolo palestinese, nascita dell’OLP. La situazione palestinese si aggrava con le imposizioni israeliane: controllo ossessivo nei punti di transito (checkpoint) dove i palestinesi vengono perquisiti, non di rado mortificati e umiliati dall’esercito israeliano; stillicidio dei territori sottratti ai palestinesi; sfollamento (displacement) della popolazione palestinese dalle proprie case, dal proprio ambiente; deportazione nei campi profughi costruiti sui territori palestinesi occupati dagli israeliani; l’umiliazione e la frustrazione per i propri diritti calpestati. Le condizioni precarie e incerte di vita hanno generato la resistenza palestinese, espressa con le due rivolte dell’intifada e con gli attentati dei kamikaze; il lancio di razzi di Hamas sulle città israeliane. Israele ha risposto con arresti, uccisione dei cosiddetti terroristi palestinesi, con i bombardamenti su Gaza che prodotto migliaia di vittime. Con l’avvento di Arafat, la resistenza palestinese viene riconosciuta legittima dall’ONU con la formazione dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) di cui diviene presidente Arafat.

Trattato di Oslo. Fallimento della nascita di uno Stato palestinese. Nel 1994 si registra una svolta nel conflitto israeliano-palestinese con gli accordi di Oslo, tra Arafat e il primo Ministro israeliano Rabin. Accordo che prefigura una possibilità di pace e la formazione di uno Stato palestinese. Nel 1995 Rabin tiene un discorso alla Knesset (Parlamento) sul Contratto pattuito con Arafat: “Sono stato un soldato per ventisette anni. Ho combattuto fino a che non si vedeva una possibilità di pace. Ora credo che questa possibilità ci sia. Una grande possibilità che dobbiamo cogliere”. Pochi istanti dopo questo discorso Rabin è stato colpito a morte dalla furia di un’estremista israeliano del partito Likud. Resta la domanda: chi ha armato la mano dell’assassino di Rabin? Nel 1996, dopo un breve interregno, Bibi Netanyahu, segretario del partito di destra Likud, diviene Primo ministro del Governo israeliano. In sintonia col sionismo religioso, esplicita subito il suo pensiero:

“Israele è lo Stato nazionale del popolo ebraico”. Netanyahu è stato capo del governo israeliano dal 1996 AL 1999, anno in cui ha condotto l’operazione piombo fuso contro Gaza, uccidendo più di mille palestinesi, tra cui 400 bambini. È tornato al Governo nel

2009 ed è tutt’ora in carica, con un breve intervallo tra il 2021 e il 2022, in cui Israele ha avuto un Governo di coalizione con membri del partito arabo. Da tredici anni al governo, Netanyahu porta avanti una politica durissima nei confronti dei palestinesi: occupando terreni palestinesi per costruire colonie ebraiche, riducendo gli spazi abitativi dei palestinesi, costretti a emigrare a Gaza, in Giordania, o deportati in campi profughi.

Netanyahu ha pianificato un’area metropolitana intorno a Gerusalemme destinata ai soli cittadini ebrei. Per far questo sta espellendo gli abitanti di Gerusalemme Est (considerata dai palestinesi capitale della Palestina). Di fatto, l’intenzione di Netanyahu, del suo partito

