Il programma di riarmo europeo da 800 miliardi di euro, che non trascura di valutare l’opportunità di un ombrello nucleare franco-britannico, o addirittura di sviluppare armi atomiche in proprio da parte di membri della UE (Polonia, Repubbliche Baltiche) viene lanciato, per poi essere sciaguratamente approvato, nella stessa settimana in cui a New York, nella sede delle Nazioni Unite, gli Stati Parte del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari ribadiscono la necessità e l’urgenza della eliminazione totale delle armi nucleari e respingono il principio della deterrenza basato sull’esistenza stessa del rischio nucleare, e sulla minaccia di distruzione rivolta all’umanità intera.
Il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (da qui in poi TPAN) è un traguardo straordinario nel cammino del disarmo nucleare, un successo clamoroso della diplomazia mondiale a tutti i livelli. Un risultato recentissimo se consideriamo i tempi storici della guerra fredda e i trent’anni successivi alla sua fine. Ma ancora più recenti del trattato entrato in vigore nel 2021 sono le guerre al confine europeo (2022: Russia/Ucraina) e in Medio Oriente (2023: l’atto terroristico di Hamas e lo sterminio da parte di Israele del popolo palestinese). In entrambi i casi si procede in violazione del diritto internazionale, in violazione delle risoluzioni dell’ONU e nell’aumento dell’escalation militare, con il rischio sempre maggiore di avvicinamento della guerra nucleare.
Dal 1945 in poi la situazione atomica trovava raffigurazione sempre e soltanto nel fungo, nell’immagine terrorizzante della potenza distruttiva, totale. L’eloquenza di quella immagine, nella sua astrattezza, faceva della bomba, che pure era stata usata per uccidere intenzionalmente innocenti, insieme un feticcio e un tabù.
Ora non è più così; a partire dalla guerra russo ucraina, il tabù è rotto. Mini-nuke e bombe tattiche sono menzionate come compatibili con il teatro di guerra, anche se il loro potere di devastazione è almeno venti volte maggiore di quelle usate a Hiroshima e Nagasaki. Se ne considera la sofisticatezza e la capacità di colpire chirurgicamente. L’ordigno atomico che prometteva la catastrofe alla fine della seconda guerra mondiale è divenuto ora un’arma “solo” tattica, dalle prestazioni modulari, performanti. È un fatto nuovo nella “situazione atomica”. Questa doppia narrazione è paradossale e aberrante, funzionale a mantenere, rilanciare la guerra e a aumentare l’insicurezza internazionale.
I sostenitori del principio della deterrenza osano rifarsi ai motivi della difesa e della sicurezza. Ma contro ogni ragione, diritto e sentimento umani, cosa può avere a che fare una minaccia di distruzione totale con la sicurezza dei popoli oltre che degli Stati?
Le armi nucleari e l’assunzione della dottrina della deterrenza fanno di ogni stato che le adotta uno stato autoritario. Non può che essere tale uno stato che dispone arbitrariamente della vita dei suoi cittadini incolpevoli, oltre che della vita dei cittadini innocenti di altri paesi.
Abbiamo costruito le più avanzate democrazie del pianeta per vivere da ostaggi, o come vittime predestinate sacrificate al rischio calcolato di pochi che si comportano da padroni del mondo? Non stiamo parlando di despoti riconosciuti, ma anche di capi di stato sedicenti liberali e democratici che ritengono nei fatti i cittadini come loro proprietà.
Più di due secoli fa Kant, sosteneva: «Quale diritto ha lo Stato di servirsi dei suoi propri sudditi per muover guerra ad altri Stati, di impiegare e di mettere così in gioco i loro beni e anzi la loro vita stessa?» Si tratta, prosegue Kant, della pretesa di trattare i propri sudditi come “piante o animali domestici di sua proprietà, che “si possono adoperare, consumare e distruggere (far morire)” (I.Kant, Scritti politici, Utet, 2010, pp. 535-536).
Dal 6 agosto 1945, dopo le tensioni altissime della guerra fredda, non è tollerabile che gli Stati fondati per la sicurezza di tutti, per garantire diritti fondamentali ancor prima che diritti civili, diventino essi stessi i nostri veri nemici.
I nostri nemici non sono i popoli degli altri stati, e neppure gli altri stati, i nostri nemici sono tutti gli stati che preparano la guerra odierna e la guerra futura, che è sempre guerra contro le popolazioni civili, e che si sottraggono all’imperativo di percorrere vie negoziali.
