L’ostentazione della disumanità al vertice delle istituzioni e il crollo del senso morale a livello di massa

Un tempo relegata alle dittature e alle tirannidi, lo sfoggio della crudeltà attraverso leggi discriminatorie e spesso violente testimonia come il diritto rischia di trasformarsi in un esercizio di crudeltà e sottomissione

1. La crudeltà nel diritto. Quattro forme di crudeltà – Ho trovato molto giusta e felice l’organizzazione da parte dell’Università di Catanzaro di un convegno dedicato al “Ritorno della crudeltà: il diritto come tormento”. In questi ultimi anni – in Italia, ma non solo in Italia, e in maniera aperta ed esplicita con l’attuale governo – si è infatti venuto affermando un nuovo modello di legittimazione politica: l’esibizione della crudeltà e della disumanità quale fonte e fattore del consenso politico. Non è un fenomeno nuovo. Si tratta di un modello di legittimazione sperimentato in tutti i regimi anti-democratici. Si pensi al fascismo e al nazismo, che ostentarono il razzismo, la prevaricazione e la violenza a livello istituzionale, sollecitando e legittimando i peggiori istinti dei loro seguaci e provocando un crollo della morale e del senso di umanità a livello di massa. Giacché l’immoralità esibita a livello istituzionale ha un carattere performativo e un effetto contagioso. E’ un veleno che vale ad avallare, o peggio ad alimentare razzismo, violenza, odio e prevaricazione a livello di massa.

      L’elenco delle manifestazioni istituzionali della disumanità è, in Italia, lungo e penoso. Non riguarda solo le politiche dell’attuale maggioranza di governo, ma certamente è con esse cresciuto, quale manifestazione di un’ideologia apertamente illiberale e discriminatoria. Indicherò quattro politiche governative nelle quali si è manifestata questa ostentazione di disumanità: 1) le politiche e le leggi disumane in tema di migranti; 2) le leggi penali informate alla crudeltà in materia carceraria; 3) lo sviluppo delle misure di prevenzione contro pericolosi e sospetti e, più in generale, la crescita di un diritto penale dell’autore, anziché del fatto, come invece imporrebbe l’art. 25 della nostra costituzione; 4) infine le misure economiche contro i poveri e a vantaggio dei ricchi. Sono tutte misure e politiche accomunate dalla lesione dei principi di uguaglianza e dignità delle persone e dalla retrostante logica del nemico, immancabilmente identificato con i soggetti più deboli.

2. A) Il populismo penale contro i migranti – Il terreno privilegiato di queste politiche è quello della legislazione e delle pratiche contro i migranti, i quali impersonano i soggetti più deboli e i nemici ideali, che la demagogia populista e razzista induce a percepire come persone inferiori e a renderne accettabile qualunque disgrazia, inclusa la morte. Giacché il razzismo è la “condizione”, scrisse lucidamente Michel Foucault, che rende accettabile “la messa a morte” di una parte dell’umanità[1]. Solo la svalutazione razzista della loro diversità rende infatti tollerabile che migliaia di persone affoghino ogni anno nel Mediterraneo – circa 30.000 nell’ultimo decennio – e che milioni di persone muoiano nei paesi poveri per mancanza dell’acqua potabile, del cibo e dei farmaci salva-vita.   

     Questa aggressione ai migranti si è sviluppata, in Italia, con un nuovo metodo legislativo: lo sviluppo, a partire da una prima legge base, di una serie ininterrotta di leggi – di solito decreti legge – che hanno volta a volta aggravato e reso più disumane le restrizioni dei diritti dei migranti, additati come probabili delinquenti, respinti alle frontiere, privati della dignità, costretti alla clandestinità, ridotti a non-persone. La legge base è stata la legge Turco-Napolitano n. 40 del 6.3.1998, che ha introdotto la detenzione amministrativa dei migranti, per 30 giorni e limitatamente ai casi di volontaria inottemperanza dei provvedimenti di espulsione. A partire da questa prima violazione dell’art. 13 della Costituzione, si è sviluppato un lungo elenco di leggi contro i migranti: la legge Bossi-Fini n. 189 del 30.7.2002, che ha trasformato in regola l’eccezione del trattenimento coattivo; il decreto legge n. 241 del 2004, che ha affidato il giudizio di convalida della detenzione e dell’espulsione ai giudici di pace nell’evidente presupposto che la libertà e la dignità degli immigrati non meritano di scomodare la magistratura ordinaria; il decreto legge n. 92 del 2008, che per tutti i reati ha introdotto l’aggravante della condizione di stranieri irregolari dei loro autori, dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Corte n. 249 del 2010; la legge n. 94 del 2009, forse la più turpe della storia della Repubblica, che oltre a triplicare la durata massima del trattenimento ha introdotto, con l’art. 10-bis, il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, così criminalizzando la condizione di immigrato clandestino. Ha fatto in questo modo la sua ricomparsa in Italia, dopo le leggi razziste del 1938, la figura della persona illegale, in contrasto non solo con il valore della dignità delle persone, ma anche con i principi di offensività e colpevolezza.

      L’aggressione compulsiva ai migranti continua con la legge n. 129 del 2011, che ha esteso i presupposti della detenzione amministrativa portandone la durata, in taluni casi, a 18 mesi. Dopo una breve inversione di tendenza – l’estensione ai centri di detenzione dei migranti della competenza del Garante nazionale dei detenuti e l’abbattimento da 18 a 3 mesi del trattenimento amministrativo, ad opera dalla legge n. 161 del 2014 – la spirale repressiva riprende con il decreto legge Minniti n. 13 del 2017, che ha esteso le ipotesi del trattenimento, ha ridotto le garanzie processuali in tema di riconoscimento dello status di rifugiato e ha abolito la possibilità di impugnare i provvedimenti di diniego dell’asilo; i due decreti legge Salvini: il n. 113 del 2018, che ha riportato a 18 mesi la durata della detenzione amministrativa e ha sostanzialmente abolito il permesso di soggiorno per motivi umanitari, così gettando nella clandestinità decine di migliaia di migranti totalmente integrati nella nostra società, e il decreto legge n. 53 del 2019, che ha conferito al governo il potere di vietare l’ingresso e il transito di navi nelle acque territoriali e di chiudere i porti, in contrasto con le convenzioni internazionali; infine il cosiddetto “decreto ong” del 2023 dell’attuale governo che condiziona la possibilità delle navi di salvare le persone in mare a insensati requisiti burocratici, introduce ostacoli ai salvataggi, come il divieto dei salvataggi multipli e prevede, per quanti violano queste assurde prescrizioni, sanzioni da 10 a 50.000 euro, il fermo per due mesi e, nei casi di reiterazione delle violazioni, la confisca della nave utilizzata per i salvataggi.