Likud e del partito sionista religioso è quello di fare di Gerusalemme la capitale di Israele avendo avuto il sostegno degli Stati Uniti nella persona del presidente Trump. In tal senso, Netanyahu prosegue con una politica durissima in Cisgiordania, continuando con gli omicidi dei palestinesi, definiti terroristi. Nel 2021 interviene militarmente a Gaza, in seguito agli scontri per l’ennesima espulsione di palestinesi da Gerusalemme Est, scontri della polizia con i arabi israeliani, mobilitatisi per evitare le espulsioni. Hamas reagisce con il lancio di razzi sulle città israeliane, intercettati e respinti dall’Iron Dome israeliani. Netanyahu invia centinaia di raid aerei a bombardare Gaza. Dopo 11 giorni di bombardamenti israeliani su Gaza e lancio di razzi di Hamas su Israele (lanci che raggiungono non solo città di confine come Ashkelon, Lod, ma anche Tel Aviv), tragico è il bilancio delle vittime sotto il bombardamento israeliano a Gaza. Mentre Israele subisce 10 vittime, di cui 2 sono immigrati più un bambino ferito, Gaza semidistrutta dai bombardamenti subisce 230 vittime, tra cui 70 bambini. Il cessate il fuoco arriva con la mediazione dell’ONU, ma soprattutto con le operazioni di mediazione dell’Egitto. Questa volta Netanyahu non trova consenzienti tutti gli israeliani, soprattutto i giovani. Il sistema di disuguaglianza e ingiustizia che si protrae da oltre 70 anni, nei confronti dei palestinesi, viene percepito come intollerabile dai giovani israeliani, come si evince da un messaggio diventato virale in rete: Not in our name. Questo atteggiamento investe anche il rifiuto degli obblighi dei giovani israeliani all’arruolamento. La contestazione alle discriminazioni, alle aggressioni armate contro il popolo palestinese, si estende anche alle giovani generazioni della popolazione ebraica statunitense, nate nel nuovo millennio. Per esprimere il loro dissenso hanno usato lo slogan degli afroamericani in chiave antiapartheid: “Palestinians lives matter”. Nel 2021 cade il governo di Netanyahu e si instaura un governo di coalizione, che dura però pochi mesi.

Cisgiordania e Gaza separate nel territorio e nella politica. Con gli accordi di Oslo decade l’OLP e nasce l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), con a capo Abu Mazen. Le due unità territoriali, cui viene concessa una precaria autonomia politico amministrativa, Cisgiordania e Gaza non sono contigue territorialmente. Tra di loro ci sono gli insediamenti ebraici e le by pass road. La distanza, l’isolamento tra le due unità, la competizione tra i partiti, ha determinato un conflitto tra le due unità che ha legittimato il partito di Hamas a Gaza e ha accentuato la separazione politica con la Cisgiordania. Le due unità hanno assunto comportamenti politici differenziati. La Cisgiordania con Abu Mazen è disponibile al dialogo, Gaza con Hamas conduce una politica radicale e belligerante con Israele. Per capire la politica di Hamas, bisogna sapere che Israele detiene a Gaza il controllo dello spazio aereo, delle acque territoriali, l’accesso all’off-shore marittimo, l’anagrafe della popolazione, l’ingresso degli stranieri, le importazioni, le esportazioni e il sistema fiscale. La separazione territoriale e politica tra Gaza e la Cisgiordania ha, comunque, indebolito il popolo palestinese nel far valere i propri diritti nei confronti di Israele.

