La situazione che stiamo attraversando ci fornisce un importante segnale sulla necessità di passare dai livelli più ristretti a livelli sempre più ampi e comprensivi per rispondere alle necessità comuni.
I bisogni collettivi (di regole, di risorse e di utilizzo delle stesse) sempre più infatti appaiono richiedere risposte non limitate all’ambito ristretto delle nostre singole comunità, ma pensate e coordinate a livelli sempre maggiori, anzi a livello globale.
Il fenomeno della “globalizzazione” ci è noto, ma più per i suoi risvolti di fatto, attinenti alla circolazione delle persone e delle cose nello spazio, all’infittirsi delle comunicazioni senza riguardo alle distanze, allo sviluppo di strumenti tecnologici che di fatto aboliscono le distanze, che non per le conseguenze cui porta sul terreno delle istituzioni.
Da alcuni secoli siamo abituati a considerare lo Stato (piccolo, medio, grande) come il livello istituzionale fondamentale per l’organizzazione della nostra vita collettiva, e quindi di quella che chiamiamo la “politica” (l’arte di governare la polis). E anche quando, meno di tre secoli fa, si sono affermati principi politici ispirati ad idee universalistiche (è una “verità di per sé evidente” che “tutti gli uomini sono creati uguali, e sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili…”, come si esprimeva la Dichiarazione di indipendenza americana del 1766), la loro traduzione pratica e la loro applicazione in termini istituzionali sono rimaste largamente ancorate e limitate al livello degli Stati “nazionali”.
Che cos’è la nazione? Se ci si pensa bene, non è un’entità data e tanto meno fissa a priori. L’istituzione politica fondamentale – lo Stato – si è negli ultimi due secoli definita per lo più come espressione politica di una “nazione”, vista come un’entità “naturale” (per lo più linguistica e culturale): ma non sono infrequenti i casi in cui lo stesso senso di appartenenza nazionale è stato costruito nella storia come il frutto di una “appartenenza” politica, allo Stato, e non viceversa. Così scozzesi e inglesi, abitanti di Parigi, della Bretagna e dell’Alsazia, o rispettivamente catalani, baschi e abitanti delle altre parti della Spagna, abitanti dei diversi Cantoni svizzeri, abitanti delle Regioni del nord e del sud dell’Italia (per stare ad esempi noti in Europa), si sono “riconosciuti” (anche se non sempre incondizionatamente) come appartenenti alla stessa “nazione” in quanto appartenenti allo stesso “Stato nazionale”.
“Sopra” lo Stato non c’è nulla. O meglio, c’è la comunità degli Stati (o delle nazioni). Ma dal punto di vista istituzionale, cioè dell’organizzazione dei poteri e delle regole che governano i rapporti fra gli individui e l’autorità politica, gli Stati, almeno fino alla seconda guerra mondiale, si consideravano le istituzioni più comprensive, fra quelle che riuniscono gruppi di individui. Sopra lo Stato non c’era nessuna autorità: questo è il senso dello Stato “sovrano”, come si è affermato nella storia recente. “Sovrano” significa che non riconosce alcuna autorità superiore; superiorem non recognoscens.
Ci sono, sì, non sopra, ma accanto, “gli altri” Stati. Con essi, secondo il diritto internazionale classico (come era concepito fino alla seconda guerra mondiale), ogni Stato può entrare in rapporto, ma come si fa tra pari: stipulando contratti (i trattati) o facendo guerra (e alleanze) per risolvere le controversie. Il diritto internazionale classico non regolava rapporti fra persone, singole o associate, ma riconosceva come soggetti solo gli Stati “sovrani”, e prevedeva regole e meccanismi (sulla stipulazione dei trattati, o sulle forme di arbitrato nelle controversie) tutti basati sulla esclusiva soggettività degli Stati.
Lo stesso costituzionalismo, come si è affermato fino alla prima metà del Novecento, realizzava i suoi ideali di ispirazione universalistica all’interno delle realtà nazionali e statali. Ma è qui che l’”evento epocale” della seconda guerra mondiale ha segnato una svolta. Non a caso è proprio alla fine di quella guerra che viene fondata l’ONU, la prima istituzione (dopo il fallito esperimento della Società delle Nazioni negli anni Venti e Trenta del secolo scorso) che sorge con l’ambizione di dar vita ad un’autorità sovraordinata a quella degli Stati, e a cui in linea di principio sarebbe riservato l’uso della forza delle armi. Inoltre – questa è l’altra grande novità – si afferma l’idea che i diritti umani sono davvero universali, nel senso che spettano a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla loro appartenenza nazionale e politica. Il primo atto rilevante dell’ONU è l’approvazione della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, il cui articolo 1 recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti, Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Da allora il diritto “internazionale” (che dovrebbe in realtà oggi chiamarsi sovranazionale) ha cessato di avere come soggetti solo gli Stati, ma si rivolge anche agli individui, titolari di diritti che tutti gli Stati debbono rispettare, nei confronti di tutti, e le cui violazioni da parte di qualunque Stato sono suscettibili talora di essere accertate e giudicate da Corti sovranazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo, che siede a Strasburgo, e applica una Convenzione vincolante per i 48 Stati del “Consiglio d’Europa”, quindi ben al di là dei confini dell’Unione Europea.