       Tre ordini di misure razziste, dunque, con cui viene ostentata la disumanità delle istituzioni. La prima è la detenzione amministrativa, vera contraddizione in termini che ne segnala il tratto razzista e intrinsecamente incostituzionale dato che in base ad essa la libertà dei migranti è altra cosa dalla libertà dei cittadini. Ogni possibile abuso o vessazione che in questi luoghi si verifichi resta di fatto fuori dalla visibilità e dal controllo giurisdizionale. Sembra che non valga per i migranti la sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 1996, secondo cui la libertà personale è un “diritto inviolabile, rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale dell’individuo, non diversamente dal contiguo e strettamente connesso diritto alla vita e all’integrità fisica, con il quale concorre a costruire la matrice prima di ogni diritto costituzionalmente protetto della persona”.

        La seconda misura è stata l’abolizione della cosiddetta protezione speciale, che aveva consentito l’accoglienza, l’integrazione e in molti casi l’occupazione a migliaia di immigrati privi dell’asilo politico e tuttavia in condizioni di grave disagio e vulnerabilità. Privare queste persone di questo tipo di protezione equivale a renderli irregolari e clandestini, e quindi a spingerli nell’illegalità, consegnandoli al controllo delle mafie, allo sfruttamento selvaggio del loro lavoro, all’odio e all’emarginazione sociale. A queste misure l’attuale governo ha aggiunto un atto di pura demagogia, diretto solo a esibire la sua ferocia onde soddisfare e alimentare la xenofobia del suo elettorato: la dichiarazione, l’11 aprile 2023, dello stato d’emergenza in materia di immigrazione che consentirà alla presidente del consiglio di emanare ordinanze contro i migranti senza discuterle in Parlamento.

       Il terzo ordine di misure contro i migranti, certamente il più immorale, è consistito in una mutazione dello stesso populismo punitivo. Il vecchio populismo penale enfatizzava la gravità di fenomeni pur sempre illegali come la criminalità di strada, onde ottenere consenso a inasprimenti di pene, inutili ma pur sempre legittimi. Il nuovo populismo xenofobo, al contrario, criminalizza condotte non solo lecite ma moralmente virtuose, come il salvataggio di vite umane in mare o le forme spontanee dell’accoglienza da parte dei comuni cittadini, al fine di alimentare paure e razzismi e ottenere consenso a misure esse stesse illegali, come la chiusura dei porti più vicini, le preordinate omissioni di soccorso, i sequestri delle persone salvate e le lesioni dei diritti umani dei migranti. E’ stata così creata l’incredibile classe dei “reati di solidarietà”, come le varie figure di favoreggiamento umanitario, e non a fini di lucro, dell’ingresso o della permanenza irregolare in Italia, o l’offerta di lavoro a un extracomunitario irregolare, o l’alloggio dato a uno straniero privo di titolo di soggiorno. Il caso limite è stato la condanna in primo grado a 13 anni di reclusione di Mimmo Lucano, giudicato colpevole di associazione a delinquere, truffa, peculato e abuso d’ufficio per aver promosso quale sindaco di Riace – senza alcun profitto personale e comunque senza dolo – sistemi di accoglienza e di integrazione dei migranti. E’ una sentenza che – non diversamente dalle indagini a vuoto promosse dalla Procura di Catania contro chi salva vite umane in mare – si spiega solo con l’idea che non è credibile la virtù civile dell’umana solidarietà dettata, senza alcun tornaconto personale, dalla sola finalità di salvare persone sconosciute in mare. 

3. B) Diritto penale disuguale, garantismo del privilegio e carcere disumano – Il secondo terreno sul quale si è manifestato il sadismo legislativo è quello del diritto penale, in particolare con l’accentuazione della durezza delle pene detentive e delle misure personali della prevenzione. Queste manifestazioni di disumanità punitiva sono accomunate da due elementi: lo sviluppo di un diritto penale dell’autore, anziché del fatto, in forza del quale si è puniti non già per quel che si è fatto, ma per quel che si è, e la crescita di un diritto penale della disuguaglianza: massimo e inflessibile per i deboli, minimo e garantista, fino alla pretesa dell’impunità, per i potenti. Entrambe, inoltre, sono progressivamente cresciute grazie al nuovo metodo legislativo già segnalato in tema di immigrazione: la legislazione ad aggravamenti crescenti, quanto ai presupposti e all’afflittività, diretta a soddisfare il punitivismo compulsivo indotto dal populismo penale.

       Il carcere è il luogo contro cui si è maggiormente esercitata la crudeltà istituzionale. Benché la criminalità in Italia sia crollata – meno di 300 l’anno gli omicidi, metà dei quali femminicidi, contro i 1.938 del 1991 – la popolazione carceraria è quasi raddoppiata. I detenuti, che erano 31.053 il 30 giugno 1991, alla data del 31 maggio 2024 erano 61.547 (ben oltre il numero dei posti, che è di 51.178). Di essi, alla data del 22 agosto 2023, ben 1.867 erano ergastolani, quasi cinque volte più degli ergastolani nel 1992 che erano solo 408. Come mostra l’aumento enorme dei suicidi in carcere (11,4 persone ogni 10.000 detenuti, esattamente il doppio della media europea che è di 5,7 e 5 volte di più della media dei suicidi negli anni Sessanta), si sono inoltre aggravate le condizioni di vita in carcere, sia rispetto al passato che rispetto agli altri paesi europei.

        Soprattutto, hanno fatto la loro comparsa, in Italia, ben due regimi carcerari speciali, di cui l’uno è di solito il presupposto dell’altro. Il primo è il carcere duro, detto “ostativo” perché ostacola la concessione ai detenuti dei permessi e delle misure alternative al carcere: introdotto dal decreto legge n. 152 del 1991 con l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario che condizionava tale concessione, per i delitti di mafia, all’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata; aggravato all’indomani della strage di Capaci dal decreto-legge n. 306 del 1992, che trasformava la condizione negativa dell’assenza di collegamenti esterni al carcere con quella positiva della “collaborazione con la giustizia”; allargato  infine, dalle leggi n. 92 del 2001, n. 279 del 2002, n. 11 del 2012, n. 19 e n. 43 del 2015 ad altri svariati reati, dalle associazioni terroristiche all’associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi e al favoreggiamento di ingressi illegali di stranieri.