Guerra e Vendetta

Nel gennaio 2022 Netanyahu torna governare Israele, sempre più deciso a portare avanti il progetto della “Costruzione della Grande Israele” e del displacement dei palestinesi. Il suo obiettivo, unito a quello dell’establishment governativo di ultradestra, si scontra, però, con un fatto tragico: l’attacco di Hamas al cuore di Israele. Immediata la dichiarazione di guerra e di vendetta nei confronti di Gaza e di Hamas. La vendetta del governo di Netanyahu è feroce, bombardamenti senza sosta su Gaza. Sospeso il rifornimento di acqua, elettricità, carburante, alimenti, medicinali. Chiusi tutti i valichi di accesso a Gaza, accerchiata dall’esercito israeliano, composto da 350 soldati, per l’intervento militare via terra. L’assalto a Gaza viene ritardato per evitare di mettere in pericolo gli ostaggi. Israele considera Gaza Nord, all’esterno della quale è avvenuto il tragico attacco terroristico, l’area centrale delle operazioni di Hamas, e spinge la popolazione palestinese verso il Sud di Gaza, ma a Sud non c’è posto per l’oltre un milione di profughi dal Nord della Striscia. Gaza ha una popolazione di 2 milioni 200 mila abitanti, con una densità di 4000 abitanti per chilometro quadrato; così solo poche centinaia trovano rifugio nelle sedi ONU, nelle moschee, negli ospedali. Questi rifugi, però, non proteggono i palestinesi, perché i bombardamenti colpiscono anche le moschee, così come gli ospedali, le scuole, le sedi, i campi profughi, le sedi ONU, arrivando persino a bombardare le ambulanze con la scusa che trasportano i terroristi di Hamas e le armi. Il risultato sono centinaia, migliaia di morti e feriti che non possono essere nemmeno curati, perché i medicinali e i rifornimenti per le cure arrivano, quando arrivano, con il contagocce. L’unico varco possibile, quello di Rafa, confinante con l’Egitto, viene ripetutamente bombardato da Israele. Chiusi tutti i valichi, per i palestinesi non c’è scampo, neppure via mare. Gaza è bagnata per la sua lunghezza dal mare, ma il mare non è accessibile ai palestinesi per il blocco marittimo imposto da Israele. La situazione peggiora anche per gli abitanti della Cisgiordania. Nelle città si susseguono le incursioni violente dei coloni che si appropriano di pezzi di territorio, delle case dei palestinesi costretti alla fuga. A queste violenze si aggiungono i rastrellamenti dell’esercito israeliano con centinaia di arresti di palestinesi che vanno a ingrossare il numero dei palestinesi nelle prigioni israeliane. Il 13 Novembre si contavano più di 170 palestinesi uccisi e oltre 1000 abitanti in fuga. Indicativo in tal senso il diverso giudizio di Netanyahu nel valutare gli scontri che si verificano in Cisgiordania tra palestinesi e i coloni, i quali provocano incendi distruzioni e assassinii. Netanyahu considera i coloni come estremisti, mentre i palestinesi che tentano di opporre resistenza e contrastare le violenze, vengono bollati come terroristi, jihadisti e uccisi. In Israele, si aggravano anche le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri israeliane. Dal 7 ottobre il numero dei detenuti è passato da 5 mila a 6 mila unità e sono accresciuti i maltrattamenti. I detenuti palestinesi vengono isolati, sospeso il collegamento telefonico e internet, e requisiti i cellulari. Per liberarsi dei lavoratori palestinesi di Gaza presenti in Israele, Netanyahu ha ordinato l’espulsione delle migliaia di lavoratori di Gaza con permesso di lavoro, licenziati e rispediti a Gaza.