Ma questi sono solo i primi passi di un cammino che è irreversibilmente cominciato, e non potrà non trovare sviluppo nella storia futura dell’’umanità. Ecco perché il nuovo costituzionalismo non potrà più essere solo “nazionale”, ma dovrà spiegare i suoi effetti a livello dell’intera umanità. Questo è il nuovo costituzionalismo “della Terra”, che dovrà trovare sviluppo anche in adeguate istituzioni sovranazionali.
Ciò non vuol dire, naturalmente, che si possa pensare in un lontano futuro ad un unico “Governo mondiale”, destinato a sostituire le autorità degli Stati. Come anche all’interno degli Stati le autorità istituzionali si collocano ai diversi livelli territoriali (Comuni, Province, Regioni ecc,), così gli Stati, singoli o a loro volta federati in unità più ampie (come l’Unione Europea), continueranno ad operare, ma nella cornice di un sistema istituzionale mondiale che dovrebbe divenire sempre più ricco e più preciso, fatto di autorità facenti capo all’ONU e chiamate a prendere e a garantire decisioni a livello mondiale. Anche tenendo conto che ormai vi sono sempre più problemi – da quello della protezione ambientale e del clima, a quello di assicurare un livello di vita degna a tutti gli esseri umani in qualunque parte della terra, a quello della regolazione, anche a questo scopo, delle comunicazioni attraverso la rete e dei movimenti finanziari a livello globale – che i singoli Stati, neppure se volessero, riuscirebbero a governare adeguatamente.
Dovrà quindi necessariamente essere ripensata nella sua disciplina e nei suoi effetti anche la “cittadinanza”, che oggi si declina solo come appartenenza ad uno Stato nazionale. Paradossalmente, l’idea stessa di cittadinanza, nata nel primo costituzionalismo in funzione eguagliatrice, cioè per superare le classificazioni e le discriminazioni delle persone per nascita, per ceto o per mestiere (“tutti cittadini”) è divenuta ormai forse la maggiore ragione di disuguaglianza e di discriminazione fra le persone. Non solo concorre (nei sistemi democratici) a eleggere i rappresentanti della comunità solo chi è cittadino di quello Stato, ma ogni Stato riserva ai soli propri cittadini un patrimonio di diritti e di facoltà (anzitutto quello di entrare e restare liberamente nel relativo territorio), di cui gli “stranieri” non godono.
E ogni Stato stabilisce quali sono i criteri in base ai quali una persona è riconosciuta o meno come suo cittadino: la nascita da un genitore cittadino, (c.d. jus sanguinis), la nascita nel territorio dello Stato (c.d. jus soli) l’acquisto volontario della cittadinanza legato a presupposti discrezionalmente stabiliti da ogni singolo Stato. Per cui, ad esempio, in Italia sei riconosciuto come cittadino di pieno diritto, e puoi sempre venire e restare nel territorio, e perfino votare per eleggere dei rappresentanti nel Parlamento italiano, se hai ascendenti che hanno conservato questa cittadinanza, anche se qui non sei nato e magari non sei mai venuto ad abitare; o in altri Stati sei riconosciuto come cittadino perché lì sei nato, anche se dopo la nascita hai abbandonato da molto tempo quel territorio e non vi sei più tornato; mentre chi vive stabilmente nel territorio, partecipando a tutte le attività e ai doveri della comunità, ma non è cittadino, potrà diventarlo solo se gli sarà concesso, a condizioni (ad esempio di durata e di “regolarità” della residenza) anche molto rigorose. Oggi in Italia devi aver qui risieduto regolarmente per almeno dieci anni, e, secondo una recentissima (incostituzionale) innovazione la tua domanda di cittadinanza potrà essere decisa anche dopo altri quattro anni!
Nel “nuovo” diritto costituzionale “globale” non dovrebbero mancare regole minime, valide per tutti gli Stati, che disciplinino anche questi aspetti: come già accade per il riconoscimento di diritti civili, che fino a ieri il nostro Stato condizionava a proprie decisioni legislative autonome, mentre oggi è vincolato dalle convenzioni ONU e dalla Convenzione europea sui diritti.
Il grande, storico tema delle migrazioni da un territorio ad un altro, motivate da tante ragioni, spesso di sopravvivenza, non potrà non trovare a sua volta un quadro di disciplina sovranazionale valido per tutti gli Stati.
Anche questo fa parte del “costituzionalismo globale” del futuro.
Le scorie della cittadinanza
Dovrà essere ripensata nella sua disciplina e nei suoi effetti la “cittadinanza” che oggi si declina solo come appartenenza ad uno Stato nazionale
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