       Il secondo regime carcerario speciale è quello ancora più duro previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento carcerario. Introdotto dalla legge Gozzini n. 663 del 1986, originariamente si limitava, “in casi eccezionali di rivolte o di altre gravi situazioni di emergenza”, ad affidare al ministro della giustizia, cui spetta la gestione delle carceri, il potere di “sospendere, nell’istituto interessato o in parte di esso, l’applicazione delle normali regole di trattamento”. Con il decreto n. 306 del 1992, questo potere è stato trasformato nell’incredibile “facoltà” del ministro  di “sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis”, o comunque per delitti di favoreggiamento della mafia, “l’applicazione delle regole di trattamento” ordinarie. Prorogato più volte, questo regime speciale è stato reso permanente dalla legge n. 279 del 2002; è stato inasprito da una legge n. 94 del 2009, che in deroga ai principi costituzionali del giudice naturale e del divieto di giurisdizioni speciali ha affidato al Tribunale di sorveglianza di Roma la competenza a decidere su tutti i reclami contro la sua applicazione e ha inoltre aggiunto una lunga serie di inutili vessazioni che nulla hanno a che fare con le esigenze della sicurezza. Dunque questo art. 41-bis fa dipendere la maggiore afflittività della pena per determinati delitti da un provvedimento del Ministro della giustizia; non quindi da una legge o da una pronuncia giudiziaria, ma da un atto amministrativo che così interferisce nell’esecuzione penale. Si tratta di un’incredibile violazione della separazione dei poteri e, inoltre, dell’art. 13, 2° comma della Costituzione secondo cui “non è ammessa forma alcuna di detenzione… né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria”.

       Entrambi questi regimi carcerari aggravati sono inoltre in contrasto con la Costituzione sotto due profili. Sono incostituzionali perché consistono, anche a causa della lunga durata e delle possibili proroghe, in “trattamenti contrari al senso di umanità” vietati dal comma 3° dell’art. 27 Cost. Ma lo sono anche perché, in contrasto con il principio di legalità penale previsto dal comma 2° dell’art. 25 Cost., non ricorre quale loro presupposto nessun “fatto commesso” ma solo la valutazione della pericolosità del detenuto. D’altro canto, il numero sempre più alto dei detenuti sottoposti a questi regimi – 9.369 persone sottoposte al regime ostativo previsto dall’art. 4-bis, tra i quali 1267 dei 1.867 ergastoli, solo perché colpevoli, pur dopo la condanna, di mancata collaborazione con la giustizia, e 728 persone sottoposte al regime previsto dall’art. 41-bis, cioè a una “pena nella pena” stabilita dal ministro della giustizia – non si spiega se non con il carattere burocratico, arbitrario e vessatorio dell’applicazione delle norme che lo prevedono. Peraltro il garantismo della disuguaglianza della destra attualmente al governo si è manifestato platealmente nella legge di conversione n. 199 del 30.12.2022: da un lato in norme come l’aumento da 26 a 30 anni della pena espiata dagli ergastolani prima che si possa loro concedere la liberazione condizionale e come la pena da 3 a 6 anni per le occupazioni “di terreni o edifici altrui al fine di realizzare un raduno musicale”; dall’altro in un regalo ai soli condannati per peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione, consistente nella soppressione, per tutti costoro, del regime del carcere ostativo previsto dall’art. 4-bis che ad essi era stato esteso dalla legge n. 3 del 9.1.2019.

        Se è vero che la civiltà di un paese, come scrisse Montesquieu, si misura dalla mitezza delle sue pene[2], questi crudeli inasprimenti punitivi segnalano una pesante regressione civile del nostro paese e un abbassamento della cultura garantista e del senso di umanità dei nostri magistrati. Ricorderò solo un fatto che attesta la misura di questa regressione. Ancora negli anni Novanta la grande maggioranza dei parlamentari italiani era favorevole all’abolizione dell’ergastolo, che infatti fu approvata il 30 aprile 1998 dal nostro Senato con 107 voti favorevoli, 51 contrari e 8 astenuti. Oggi quasi tutte le forze presenti in Parlamento respingono con fermezza – come è avvenuto a seguito dell’aggressione del coordinatore del principale partito di governo a taluni deputati dell’opposizione, insultati come possibili conniventi con il terrorismo per aver fatto visita al detenuto Alfredo Cospito, in fin di vita dopo 100 giorni di sciopero della fame per protesta contro il regime previsto dall’art. 41-bis – l’accusa di essere a favore dell’abolizione non diciamo dell’ergastolo, ma perfino del regime previsto dall’art. 41-bis.

4. C) Le misure di prevenzione personale – Il terzo capitolo dell’odierno diritto disumano è quello espresso dallo sviluppo di un sistema investigativo e punitivo ante o extra delictum: il sotto-sistema delle misure di prevenzione, giustificate non già dalla commissione di un reato bensì dalla supposta pericolosità dei loro destinatari, prevalentemente poveri ed emarginati.

       Questo diritto penale preventivo, in forza del quale si è puniti non per ciò che si è fatto ma per ciò che si è, contraddice tutti i principi garantisti del diritto penale. Le misure di prevenzione sono infatti misure ante o praeter delictum, irrogate in assenza di tutte le garanzie che del reato sono gli elementi costitutivi – la materialità dell’azione, l’offensività dell’evento e la colpevolezza dell’autore – grazie alla loro collocazione, quali misure amministrative, in una sorta di limbo. Questa truffa delle parole le ha sostanzialmente sottratte al dibattito giuridico: concepite dagli amministrativisti come misure punitive di competenza dei penalisti e da questi trascurate perché misure formalmente non penali, esse sono ignorate dal dibattito pubblico perché destinate, oltre che a persone sospette di appartenere ad associazioni mafiose o terroristiche, soprattutto a persone colpevoli solo della loro emarginazione: disoccupati, vagabondi, prostitute, immigrati e tossicodipendenti.

      L’origine di queste misure è ottocentesca. In Italia compaiono per la prima volta nel capo III del titolo VII del libro II del codice penale sardo del 1839, dedicato agli “oziosi, vagabondi, mendicanti ed altre persone sospette”. Dopo svariate modifiche – nel 1852, nel 1854 e nel 1859 – vengono riorganizzate nel Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1889, in occasione della simultanea approvazione, il 30 giugno, del codice penale Zanardelli. Il sistema punitivo viene così diviso in due: le pene e il codice penale per fatti qualificati come reati; le misure di prevenzione dell’ammonizione, della vigilanza speciale e del domicilio coatto, previste invece, per i pericolosi e i sospetti, dal titolo terzo del Testo unico intitolato “Disposizioni relative alle classi pericolose della società”.  