L’esercito israeliano entra a Gaza. Sul campo di battaglia si assiste alla penetrazione dell’esercito israeliano a Gaza, con l’accerchiamento di Gaza city, sostenuto dai bombardamenti israeliani, che hanno centrato un campo profughi a Jabalya provocando la morte di 145 rifugiati e accrescendo il numero di vittime. Bisogna dire che, per l’esercito israeliano, la “presa” di Gaza city e degli affiliati di Hamas si presenta difficile. Hamas ha costruito una città sotterranea di tunnel attrezzati militarmente, difficile da espugnare. Col passare dei giorni la situazione a Gaza è sempre più grave. Oggi, 4 Novembre, i bombardamenti hanno comportato 10 mila vittime, in maggioranza donne e bambini, molti dei quali hanno scritto sul braccio il proprio nome per essere riconosciuti se cadono dilaniati sotto le bombe israeliane. A Gaza continua, a fasi alterne, la sospensione dei rifornimenti di beni di prima necessità come l’acqua e l’elettricità, per cui Gaza è al buio e gli ospedali non possono operare, e quando possono operano senza anestesia. L’impossibilità per una via di scampo per i palestinesi prigionieri a Gaza allarma gli USA, che raccogliendo la pressione del segretario generale dell’ONU, Guterres, consiglia a Netanyahu di ritardare l’attacco via terra e consentire gli aiuti umanitari. Richiesta non accolta da Netanyahu. Il segretario generale dell’ONU, recatosi a Rafa per una ricognizione delle condizioni dei palestinesi, ha pronunciato all’ONU un discorso di critica ad Israele, che opprime da oltre cinquant’anni il popolo palestinese. Israele si è infuriata e ha chiesto le immediate dimissioni di Guterres. Un progetto per il nishul dei palestinesi. La strategia dello Stato di Israele che non ha mai definito i suoi confini, è stata quella di allargare il proprio territorio all’intera Palestina, col progetto del Nishul del popolo palestinese, propugnato dalla destra israeliana, sostenuta dal Sionismo religioso. Come ha chiarito l’israeliano Jeff Halper, antropologo, professore presso l’Università Ben Gurion: “Il concetto di displacement non è nuovo. I rifugiati palestinesi, come altri, sono stati a lungo descritti come “gente fuori posto”. Come concetto e come politica il Nishul deriva dal pensiero sionista, il cui principale obiettivo è costruire uno Stato esclusivamente ebraico nella terra di Israele/Palestina. Ciò implica, quasi per definizione, il displacement di chi avanza pretese rivali sul paese, i palestinesi.” (Halper J., 2021, Displacement, una forma israeliana di Apartheid, in A.A.V.V., “VOCI DAL CONFLITTO”, Roma, Futura). In questa ottica si sta lavorando in Israele per trovare la soluzione finale al displacement dei palestinesi di Gaza. L’idea di fondo è quella di istituire uno Stato etnico, senza contaminazioni. Se ne sta occupando l’istituto israeliano for Zionist strategies, di cui fanno parte il ministro. della Difesa Moshe Arens, il premio Nobel per l’economia Robert Aumann, l’ex ministro dell’Interno, poi vice primo ministro Notar Sharanski, noto per aver dato carta bianca agli insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania. Si tratta di un piano dettagliato per il reinsediamento della popolazione araba in Egitto, cioè la fuoriuscita dei palestinesi dal territorio di Gaza. Obiettivo la creazione di uno Stato ebraico: “dove non c’è posto per quelli che, esponenti dell’esercito e del governo considerano animali umani”. La realizzazione del piano prevede il trasferimento dei palestinesi di Gaza in Egitto, nelle due più grandi città dell’area metropolitana del Cairo, dove vi è un’enorme quantità di case statali vuote e/o in costruzione, che rappresentano la location ideale per trasferire i due milioni di popolazione di Gaza. Il rapporto, scritto da Amir Weitman, menager del partito Licud, viene presentato come “Una soluzione innovativa, economica e sostenibile per Israele, “Possiamo permetterci il pagamento di un miliardo di sheker per l’acquisto di Gaza”. Per quanto riguarda il benestare dell’Egitto (che si trova in una grave crisi economica,) al trasferimento di “quanti palestinesi sopravviveranno al disastro”, il rapporto prevede il trasferimento alle casse egiziane di una cifra tra i cinque e gli otto miliardi, che rappresentano per Israele uno esborso esiguo tra l’1% e l’1,50% del PIL nazionale, cifra che Israele può sborsare senza danni economici. L’obiettivo di Israele, con la requisizione di Gaza, è quello di ampliare le superfici territoriali nazionali, per allestire insediamenti destinati agli abitanti ebrei. Per i palestinesi, il trasferimento in Egitto, rappresenta l’esodo forzato della popolazione ed è vissuto come una seconda Nakba (catastrofe etnica), simile a quella provocata nel 1948 dal neonato Stato di Israele. (Audiello G., Piano dettagliato per la pulizia etnica di Gaza, L’Indipendente 7/11/2023)

I Paesi del Medio Oriente di fronte all’escalation militare israeliana. A questo punto è necessario analizzare la situazione da un punto di vista geopolitico. Israele può essere considerato la testa di ponte degli interessi occidentali nel Medio Oriente. In particolare, Israele rappresenta per l’amministrazione statunitense il braccio destra delle politiche USA nello scacchiere mediorientale. In Medio Oriente convivono i paesi arabi: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, più o meno alleati degli Stati Uniti, ma sostenitori di una nazione per i palestinesi. Ci sono gli Hezbollah in Libano, in Siria e nello Yemen gli Huthi. C’è l’Iran, che non ha mai riconosciuto Israele, la Giordania che ha milioni di rifugiati palestinesi, il Qatar, dove risiedono esponenti di Hamas. Gli Hezbollah, divenuto partito politico, stanno operando con il lancio di razzi verso Israele, che ha risposto con i bombardamenti alle postazioni Hezbollah. Ci sono gli Huthi, sempre in sintonia con l’Iran, che dalla Siria e dallo Yemen lanciano razzi su Israele. C’è la Giordania, con i suoi tre milioni di rifugiati palestinesi, la quale ha posto all’ONU la richiesta di un cessate il fuoco umanitario, respinta dagli USA e dall’Europa, perché nella richiesta non c’era la condanna all’attacco di Hamas. C’è l’Egitto confinante con Gaza, importantissimo perché rappresenta l’unico collegamento attraverso il varco di Rafa, per far passare i convogli umanitari, i feriti e i cittadini stranieri, ma non i profughi palestinesi. L’Egitto, già in condizioni economiche critiche, non è disponibile ad accogliere i milioni di sfollati di Gaza. Dietro pressioni del governo Usa e con l’intervento del Qatar è stato aperto il varco di Rafa con l’Egitto per far passare ostaggi con passaporto straniero e feriti gravi provenienti dagli ospedali di Gaza. Superato il varco di Rafa, accolti dai responsabili degli aiuti umanitari e dai medici degli ospedali da campo, allestiti nel Sinai, gli scampati hanno chiesto a gran voce: “acqua, pane, cibo”. Va detto che l’Egitto ha un ruolo importante per gli sforzi di trovare un accordo di cessate il fuoco, ospitando ripetuti incontri internazionali al Cairo; incontri che finora sono risultati un nulla di fatto.

