Cari amici,
Non si uccidono i bambini. È questo il punto più alto della vendetta ed è il miraggio di una vittoria che, attraverso i piccoli si proietta sul futuro. E questo è ora l’orrore che soffre Israele (e il mondo con esso) dopo il racconto dei militari israeliani su ciò che hanno trovato nel kibbutz di Kfar Aza devastato da Hamas. E la conclusione non può essere che una sola: mai più la vendetta, mai più la vittoria nella soppressione dell’altro.
Ed ora dinanzi allo scempio che dilania la Palestina piangiamo su Gerusalemme, come racconta il Vangelo che fece Gesù dicendo: “Gerusalemme, se tu avessi conosciuto ciò che giova alla tua pace!”. Anche ora Gerusalemme non ha capito dove fosse la sua pace, ha creduto che fosse nella vittoria, mentre la guerra ora caduta su di lei è proprio il salario della vittoria.
Aveva vinto infatti Israele, o almeno così credeva, tanto che i partiti religiosi erano saliti al potere, dimentichi dei moniti a “non forzare il Messia”, e Netaniahu aveva istituito un “governo di annessione ed esproprio”, come scrive Haaretz, e anche il diritto interno era stato piegato, e le difese allentate, come se la pace fosse stata raggiunta, l’atto di fondazione fosse stato innocente e il problema palestinese fosse ormai cancellato e risolto.
A Israele non era bastato vincere tornando nella terra dei padri. Non era bastato occupare la Cisgiordania, non era bastato riaprire i kibbutz che ne erano stati espulsi, non era bastato aprire le terre occupate ai coloni, non era bastato demolire le case dei palestinesi e segregarli oltre muri e chekpoint, non era bastato salire a sfidarli sulla spianata delle Moschee, non era bastato sigillare le frontiere di Gaza e colpirla di embargo, come ora l’affama, le toglie l’acqua e la luce, ciò che l’ONU l’ammonisce a non fare. Israele voleva ormai anche negare, come ha fatto il suo ministro delle finanze Bezalel Smotrich in piena Europa, a Parigi, che i palestinesi esistano: «non esiste un “popolo palestinese”», aveva detto, si tratterebbe di una «finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista; dunque, causa finita.
Non ha capito Israele ciò che Raimundo Panikkar aveva letto in quei circa 8000 trattati di pace, scritti anche sui mattoni, che si sono susseguiti nella storia da prima di Hammurabi ai giorni nostri: che la pace non si raggiunge mai con la vittoria, sicché mentre l’inchiostro o i mattoni sono ancora freschi, già si approntano le lance e i cannoni, e prima o poi il vinto risorge e si vendica. Perciò Israele piange ora sulla vittoria e il rischio è che voglia vincere ancora, e procacciandosi sicurezze ancora maggiori, e devastanti per gli altri, quando il primo a piangere, nella sua tomba, è il premier Rabin, che al suo popolo voleva dare e stava per dare un’altra pace, fondata sulla riconciliazione e sul rispetto l’uno del volto dell’altro (secondo l’invito dell’ebreo Levinas), israeliani e palestinesi insieme: ma prima che la pace fiorisse, e perché non fiorisse, fu abbattuto da fuoco amico.
Ha scritto Ali Rashid, palestinese a Roma: “Come in una “discarica”, sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli o grande massacri, lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte le nuove città e insediamenti intorno a Gaza che sono stati teatro degli ultimi eccidi compiuti da noi palestinesi. Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita. Ma questa catena di morte è inarrestabile? Eppure una volta eravamo fratelli.”
Noi dunque piangiamo con Israele su Gerusalemme, la città divisa che pur unisce due popoli nel dolore, e li abbracciamo nello stesso amore. Ma non così possono piangere quanti hanno concorso alle sciagure di oggi, e non solo in Israele, facendo propria e promulgando senza remore l’ideologia della vittoria, incurante della giustizia e tributaria solo della forza.
Nel sito pubblichiamo “Una voce da Gerusalemme“, il lamento di Ali Rashid e un articolo sulla piaga del militarismo di Richard E. Rubenstein. Pubblichiamo inoltre una riflessione sulla recente esortazione apostolica di papa Francesco sulla crisi climatica, e nel sito Biblioteca di Alessandria il testo di tale esortazione “Laudate Deum“.