        Il regime fascista confermò questa spartizione classista con il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza emanato un anno dopo il codice penale Rocco con il regio decreto n. 773 del 1931. In questo si prevedevano: a) il “ricovero” in istituti di assistenza delle persone inabili al lavoro e prive di mezzi di sussistenza; b) il “rimpatrio con foglio di via obbligatorio” delle non meglio precisate persone “sospette” per la loro “condotta” e delle persone “pericolo­se per l’ordine e la sicurezza pubblica o per la pubblica morali­tà” inclusi, “se necessario”, i non più detenuti dopo l’uscita dal carcere; c) l’“ammonizione” per gli “oziosi”, “i vagabondi… sospetti di vivere col ricavato di azioni delittuose” e per “le persone designate dalla pubblica voce come pericolose socialmente o per gli ordinamenti politici dello Stato”; d) il “confino di polizia” da uno a cinque anni “in una colonia o in un comune del regno” dei “pericolosi alla sicurezza pubblica” e di “coloro che svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un’attività” contro i poteri  dello Stato, in breve degli antifascisti[3].

         Questo edificio poliziesco, che molti – si pensi al confino – associano solo a un lontano passato fascista, ha subito, nel 1956, un salto di qualità. Fino ad allora la prevenzione ante delictum era solo materia di polizia, essendo la giurisdizione penale competente unicamente alla repressione di reati già commessi in accordo con i principi nulla poena sine crimine e nullum crimen sine lege. Successe invece una singolare vicenda. All’indomani della sentenza n. 2 del 23.6.1956 con cui la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità del rimpatrio con foglio di via obbligatorio per contrasto con gli artt. 13 e 16 della Costituzione, la legge n. 1423 del 27.12.1956 ha affidato al tribunale la competenza a disporre, su proposta dell’autorità di polizia, la sorveglianza speciale, il divieto di soggiorno e l’obbligo di soggiorno (art. 3 e 4). Ha invece lasciato in capo al questore la competenza a decidere il foglio di via obbligatorio (art. 2), destinato a “gli oziosi e i vagabondi”, ai “dediti a traffici illeciti”, ai sospetti di sfruttamento della prostituzione e a quanti “svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume” (art. 1).

       Questo affidamento al Tribunale della competenza a ordinare le misure di prevenzione personali più importanti fu letto come una garanzia, quella della riserva di giurisdizione imposta dall’art. 13 della Costituzione. In realtà iniziò allora, all’ombra di questa “garanzia”, una progressiva espansione, sia di tipo quantitativo che di tipo qualitativo, delle misure di prevenzione personali ante delictum, che hanno finito per imprimere alla giurisdizione penale un’innegabile impronta poliziesca. Questa espansione, secondo il metodo già illustrato dei progressivi ampliamenti e inasprimenti punitivi, inizia con la legge antimafia n. 575 del 31.5.1965, che estese tali misure anche “agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose” e, soprattutto, attribuì al procuratore della Repubblica, oltre che al questore, la facoltà di proporre la sorveglianza speciale, il divieto di soggiorno e l’obbligo di soggiorno, cioè il confino. Prosegue, nel corso degli ultimi decenni, con la produzione incessante di leggi di pubblica sicurezza, fino all’ultima sistemazione organica operata con il decreto legislativo n. 159 del 2011, intitolato Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Tale codice prevede tre classi di misure di prevenzione: a) le misure di prevenzione personali applicate dal questore (artt. 1-3) e consistenti nel foglio di via obbligatorio con cui i soggetti che si suppone vivano “abitualmente con i proventi di attività delittuose” o siano “dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”, vengono rimandati nei loro luoghi di residenza per un periodo non superiore a tre anni”; b) le misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria (artt. 4-15), che riguardano, oltre a tutte le persone sopra indicate, gli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose, ma anche di una lunga serie di altri reati, e consistono nella sorveglianza speciale, con o senza divieto di soggiorno in uno o più comuni, oppure nell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza disposti dal Tribunale su proposta del questore o del procuratore della Repubblica; c) le misure di prevenzione patrimoniali, inflitte anch’esse da un tribunale (artt. 16-65) alle persone passibili di misure di prevenzione personali e consistenti nel sequestro o nella confisca di beni su proposta del questore o del procuratore della Repubblica.

      E’ chiaro che il giudizio richiesto dall’applicazione di queste misure ante delictum ha una chiara valenza inquisitoria, avendo come oggetto non già un fatto ma la personalità sospetta o pericolosa dei loro destinatari. Inoltre la figura del pubblico ministero ne risulta gravemente deformata. È infatti evidente che la “proposta” di misure di prevenzione non può che essere facoltativa, essendo fondata su incontrollabili motivi di sospetto. Con la conseguenza che con essa si è indebolito il più potente fondamento costituzionale dell’indipendenza del pubblico ministero, che consiste nell’“obbligo di esercitare l’azione penale” stabilito dall’art. 112 della Costituzione a garanzia altresì della sua soggezione alla legge e dell’uguaglianza dei cittadini. La forma giurisdizionale del procedimento di prevenzione, d’altro canto, non ne cambia la sostanza poliziesca, consistente nella penalizzazione di persone pericolose o sospette. Al di là delle etichette – “misure di prevenzione” anziché “pene” – ci troviamo di fronte a limitazioni extra delictum delle libertà fondamentali che contraddicono tutti i principi elementari del modello garantista del diritto penale, primo tra tutti quello di retributività, nulla poena sine crimine, stabilito dall’art. 25, 2° comma della Costituzione.

       A questo armamentario di misure di prevenzione personali si è poi aggiunto, in questi ultimi anni, un’altra lunga serie di misure cosiddette “atipiche”, prodotte tutte dalla solita, compulsiva decretazione d’urgenza: i cosiddetti “daspo”. Nato con il cosiddetto “daspo sportivo” introdotto dalle leggi n. 377 del 2001 e n. 210 del 2005 (quale “divieto di accesso alle manifestazioni sportive” dei violenti), questo strumento di controllo sociale ha avuto un’enorme espansione con l’introduzione del cosiddetto “daspo urbano” nel decreto-legge Minniti n. 14 del 20.2.2017, convertito nella legge n. 48 del 18.4.2017, che ha aumentato l’indeterminatezza sia dei suoi presupposti che dei suoi destinatari e dei luoghi tutelati. Creata a tutela della “sicurezza urbana” e del “decoro” della città[4], questa nuova figura si articola in una serie di misure di crescente gravità: l’ordine municipale di allontanamento per 48 ore di quanti impediscano o limitino il libero accesso a determinati spazi con parcheggi o commerci abusivi o atti contrari alla pubblica decenza; il divieto di accesso ad uno o più d’uno di tali spazi emesso dal Questore, in caso di reiterazione di tali condotte, per una durata non superiore a sei mesi e da sei mesi a due anni ove il malcapitato sia stato condannato negli ultimi cinque anni per reati contro la persona o il patrimonio; il divieto di accedere o di avvicinarsi a locali pubblici da uno a 5 anni, emesso dal Questore contro chi sia stato condannato per vendita di stupefacenti, unitamente talora all’obbligo di presentarsi almeno due volte la settimana presso gli uffici della polizia e al divieto di allontanarsi dal comune di residenza.