USA, Insuccesso in Medio Oriente e crisi di credibilità internazionale. Biden e l’amministrazione della Casa Bianca si trovano in difficoltà di fronte alla non strategia di Netanyahu nel condurre la guerra e temono il diffondersi del conflitto a livello regionale. Biden ha esortato più volte Netanyahu a concedere una pausa per il rifornimento degli aiuti umanitari, per trovare un accordo al cessate il fuoco, ma senza successo. Di fronte agli insuccessi di Biden, gli alti funzionari della Casa Bianca sono in disaccordo con il Presidente, troppo legato a Netanyahu, troppo debole nel farsi rispettare. Per avviare rapporti di collaborazione, Biden incarica Blinken, segretario di Stato americano, di recarsi in Medio Oriente. Blinken visita più volte Israele e i paesi mediorientali per avere il benestare per una pausa, concedere l’invio di beni umanitari e consentire l’uscita dei feriti e degli stranieri, ma i risultati sono stati pressoché nulli. Israele è irremovibile nel concedere una pausa, tantomeno una tregua alla guerra, richiesta dai paesi arabi, ritenendo che Hamas, con la pausa, avrebbe colto l’occasione per rifornirsi e mettere appunto gli attacchi bellici. Netanyahu potrebbe concedere una pausa solo se Hamas rilasciasse tutti gli ostaggi. Blinken fa la spola tra i vari paesi dello scacchiere mediorientale, dove grande è il fermento delle popolazioni musulmane a sostegno dei palestinesi. Va in Cisgiordania dove incontra Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, prospettando l’ipotesi della formazione di uno Stato palestinese, e chiede ad Abu Mazen se sia disponibile a governarlo. Abu Mazen è un leader molto debole nei confronti dei soprusi israeliani, discreditato nell’opinione pubblica della Cisgiordania e non adatto alla gestione di Gaza (conclusa la guerra), anche perché non voluto dai palestinesi di Gaza. Abu Mazen si dice, comunque, disponibile a governare il territorio palestinese di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, aderendo alla proposta di Binken di dar vita alla formazione della nazione palestinese. Ma Blinken non propone un progetto realizzabile, Netanyahu ha già fatto sapere, in un comunicato andato in onda il 6 novembre, che Israele, finita la guerra, assumerà la responsabilità generale del controllo di Gaza, in modo indefinito. Di fatto sono proprio gli USA che hanno contribuito ad affossare la creazione di uno Stato palestinese e contribuito al dilatarsi di Israele nei territori palestinesi. È indicativo in tal senso il voto negativo degli USA alla richiesta avanzata dalla Giordania nel 2014 al Consiglio di Sicurezza ONU, per l’approvazione della Risoluzione favorevole alla costituzione di una nazione palestinese. Servivano 9 voti favorevoli per l’approvazione. Risultato: 8 voti a favore, due contrari, quello degli USA e quello dell’Australia; cadde quindi l’assenso alla formazione di uno Stato palestinese. Per scongiurare l’allargarsi del conflitto alla regione mediorientale, Blinken si reca nei paesi arabi che premono per una strategia del cessate il fuoco, respinta da Netanyahu. Si reca anche in Turchia, dove il presidente Erdogan non si fa trovare, ma ha già fatto sapere che ritiene Netanyahu un criminale, col quale non avere rapporti. Erdogan considera i palestinesi fratelli oppressi e martoriati, (sorvolando sul suo comportamento nei confronti dei curdi) e organizza aiuti umanitari per le attività sanitarie da inviare via mare a Gaza. Né trova ascolto in Libano Blinken, dove non c’è ancora una dichiarazione di guerra, ma c’è l’avvertimento dello sceicco Nasrallah, capo degli Hezbollah, molto influente in Libano, anche perché ha una discendenza da Maometto. In un discorso pubblico, Nasrallah ha avvertito Israele che c’è una mobilitazione in atto che coinvolge la Siria, lo Yemen, l’Iraq. Nel suo discorso scagiona l’Iran di essere il mandante degli attacchi missilistici su Israele. Di fatto, l’Iran non si esprime con propositi di guerra, ma dà voce al suo dissenso, esortando i paesi musulmani a sanzionare Israele, bloccando i rifornimenti di petrolio, prodotti alimentari e materiali commerciali. L’Iran ha rinsaldato i contatti con l’Arabia Saudita (entrambi partecipi dell’accordo BRIXS), per trovare una via d’uscita all’escalation della guerra israeliana contro i palestinesi di Gaza. Di fatto, il viaggio di Blinken in Medio Oriente è stato un insuccesso. Un atteggiamento di dissenso, per quanto sta succedendo in Palestina, si verifica in Russia e in Cina. La Cina nel 2024 avrà la presidenza del Consiglio di Sicurezza ONU, e ha già fatto sapere che porrà in primo piano la risoluzione della questione palestinese. Questi atteggiamenti critici alle politiche israeliane nei confronti del popolo palestinese sono diretti anche agli USA, per l’appoggio incondizionato a Netanyahu. L’atteggiamento USA, (e di conseguenza quello europeo) rispetto alle due guerre, Ucraina e Israele, sta provocando una diminuzione del ruolo mondiale degli USA, indebolendone l’influenza nel mondo, di conseguenza si registra anche una caduta verticale di credibilità e influenza dell’Unione Europea nella compagine internazionale.

