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La geoguerra e l’arma del clima

Nel 2025 le forze dello spazio aereo statunitense possono “possedere il clima”, avvalendosi delle nuove tecnologie e indirizzando lo sviluppo di quelle tecnologie verso applicazioni di guerra combattuta

Immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, accanto alle innumerevoli esplosioni nucleari che hanno devastato il pianeta, sono iniziate, e portate avanti su scala sempre più ampia, le sperimentazioni militari sul clima. Eppure, fino ad oggi nella riflessione critica sul cambiamento climatico e le sue cause il militarismo e la spirale distruttiva innescata dalle attività militari sono rimaste sullo sfondo. Le poche voci che hanno ricostruito e denunciato i danni irreparabili che le sperimentazioni a scopo bellico hanno causato non hanno avuto grande rilievo.

Un esempio significativo del progetto di dominio e controllo del clima a scopi bellici è il rapporto condotto nel 1996 dal Department of Defense School Environment of Academic Freedom e presentato alla Air Force degli Stati Uniti dal titolo: Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025 (Il clima come forza di moltiplicazione. Possedere il clima nel 2025).

Entro il 2025 i ricercatori militari prevedevano di poter dominare il clima a livello planetario e di proseguire nella sperimentazione all’ombra del segreto militare. Il rapporto, che è passato al vaglio “delle autorità preposte alla sicurezza” prima di essere reso pubblico, si sofferma su alcune delle potenzialità militari del controllo del clima e in particolare slle modificazioni della ionosfera, ma tace sulle applicazioni della geoingegneria nella guerra del Vietnam e nella guerra del Golfo e si limita a ipotizzare modificazioni del clima “localizzate” e a breve termine. L’interesse del documento pertanto non risiede nella ricostruzione delle sperimentazioni e delle loro applicazioni quanto nella logica alla base della manipolazione del clima che domina il pensiero, le ambizioni e le strategie militari. Così si legge nel sommario del rapporto:

Nel 2025 le forze dello spazio aereo statunitense possono “possedere il clima”, avvalendosi delle nuove tecnologie e indirizzando lo sviluppo di quelle tecnologie verso applicazioni di guerra combattuta. Una tale capacità offre al combattente strumenti per modificare lo spazio bellico in modi che non sono mai stati possibili prima.

Negli Stati Uniti nel 2025 la modificazione del clima sarebbe diventata parte integrante della strategia militare. Citando le parole del generale Gordon Sullivan, i ricercatori militari scrivono: “La tecnologia è là e aspetta che noi la mettiamo insieme. Nel 2025 avremo il possesso del clima .Nel 2025 la nuova arma post-nucleare sarebbe stata una realtà.

Già nel 1957 la commissione consultiva del Presidente degli Stati Uniti sul controllo del clima riconosceva esplicitamente il potenziale militare della modificazione del clima e prevedeva che sarebbe stata un’arma più importante della bomba atomica (p. 3).

L’impresa, naturalmente, è rischiosa, continuano i ricercatori, ma le straordinarie potenzialità militari devono ricevere la più alta considerazione. Ideologia del rischio, controllo, dominio, supremazia, termini che ritornano costantemente nel rapporto, emergono con chiarezza ad ogni passo:

Come impresa ad alto rischio e ad alta ricompensa, la modificazione del clima presenta un dilemma non dissimile dalla scissione dell’atomo. Mentre alcuni segmenti della società saranno sempre riluttanti ad esaminare questioni controverse, come la modificazione del clima, le straordinarie potenzialità militari che possono risultare da questo campo sono ignorate (p. VI).

L’accettazione del rischio, ovvero le conseguenze distruttive per il pianeta, trova la sua giustificazione nella supremazia militare. La capacità di controllare il clima, si legge, avrà un effetto moltiplicatore e potrà essere utilizzato in tutte le fasi di un conflitto. Interventi volti a provocare siccità, impedire il rifornimento di acqua pura, intensificare la forza distruttiva di temporali e altre perturbazioni atmosferiche, indirizzando grandi masse di energia verso un obiettivo militare portano all’estremo la guerra alla natura e alla popolazione civile.

Benché nel 1977 l’assemblea generale delle Nazioni Unite avesse adottato una risoluzione che proibiva l’uso ostile delle tecniche di modificazione ambientale, la ricerca non si è mai arrestata e le sperimentazioni, condotte con determinazione, sono andate ben oltre il laboratorio.

“[Per la modificazione del clima] la determinazione esiste […]. La motivazione esiste. I potenziali benefici e il potere sono estremamente lucrativi e allettanti per coloro che hanno le risorse per svilupparlo. Questa combinazione di determinazione, motivazione e risorse alla fine produrrà la tecnologia della manipolazione del clima” (p.35).

Il rapporto si conclude con una riaffermazione del principio della deterrenza:

“La storia dimostra che non possiamo permetterci di non avere la capacità di modificare il clima se la tecnologia è sviluppata e usata da altri. Anche se non abbiamo intenzione di usarla, altri l’avranno. Per richiamarsi ancora una volta all’analogia con le armi atomiche, abbiamo bisogno di dissuadere o contrastare questa capacità con la nostra propria capacità” (ivi).

Se la soluzione diventa la geoingegneria

Il progetto di  usare la Terra come una mega-macchina ha creato e creerà profitti e potere.

Alla conferenza di Copenhagen sul cambiamento climatico, nel 2010, ha scritto Rosalie Bertell (2018, p.) i geoguerrieri ebbero il loro momento di gloria mascherando la geoingegneria come una “soluzione al problema del cambiamento climatico”, presentato anche come un problema di sicurezza, una minaccia per lo Stato che può avere un effetto moltiplicatore: afflusso di grandi masse di profughi, destabilizzazione sociale, accelerazione dei conflitti per le risorse sempre più scarse. I discorsi sulla sicurezza inducono un senso di impotenza e di paura e in definitiva incoraggiano soluzioni autoritarie, militari e tecnico-scientifiche dove sono possibili forti guadagni e che prevedono maggiore crescita e sviluppo anziché maggiore precauzione e umiltà sui limiti dell’azione umana.

Bruna Bianchi

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