         Ovviamente anche i destinatari di queste misure sono persone emarginate – prostitute, clochard, mendicanti, immigrati, tossicodipendenti – oppure attivisti politici colpevoli di manifestazioni di protesta in tema di ambiente, o in difesa dei diritti dei migranti o del diritto alla casa. Ad essi il decreto-legge n. 123 del 2023 ha aggiunto i minorenni trovati in possesso di droga, per i quali viene previsto il daspo da un uno a tre anni, oltre all’arresto in flagranza ove siano sorpresi a spacciare stupefacenti anche di lieve entità oppure in caso di violenza o resistenza a pubblico ufficiale. Ha inoltre previsto, per i genitori che non mandino i figli alla scuola dell’obbligo, la pena fino a due anni di reclusione.

        L’argomento demagogico a sostegno di tutto questo diritto della crudeltà è la sicurezza, che non vuol più dire, nel lessico populista, sicurezza sociale del lavoro e della sussistenza, né tanto meno sicurezza delle libertà contro gli abusi giudiziari e polizieschi, secondo la nozione di Montesquieu[5], ma unicamente sicurezza dalla sola criminalità di strada, e non certo da quella dei potenti. E’ questo il messaggio classista delle campagne sulla sicurezza, favorite dalla centralità che, come ha ben mostrato Tamar Pitch, è stata assunta nell’immaginario penalistico dalle vittime[6], tanto visibili nei reati di strada quanto invisibili nei delitti dei potenti, come le corruzioni, le bancarotte, le evasioni e le frodi fiscali e perfino il crimine organizzato. Con due effetti regressivi: l’iden­ti­fica­zio­ne illu­soria, nel senso co­mune, tra si­curez­za e di­ritto pena­le e la rimozione, dall’o­rizzon­te della politica, delle politi­che sociali di inclu­sione, certa­mente assai più costose e impegnative ma anche le sole in grado di ag­gredire e ridurre le cause strut­turali della criminalità.

5. D) Politiche contro i poveri – Infine l’ultimo capitolo della crudeltà nel diritto è quello riguardante le politiche disumane contro i poveri.     

       Il governo di estrema destra di Giorgia Meloni ha inaugurato l’attuale legislatura non solo con le leggi dirette a sabotare i salvataggi in mare – con conseguente corresponsabilità morale nelle centinaia di persone affogate – e con l’attacco alla libertà di riunione, ma anche con i condoni e le agevolazioni fiscali a favore dei ricchi e con l’abolizione di quella miserabile misura, il reddito di cittadinanza, che era stata introdotta nella precedente legislazione e aveva levato dalla miseria assoluta circa un milione e 300.000 famiglie; sicché l’Italia – con una povertà che ha raggiunto la cifra enorme di 5.800.000 poveri assoluti – è tornata ad essere il solo paese europeo privo di garanzie della sussistenza. Hanno fatto seguito

la sostanziale riduzione della spesa sanitaria, l’aumento delle spese militari, la non iscrizione all’anagrafe dei genitori non biologici, la conseguente menomazione dei diritti civili dei bambini nati da coppie omosessuali, la consueta aggressione ai magistrati che indagano su persone dell’area di governo e, infine, l’attacco all’uguaglianza delle persone e all’unità della Repubblica con la legge sull’autonomia regionale differenziata.

       Si rivela, in queste politiche contro i poveri e a favore dei ricchi, un aspetto ulteriore dell’involuzione del nostro sistema politico realizzatasi in questi ultimi tre decenni e precipitata, con l’attuale governo, in un suo mutamento di paradigma: l’alleanza perversa tra liberismo e populismi di tipo nazionalista e parafascista. Le politiche liberiste, con la loro aggressione alle garanzie dei diritti dei lavoratori e la precarizzazione dei rapporti di lavoro, hanno distrutto il vecchio diritto del lavoro, sopprimendo l’uguaglianza dei lavoratori che è, essenzialmente, un’uguaglianza nei diritti. Hanno disgregato la composizione sociale del mondo del lavoro, ponendo fine all’unità, alla solidarietà e perciò alla soggettività politica del movimento operaio. Hanno così creato le basi sociali dei populismi, che le campagne demagogiche sulla sicurezza e le ideologie nazionaliste, identitarie e razziste hanno riaggregato in chiave identitaria e reazionaria dando vita a nuove soggettività politiche basate sull’ostilità a nemici comuni, sulla comune intolleranza per i differenti e sulla paura e il rancore contro capri espiatori: i migranti e la piccola delinquenza di strada e di sussistenza. Il conflitto sociale ha così cambiato direzione. Non è più la vecchia lotta di classe degli operai contro i padroni, ma la concorrenza al ribasso tra lavoratori precari e la lotta ai comuni nemici, identificati con i soggetti più emarginati della società: non più, in breve, la lotta alle disuguaglianze, ma la lotta alle differenze.

        A loro volta le destre populiste hanno ricambiato questo contributo al loro successo con tre non meno rilevanti contributi al successo delle politiche liberiste. Il primo contributo è consistito nel farsi strumenti di tali politiche a favore dei ricchi e contro i poveri, riducendo le imposte e con esse le spese sociali, abolendo sussidi e previdenze, tollerando ed anzi favorendo l’evasione fiscale e perfino promuovendo un diritto penale massimo e inflessibile per i deboli e minimo e garantista per i potenti. Il secondo contributo è stato il verboso e demagogico sovranismo, e perciò la tendenziale ostilità, in difesa di un’illusoria e ormai scomparsa sovranità nazionale, alle forme odierne di integrazione sovranazionale, dall’Unione Europea all’Onu, e perciò ai limiti e ai vincoli che da una sfera pubblica sovranazionale potrebbero provenire ai mercati. Il terzo contributo, strumentale rispetto ai primi due e perfettamente congeniale a tutti i populismi, è stata la semplificazione e verticalizzazione dei sistemi politici, fino all’ultimo progetto avanzato dalla destra al governo, quello del premierato elettivo, diretto a ridurre, con la maggioranza assoluta dei seggi concessa alla maggioranza relativa ottenuta nelle elezioni, sia il pluralismo politico, per la neutralizzazione che ne seguirebbe delle opposizioni, che il pluralismo istituzionale, per l’occupazione resa possibile di tutto l’apparato pubblico, incluse le istituzioni di garanzia, da parte delle forze di maggioranza e per esse del loro capo.