Dissenso dell’opinione pubblica e attacchi antisemiti in Europa. In Israele crescono le critiche alla politica di Netanyahu, che precipita nei sondaggi. Gran parte dell’opinione pubblica considera Netanyahu il responsabile di quanto accaduto, incapace nel risolvere il rilascio degli ostaggi, tantoché molte famiglie, che hanno i propri congiunti come ostaggi, hanno allestito le tende davanti alla Knesset (Parlamento israeliano). Un forte atteggiamento ostile alla conduzione della guerra si verifica anche nell’opinione pubblica europea (ma non nei governi), con grandi manifestazioni di piazza in molte città europee, al grido “Free Palestine”. Per quanto riguarda il riaccendersi di atteggiamenti antisemiti, la guerra condotta da Israele contro Gaza e l’atroce conduzione della guerra ai palestinesi, si riverbera negli ebrei europei, i quali vivono con preoccupazione il moltiplicarsi degli attacchi antisemiti, e con la paura di un possibile ripetersi dei pogrom antiebraici. In particolare, in Francia il moltiplicarsi degli attacchi alle comunità ebraiche ricordano le violenze antisemite del periodo del processo Dreyfus.

Nemesi dei palestinesi. Il Presidente della Repubblica di Israele, Herzog, ha rilasciato un’intervista alla televisione italiana sul TG1, condotta da Bruno Vespa. Il Presidente definisce i terroristi palestinesi “animali”, utilizzando il bestiario comune ai rappresentanti di destra del potere istituzionale. Il Presidente parla poi del ruolo di Israele nel Medio Oriente: unica democrazia della regione, faro di civiltà. A suo dire, Israele interviene in difesa dei cristiani in Medio Oriente (forse il Presidente non ha presente che in Israele i cristiani sono attaccati dal Sionismo religioso con insulti e sputi). Herzog si rivolge poi a Papa Francesco chiedendo di sostenere ed intervenire per la causa israeliana. La stessa esortazione rivolge al mondo occidentale di stare dalla parte di Israele. Alla domanda di Vespa, se considera possibile in Palestina la formazione di uno Stato palestinese, il Presidente non risponde direttamente alla domanda, ma esprime il suo pensiero con una smorfia negativa di dissenso. Il Presidente aveva già affermato, in altra occasione, che tutti i cittadini di Gaza sono responsabili dell’attacco di Hamas e che non ci sono persone civili a Gaza. (https://t.co/zoLfLuwxw). Di fatto in Israele, sia il cittadino più semplice, sia i rappresentanti della Cosa Pubblica, fino al Presidente, hanno una percezione dei palestinesi, in cui avviene una traslazione dell’identità dei nazisti ai palestinesi e del genocidio della Shoah, all’orrore provocato dall’attacco di Hamas. D’altronde, il male assoluto, corrisponde alla nemesi, cioè al nemico assoluto per eccellenza da distruggere. L’intervista del Presidente Herzog adombra la figura di un rappresentante del “popolo eletto”, al quale è stata assegnata da Dio la terra santa, terra di Israele, che un popolo estraneo e blasfemo (i palestinesi) usurpa.

