Pubblichiamo un articolo della socia Valentina Pazé pubblicato sul sito VolereLaLuna, all’indirizzo: https://volerelaluna.it/controcanto/2024/11/04/la-pace-che-vogliamo-non-e-quella-dei-cimiteri/
L’aureo libretto Per la pace perpetua, scritto nel 1795 da un Kant ormai anziano, e sempre più radicale, si apre ricordando l’insegna di un’osteria olandese raffigurante un cimitero, accompagnata dalla scritta “Per la pace perpetua”. Un’insegna satirica, evidentemente. Come ironico è Kant nel chiarire che ciò che va cercando non è la pace eterna dei cimiteri. Su questo saremo – immagino – tutti d’accordo. Come nel respingere l’accezione di pace a cui si riferiva Calgaco, re di una tribù dei Britanni brutalmente sottomessa dai Romani, con la celeberrima frase: “Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace” (Tacito, De Agricola, 30, 4).
E dunque, quale pace vogliamo? Lo scrittore israeliano David Grossman, riferendosi agli “accordi di Abramo” stipulati da Israele con alcune petro-monarchie del Golfo Persico, parlava di “pace dei ricchi”. Era un modo per esprimere perplessità su un accordo – propiziato dall’allora presidente Trump e celebrato quasi unanimemente in Occidente come il viatico per una nuova epoca di stabilità – che intendeva, tra l’altro, congelare, e legittimare una volta per tutte, il regime di occupazione e apartheid imposto da Israele ai Palestinesi. “Soltanto a essere sordi” – ha commentato Gad Lerner – si poteva pensare di “imporre un equilibrio duraturo” nella regione “con la sola forza dei soldi e delle armi” (Gaza. Odio e amore per Israele, Feltrinelli, 2024, p. 173). E, davvero, affetto da una grave forma di sordità e cecità si è rivelato il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan, nel dichiarare, otto giorni prima del 7 ottobre: “La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto non lo sia mai stata da decenni” [sic!]. Evidentemente, la pace che vogliamo non è neanche quel genere di “tranquillità” che esisteva in Medio Oriente e nei territori occupati da Israele prima del 7 ottobre. Una pace coloniale, imposta dai forti sui deboli, alle loro condizioni. Platealmente “ingiusta” e, proprio per questo, finta, violenta, instabile. Destinata prima o poi a essere mandata all’aria dalla sollevazione degli oppressi.
Dobbiamo aspirare, allora, a una pace “giusta”? Quante volte abbiamo sentito risuonare questa formula, in questi mesi… Da ultimo l’ha richiamata l’europarlamentare Carola Rackete per giustificare il proprio voto favorevole ad autorizzare l’Ucraina all’uso delle armi occidentali per penetrare in profondità nel territorio russo. E, prima, di lei, l’ha invocata Zelensky, per opporsi a ogni e qualsiasi negoziato per porre fine alla guerra. Non che l’abbinamento tra pace e giustizia sia da respingere, sia chiaro. Ma il problema è che ciascuno ha la propria concezione della giustizia, che rischia di non avere niente a che fare con quella del nemico, che a sua volta accetterà di deporre le armi solo quando riterrà soddisfatte le proprie legittime aspirazioni. Là dove ciascuno invoca la “pace giusta” si continua a combattere a oltranza… D’altronde fiat iustitia, pereat mundus non è, propriamente, uno slogan pacifista. È il motto dei fanatici, non dei “costruttori di pace”. E il fanatismo dei “buoni” non è meno pericoloso di quello dei “cattivi”. Quando l’assolutizzazione del valore “giustizia” spinge a considerare accettabile perfino il rischio dell’olocausto nucleare, con conseguente estinzione dell’umanità, c’è qualcosa che non torna.
Meno pretenzioso – e meno strumentalizzabile – dell’ideale della “pace giusta”, è l’obiettivo della “pace attraverso il diritto”. Tra diritto (ius) e giustizia (iustitia) esiste naturalmente un nesso, suggerito dalla stessa etimologia. Ma, mentre la nozione di giustizia, in regime di “politeismo dei valori”, è altamente controversa, sul diritto è più facile intendersi. Kant definiva il diritto come “la limitazione della libertà di ognuno alla condizione dell’accordo con la libertà di qualsiasi altro, in quanto ciò sia possibile secondo una legge universale”. Tradotto nel nostro lessico, significa che l’idea di diritto, a partire dall’età moderna, è inscindibilmente legata a quella di eguaglianza. In uno stato di diritto la legge è uguale per tutti, viene applicata da un giudice terzo rispetto alle parti in conflitto, ricorrendo a strumenti alternativi alla violenza bruta e indiscriminata in cui consiste, per definizione, la guerra.
Eguaglianza, reciprocità, simmetria sono alla base del progetto di costruzione della convivenza pacifica tra i popoli attraverso il diritto. Mi assoggetto a un tribunale internazionale, a patto che anche tu lo faccia. Mi impegno a rispettare le decisioni comuni, se ho anch’io il diritto-potere di contribuire democraticamente alla loro formazione. Accetto di disarmarmi, se anche gli altri lo fanno. Rinuncio ad arricchire l’uranio per sviluppare la Bomba, se anche le potenze nucleari si impegnano a ridurre e, in prospettiva, a svuotare i propri arsenali. È la logica hobbesiana, e kantiana, dell’uscita dallo stato di natura, concepibile solo in condizioni di reciprocità, che rivive oggi nel progetto di una Costituzione della Terra redatto da Luigi Ferrajoli (https://volerelaluna.it/politica/2021/05/18/perche-una-costituzione-della-terra/).
Questo progetto, oltre a prevedere una rifondazione dell’ONU e del diritto internazionale su basi autenticamente universalistiche e la messa al bando delle armi di distruzione di massa, contempla tutta una serie di misure finalizzate a ridurre le enormi diseguaglianze oggi esistenti tra i popoli e gli individui nell’accesso a risorse vitali per la sopravvivenza. Kant poteva ancora pensare che all’origine delle guerre ci fossero i capricci dei principi, intenti a sfidarsi vicendevolmente per futili motivi, come in “una gara di piacere”, certi che i loro possedimenti e le loro vite non sarebbero stati colpiti. Oggi siamo più consapevoli del fatto che dietro alle guerre c’è la lotta per il controllo delle risorse – acqua, petrolio, gas, metalli preziosi – da cui dipendono gli equilibri del capitalismo globale. E ci sono gli interessi economici di attori non solo pubblici, ma privati: i “poteri selvaggi” dell’economia globalizzata, che dall’apertura di sempre più numerosi fronti di guerra traggono lauti profitti. Ecco che allora il binomio di pace e giustizia torna ad acquisire un senso: senza giustizia sociale, a livello globale, senza un radicale superamento dell’iniqua distribuzione delle ricchezze tra Nord e Sud del mondo, nessuna pace degna di questo nome sarà mai possibile.
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