       Sono mutamenti istituzionali suggeriti e pretesi dai mercati. Per poter essere impotente e subalterna ai poteri economici globali, la politica deve essere potente nei confronti della società. Per poter devastare il diritto del lavoro, ridurre le spese sociali, impoverire i poveri e arricchire i ricchi, deve rafforzare la sua capacità di governo e di repressione delle sue vittime. E a tale scopo è assai più funzionale un esecutivo forte, tanto meglio se concentrato in una sola persona, che parlamenti divisi tra troppi gruppi parlamentari, capaci di esprimere incerte e precarie coalizioni di governo, condizionati da partiti presenti nella società, da lotte sociali e da conflitti culturali. E’ esattamente questa la governabilità, ottenuta rafforzando i governi, esautorando i parlamenti, distruggendo i partiti, in breve verticalizzando e personalizzando i sistemi politici onde renderli funzionali alla loro subordinazione all’economia[7].

        La democrazia entra così in crisi in tutte le sue dimensioni, quella formale o politica della rappresentanza e quella sostanziale o sociale della garanzia dei diritti. Oggi la gerarchia dei poteri si è ribaltata. Al vertice si sono collocati quei nuovi sovrani assoluti che sono i mercati globali, che di fatto condizionano e orientano l’azione di governo, tanto responsabile nei loro confronti quanto irresponsabile nei confronti dei parlamenti e dei cittadini. La comunicazione politica è sempre più solamente dall’alto verso il basso e sempre meno dal basso verso l’alto: non sono i rappresentati che comunicano dal basso istanze e proposte alla sfera pubblica, ma sono al contrario i rappresentanti che comunicano dall’alto la loro agenda politica per il tramite dei media e dei partiti. Le elezioni ormai, grazie alle liste bloccate e ai premi di maggioranza, hanno la sola funzione di offrire al sistema di potere esistente la necessaria legittimazione “democratica”.

         In queste condizioni la politica non può che obbedire ai mercati, dai quali oltre tutto, venuto meno il finanziamento pubblico, essa è finanziata. E’ la politica praticata dal fascio-liberismo dei Trump, dei Bolsonaro, degli Orban, dei Miley, delle Meloni e dei Salvini, che aggrediscono diritti sociali e lavoro, abbassano le imposte, tollerano le devastazioni dell’ambiente, reprimono o comunque emarginano il dissenso e danno vita, con le loro disumane politiche contro i migranti, a un esercito di lavoratori clandestini, vulnerabili e senza diritti, vittime dell’intermediazione illecita e dello sfruttamento illimitato. Per un simile ruolo non servono classi di governo formate da persone di valore e dotate di competenza e di spirito pubblico. Serve esattamente il contrario: una corte di dipendenti, che come avviene in tutte le oligarchie siano cooptati per la loro fedeltà, ben più che per le loro capacità e la loro rappresentatività.

6. L’abbassamento dello spirito pubblico – Il risultato di queste pratiche spietate è un generale abbassamento dello spirito pubblico. Il consenso da esse ottenuto, presentato di solito come un loro avallo “democratico”, è in realtà il segno di un crollo del senso morale a livello di massa. Quando la disumanità, l’immoralità e l’indifferenza per le sofferenze, per la disperazione e per le morti in mare sono praticate, esibite e ostentate dalle pubbliche istituzioni, esse non solo sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Non capiremmo, altrimenti, il consenso di massa di cui godettero il fascismo e il nazismo. Queste politiche inique, seminando la paura e l’odio per i diversi, svalutando i sentimenti elementari di uguaglianza e solidarietà che formano i presupposti di qualunque democrazia, screditando con la diffamazione la pratica del soccorso di chi è in pericolo di vita, stanno fascistizzando il senso comune, ricostruendo le basi ideologiche del razzismo e deformando l’identità democratica dell’Italia e dell’Europa. Stanno perciò producendo, oltre alle violazioni atroci dei diritti umani, un danno gravissimo alle basi sociali e ideali della nostra democrazia. Come ho detto all’inizio, quando la disumanità, l’immoralità e l’indifferenza per le sofferenze e per le morti in mare sono praticate e ostentate dalle istituzioni, esse diventano contagiose e si normalizzano. Non capiremmo, senza questa corruzione del senso morale operata dall’esibizione dell’immoralità ai vertici dello Stato, il consenso di massa di cui godettero il fascismo e il nazismo e di cui hanno goduto o godono, nei loro paesi, autocrati come Trump e Bolsonaro, Orban ed Erdogan. Queste politiche crudeli hanno avvelenato e incattivito le nostre società. Hanno seminato la paura e l’odio per i diversi. Hanno screditato la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita e, con essa, i normali sentimenti di umanità che formano il presupposto elementare della democrazia.

         Va aggiunto che le politiche xenofobe contro i migranti, al di là della propaganda para-fascista utilizzata a loro sostegno dal governo italiano, sono sostanzialmente condivise, in forme e in misure diverse, da tutti i paesi europei, accomunati da una guerra crudele contro i migranti. L’Unione Europea era nata contro i razzismi e i nazionalismi, contro i genocidi e i campi di concentramento, i muri, i fili spinati, le oppressione e le discriminazioni razziali. Questa identità sta oggi crollando, insieme ai “mai più” alle discriminazioni proclamati 70 anni fa contro gli orrori del passato ed oggi contraddetti dalle nostre politiche di esclusione. E’ una contraddizione che, se non risolta, non consentirà di continuare a proclamare decentemente come “valori dell’Occidente” i diritti fondamentali, i quali sono universali e indivisibili oppure non sono.

        Lo stesso diritto di emigrare, non dimentichiamo, è un diritto fondamentale vigente, stabilito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 ed anche dall’art. 35 della Costituzione italiana. E’ anche il più antico dei diritti umani, essendo stato formulato fin dal secolo XVI da Francisco De Vitoria a sostegno della conquista del “nuovo mondo”[8], e poi rivendicato da John Locke, che lo pose alla base del diritto alla sopravvivenza garantita a tutti, egli scrisse, dalla possibilità di emigrare “in qualche parte interna e deserta dell’America”, giacché “vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio dei suoi abitanti”[9]. Da allora il diritto di emigrare divenne una norma fondamentale del diritto internazionale consuetudinario a sostegno delle colonizzazioni. Allora erano solo gli europei a poterlo esercitare, per invadere e depredare il resto del pianeta, grazie anche al diritto di muovere guerra contro chiunque si fosse opposto al suo legittimo esercizio: cosa che fu fatta, con la distruzione delle civiltà precolombiane e il massacro di decine di milioni di indigeni. Oggi che l’asimmetria si è capovolta, e non sono più gli europei, ma quanti fuggono dai paesi impoveriti dalle nostre politiche predatorie a esercitare il diritto di emigrare, l’esercizio di quel diritto si è capovolto in delitto, e lo si reprime con la stes­sa feroce durez­za con cui lo si brandì alle origini della ci­viltà moderna a scopo di con­quista, di rapina e colonizzazione.