Il pensiero critico degli intellettuali israeliani non ortodossi. Jeff Halper, come abbiamo già detto, sostiene che in Israele il nishul dei palestinesi si ponga come “Concezione, ideologia, obiettivo, processo, politica e sistema” (Halper J., cit.). Per quanto riguarda il diritto divino, concesso al “popolo eletto” di avere un territorio in Palestina “Terra Santa”, terra di Israele, il quotidiano israeliano “Haaretz”, nell’Ottobre 2017, riportava il risultato delle ricerche dell’antropologo e ricercatore israeliano, Herzog: ”La maggior parte di coloro che sono impegnati in un lavoro scientifico nei campi connessi alla Bibbia, all’archeologia e alla storia del popolo ebraico, e che una volta cercavano sul campo le prove per corroborare la storia della Bibbia, ora concordano che gli eventi storici relativi al popolo ebraico sono radicalmente diversi da ciò che racconta la storia biblica (…) In ogni caso, la maggior parte degli archeologi ora concorda sul fatto che l’identità ebraico-israelita sia nata da tradizioni sviluppatesi tra gli abitanti di Canaan”. (Herzog Z., ottobre 2017, Is the Bible a true story?, Haaretz). Rispetto alla trasformazione del pensiero laico sionista, operata dagli ultraortodossi che hanno dato vita al partito sionista religioso, lapidario il pensiero di Uri Ram, scrittore e pubblicista israeliano, il quale ritiene il neo-sionismo: “Una tendenza politico-culturale esclusiva, nazionalista, persino razzista e antidemocratica (presente nel Likud), che cerca di innalzare il recinto che racchiude l’identità israeliana”. A sua volta Dana Eyal, professore israeliano, ha affermato: “Il paese è dirottato da un gruppo di ebrei religiosi razzisti, che rappresentano una minaccia molto più grande per Israele di qualsiasi paese arabo o musulmano, compreso l’Iran”. (www.wikita.com/neozionism). Relativamente alla ferocia con cui procede l’azione militare israeliana a Gaza, il gruppo degli “Israeliani contro l’Apartheid”, che conta 1550 iscritti, ha inviato una lettera alla Corte Penale Internazionale affinché prenda provvedimenti accelerati contro l’escalation dei crimini di guerra israeliani e il genocidio del popolo palestinese.

Guerra e Vendetta. E’il caso di riflettere sul significato di vendetta inteso da Netanyahu e dai sionisti ultraortodossi del partito sionista religioso al governo. Per vendetta deve intendersi rivalsa. Rivalsa per esorcizzare un male antico che incombe sulle coscienze del popolo ebraico. Un male antico, fatto di violenze, soprusi, devastazioni, ghettizzazioni, torture, morte, sterminio (Shoah). Rivalsa nei confronti di un’entità malvagia, maledetta, diabolica. Una nemesi carnefice rappresentata dai nazisti, che il popolo ebraico deve esorcizzare, annullandola. Il popolo palestinese, percepito dagli israeliani come nazista, funge da capro espiatorio per estirpare il male antico. Ma qui sta l’inganno, lo stravolgimento del pensiero israeliano. Ad analizzare le vicende storiche dei due popoli, si scopre che Il popolo palestinese, al quale un popolo straniero ha invaso li territorio, sottratto le risorse, sospinto all’esodo, programmato il Nishul, è una vittima, non il carnefice.

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