       Sulla questione migranti si gioca dunque l’identità democratica non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa e di tutti i paesi ricchi dell’Occidente. Giacché queste politiche disumane pongono in questione non solo il diritto alla vita e la dignità dei naufraghi, ma anche la dignità e la credibilità democratica dei nostri paesi. Leggi e pratiche contro i migranti sono infatti responsabili del silenzioso massacro prodotto dai respingimenti alle frontiere e dai divieti di sbarco: sono molte migliaia di vittime, la cui unica colpa è l’esser nati in paesi depredati dapprima dalle nostre colonizzazioni e poi dalla nostra globalizzazione. Le loro morti, le loro discriminazioni, le loro oppressioni sono la negazione di tutti i nostri conclamati valori e devono pesare sulle nostre coscienze onde ad esse si ponga fine come a una vergogna intollerabile.

        Una politica razionale e antirazzista dovrebbe muovere, realisticamente, dalla consapevolezza che i flussi migratori sono fenomeni strutturali e irreversibili, frutto dell’odierna globalizzazione che né le leggi, né i muri, né le polizie di frontiera potranno fermare, ma solo rendere clandestini e drammatizzare, consegnando i migranti alla repressione, all’emarginazione a allo sfruttamento. Una simile politica dovrebbe addirittura accettare il fenomeno migratorio come un rimedio benefico al declino demografico dei paesi ricchi, dove i giovani sono sempre di meno e i vecchi sono sempre di più. Dovrebbe perciò fare l’esatto contrario di ciò che fanno oggi, non solo in Italia, quasi tutte le forze politiche: anziché cavalcare e alimentare razzismi e paure, far maturare nel senso comune l’idea che il fenomeno migratorio è oggi l’autentico fatto costituente – e il popolo dei migranti l’autentico soggetto costituente – di un futuro ordine mondiale che finalmente riunisca i popoli – oggi divisi dai confini, dalle leggi razziste e dai nazionalismi l’un contro l’altro armati – in un unico popolo della Terra, meticcio e differenziato, ma accomunato dall’effettiva uguaglianza di tutti gli esseri umani, dal rispetto associato a tutte le loro differenze e dalla rimozione o riduzione delle loro disuguaglianze.

7. L’alternativa democratica: il progetto di un costituzionalismo globale – La crudeltà del diritto va purtroppo ben al di là degli orrori italiani finora illustrati. E’ una crudeltà che si manifesta in maniera ancor più disumana a livello mondiale: nella crescita esponenziale della disuguaglianza globale, nelle forme di sfruttamento schiavistico del lavoro e, soprattutto, nelle guerre.

        Disuguaglianza e sfruttamento sono anche l’effetto di un capovolgimento avvenuto nel rapporto tra politica e diritto. A causa dell’asimmetria, generata dalla globalizzazione, tra il carattere planetario dei poteri economici e finanziari e il carattere ancora prevalentemente statale della politica e del diritto, non è più la politica che governa l’economia garantendo la libera concorrenza tra le imprese, ma sono i grandi poteri economici e finanziari che mettono gli Stati in una concorrenza al ribasso, spostando i loro investimenti nei paesi in cui possono sfruttare il lavoro in forme schiavistiche, devastare impunemente l’ambiente, corrompere i governi e non pagare le imposte. Di qui l’abbassamento delle garanzie del lavoro e delle spese sociali anche nei paesi più avanzati.

      Dobbiamo allora essere consapevoli del fatto che questa crudeltà del diritto contrasta non solo con i principi costituzionali stabiliti nelle costituzioni democratiche e nelle tante carte internazionali dei diritti umani, ma equivale alla negazione della ragion d’essere del diritto medesimo, consistente nel suo ruolo di legge del più debole contro la legge del più forte che vigerebbe in sua assenza e perciò nei limiti e nei vincoli da esso imposti alla legge selvaggia dei più forti.

      Di qui la necessità di una lotta per il diritto – secondo il bel titolo di un vecchio libro di Rudolf von Jhering – o meglio di una lotta per  diritti, cioè di una battaglia dalla quale dipende il futuro dell’umanità. Di qui, aggiungo, il ruolo e il fascino nuovo di una cultura giuridica che volesse impegnarsi in questa battaglia per la costruzione del futuro. E’ una battaglia che consiste nel prendere sul serio i principi di pace e di uguaglianza e i diritti fondamentali stabiliti in tante carte costituzionali e internazionali e nel leggere la loro distanza dalla realtà come un insieme di violazioni giuridiche, per commissione o per omissione, di tali principi. A cosa si devono infatti queste violazioni? Si devono, chiaramente, all’assenza di garanzie, inteso con “garanzie” quei divieti e quegli obblighi correlativi a quelle aspettative negative o positive in cui consistono la pace e tutti i diritti fondamentali.

        Diversamente dai diritti patrimoniali, infatti, che nascono insieme alle loro garanzie – il credito simultaneamente al debito, il diritto reale di proprietà simultaneamente al divieto di turbarne l’esercizio – la stipulazione della pace e dei diritti fondamentali non comporta la simultanea esistenza delle loro garanzie, le quali invece devono essere introdotte insieme alle relative istituzioni. Non basta infatti enunciare l’imperativo della pace, come fa la carta dell’Onu, perché non si producano le guerre, oppure i diritti alla salute o all’istruzione, come fanno i patti del 1966 sui diritti economici e sociali, perché nascano ospedali e scuole. E’ necessario che le garanzie della pace e dei diritti vengano introdotte da norme di attuazione, le quali peraltro sono logicamente implicate ed imposte dalle aspettative nelle quali consistono la pace e i diritti.

       E quali sono le garanzie della pace? Esse consistono, come già scrisse Thomas Hobbes quasi quattro secoli fa[10], nel disarmo globale e totale che è la sola garanzia in grado di rendere impossibili le guerre: precisamente nella previsione e nella severa punizione come crimini contro l’umanità della produzione e del commercio non soltanto delle armi nucleari, ma di tutte le armi da fuoco. Solo la severa proibizione di tutte le armi da sparo può rendere impossibili le guerre, disarmare le formazioni terroristiche e le organizzazioni criminali e ridurre i 460.000 omicidi commessi ogni anno nel mondo per la maggior parte con armi da fuoco. Occorre a tal fine far crescere, nel senso comune, il riconoscimento della corresponsabilità morale, in ogni guerra e in ogni assassinio, dei produttori e dei venditori di armi. Giacché è da questi produttori di morte che sono armati eserciti, associazioni criminali, bande terroristiche e assassini. I soli ostacoli a questa unica, effettiva garanzia della pace e della sicurezza sono quelli opposti dai giganteschi interessi delle industrie e del commercio delle armi e dai miserabili poteri politici ad essi asserviti o che di essi si servono a fini di potenza. Dall’abolizione delle armi seguirebbe il passaggio della società internazionale dallo stato di natura allo stato di diritto, una generale civilizzazione del costume e delle relazioni sociali e la crescita della maturità intellettuale e morale dell’intera umanità.

       Lo stesso si dica delle altre grandi catastrofi che, in assenza di garanzie, pesano sul nostro futuro. La garanzia più efficace della salvaguardia della natura è l’istituzione di un demanio planetario che sottragga alla privatizzazione e alla dissipazione i beni vitali della natura, come l’acqua potabile, l’aria pulita, le grandi foreste e i grandi ghiacciai. Le garanzie dei diritti alla salute, all’istruzione e alla sussistenza, stabiliti nei Patti del 1966, sono la creazione di istituzioni globali di garanzia primaria che assicurino a tutti le prestazioni sanitarie, quelle scolastiche, l’alimentazione di base, salari minimi stabiliti per legge e redditi di base per tutti gli abitanti del pianeta, nonché il finanziamento di tali istituzioni mediante una fiscalità globale realmente progressiva. Le garanzie delle libertà fondamentali consistono nell’istituzione di Tribunali penali obbligatori e di una Corte costituzionale globale in grado di censurare le loro violazioni come atti illeciti o come atti invalidi.

       E’ questo il progetto di una Costituzione della Terra che abbiamo progettato e che, come Costituente Terra, stiamo diffondendo, sollecitando tutti coloro che sono interessati a questa impresa a proporre emendamenti e integrazioni[11]. Non si tratta di un obiettivo irrealistico. Si tratta della sola risposta razionale e realistica, nell’interesse di tutti, alle terribili sfide globali in grado di assicurare la sopravvivenza del genere umano. Dobbiamo infatti respingere come ideologico il realismo volgare di chi ritiene che non esistano alternative a ciò che di fatto accade, così naturalizzando la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – e ignorando la realtà naturale delle catastrofi incombenti. Il vero problema è il tempo. I processi costituenti sono più lenti e difficili dei processi distruttivi, purtroppo in gran parte irreversibili. E potremmo non fare in tempo a formulare nuovi “mai più” costituzionali.


[1] M. Foucault, “Bisogna difendere la società” (1997), trad. it. di M. Bertani e A. Fontana,  Feltrinelli, Milano 1998, p. 221,

[2] Ch. Montesquieu, Lo spirito delle leggi [1748] tr. it. a cura di S. Cotta, Utet, Torino 1965, parte prima, libro VI, capo IX, pp. 168-169: “La severità delle pene si adatta di più al governo dispotico, il quale ha il terrore come principio, che non alla monarchia e alla repubblica… Si potrebbe provare facilmente che in tutti o quasi gli Stati europei la diminuzione o l’aumento delle pene ha sempre coinciso con l’avvicinarsi o l’allontanarsi della libertà… La mitezza impera nei governi moderati”.

[3] P. Basile, Manuale delle misure di prevenzione. Profili sostanziali, Giappichelli, Torino 2021, p. 12, calcola in circa 13.000 le persone mandate al confino per motivi politici. Ricorda anche che il confino per motivi politici era già stato applicato, in epoca liberale, ad anarchici, a socialisti e perfino ai non interventisti nella guerra 1915-1918, sulla base della legge Crispi n. 316 dell’1.7.1894 intitolata “Provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza”.

[4] Ricordo in proposito, contro questo singolare bene giuridico, il libro di T. Pitch, Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza, Roma-Bari 2013

[5] “La libertà politica consiste nella sicurezza, o per lo meno nella convinzione che si ha della propria sicurezza. Questa sicurezza non è mai posta in pericolo maggiore che nelle accuse pubbliche e private. E’ dunque dalla bontà delle leggi penali che dipende principalmente la libertà del cittadino” (Ch. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., vol. I, libro XII, cap. II, p. 321).

[6] T. Pitch, La società della prevenzione, Carocci, Roma 2006 e, da ultimo, Id., Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2022.

[7] Giova ricordare che l’espressione “governabilità” entrò nel lessico politico soprattutto dopo l’uso fattone nel 1975 da M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, tr. it. Franco Angeli, Milano 1977 (un consesso di circa 300 notabili in rappresentanza degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone), nel quale si affermò che i problemi della “governabilità” “nascono da un eccesso di democrazia” e si lamentò il sovraccarico delle domande di giustizia e di garanzie dei diritti, non sostenibile dai mercati.

[8] Francisco de Vitoria, De indis recenter inventis relectio prior (1539), in De indis et de iure belli relectiones. Relectio­nes theologicae XII, a cura di E.Nys, “The Classics of In­terna­tional Law”, Ocea­na, New York 1964, sect. II, §§ 1-7, pp. 233-244.

[9] J. Locke, Due trattati sul governo. Secondo trattato (1690), tr. it. di L. Pareyson, Utet, Torino 1968, cap. V, § 36, pp. 266 e 267.

[10] T. Hobbes, Leviatano, ossia la mate­ria, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, con testo inglese del 1651 a fronte, tr. it. a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, cap. XVII, § 13, pp. 281 e 283, dove Hobbes afferma che se gli uomini vogliono la pace e la sicurezza, “l’unica maniera è quella di conferire tutto il loro potere e la loro forza a un solo uomo o a un’assemblea di uomini… Fatto questo, la moltitudine così unita si chiama Stato, in latino civitas… a cui dobbiamo la nostra pace e la nostra difesa”.

[11] Ho sostenuto più volte la necessità di un costituzionalismo globale. Tra gli scritti più recenti richiamo Costituzionalismo oltre lo Stato, Mucchi, Modena 2017; La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari 2021, cap. IV, pp. 176-224 e cap. VIII, pp. 394-450; Perché una Costituzione della Terra, Giappichelli, Torino 2021; Per una Costituzione della Terra. L’umanità a un bivio, Feltrinelli, Milano 2022, che reca in appendice un progetto in 100 articoli di una Costituzione della Terra.

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