Strategia della deterrenza e rischio nucleare vanno insieme. Più si rincorre la deterrenza più aumenta il rischio, non solo perché aumentano le armi nucleari – che per il solo fatto di esistere sono una minaccia – ma anche perché l’accrescimento continuo della loro dotazione aumenta la sfiducia reciproca tra le potenze, ormai non più limitate ai due tradizionali blocchi della guerra fredda. Tra queste l’Unione Europea, la cui identità più vera reclamerebbe il ripudio della guerra, non è più credibile agli occhi del mondo quale modello di integrazione pacifica fra stati. Il suo riarmo e la sua sclerotica riproposizione della deterrenza nucleare non può che apparire, anche in questo senso, un ulteriore sconsiderato esempio per quei paesi in cerca di “prestigio” nucleare.
Per questo la manifestazione di piazza voluta da Michele Serra per il 15 marzo è gravida di arretratezza politica e di cieco favoreggiamento della instabilità nelle relazioni internazionali. Essa legittima due cose, l’appoggio incondizionato all’Ucraina affinché prosegua la guerra, l’aumento delle spese militari con somme sottratte alla sanità, alla scuola, all’università, ai servizi sociali che già le politiche austere fondate sul debito hanno duramente colpito.
Significa reagire al cinismo, alla disumanità di Trump inneggiare a un’Europa bellicista?
L’interesse di Trump a sfilarsi da questa guerra non è in contrasto con l’interesse che essa prosegua con il contributo della UE, che in fatto di armi è pur sempre una sua acquirente.
Anche a sinistra in molti, alcuni in buona fede, sembrano non capirlo. Davvero, nessuno vorrebbe dividere l’Europa, operare distinguo, ma la questione è un’altra. Siamo rimasti sgomenti, indignati per il trattamento riservato a Zelensky in mondovisione dal presidente degli Stati Uniti dopo una strategia di allargamento della Nato che, come precisa Jeffrey Sachs, è durata trent’anni puntando al conflitto russo ucraino.
Tuttavia la parte recitata da Trump nei riguardi del presidente ucraino ha conseguenze infinitamente meno gravi di quelle che si attendono in Palestina e in Cisgiordania dopo che lo stesso presidente ha assecondato la diffusione dell’immondo video di una Gaza turisticizzata.
La prima rappresentazione prelude alla pace, brutta quanto si vuole, ma risolutiva della guerra. Del resto non si conoscono conclusioni di guerre che lascino soddisfatte tutte le parti in causa.
Dovremmo perciò rallegrarci di mettere fine alle uccisioni e alle mutilazioni degli ucraini, e apprestarci alla ricostruzione del loro paese, chiedendo scusa, soprattutto quelli convinti che gli ucraini abbiano combattuto per la libertà e per i valori democratici dell’Europa. E dovremmo esigere che non riprenda il fuoco a Gaza e tanto meno che non si proceda alla deportazione del suo popolo.
Due provvedimenti – prendere parte al processo di pace russo-ucraino, e interrompere la persecuzione del popolo palestinese da parte del governo israeliano – degni di un’Europa dei diritti, fondata sul ripudio della guerra e sull’ingiunzione del “mai più”.
Dunque, la domanda è la seguente. Perché – mentre siamo inorriditi per la parte recitata da Trump sia in Ucraina, sia a Gaza – un giornale come “La Repubblica”, che ha sempre sostenuto l’aumento della spesa militare per armare l’Ucraina affinché continuasse a combattere contro una potenza nucleare senza invocare trattative di pace da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, perché proprio ora, con il ritiro degli USA, questo stesso giornale puntando su un suo anziano giornalista un po’ gigione, incita all’orgoglio europeo? Quale è lo scopo di questa chiamata di Michele Serra; all’insegna di quali obiettivi per l’Ucraina e per se stessa, l’Europa brandisce la sua bandiera? Il giornalista non lo chiarisce. Incita retoricamente a un raduno nel nome dell’Europa come in tempi sinistri si incitava all’amor di patria per motivare gli eserciti e muovere i giovani ad arruolarsi. Michele Serra indossa un’altra divisa, un rassicurante panciotto intonato agli occhi e a un disincanto garbatamente ironico. Incarna lo stile inoffensivo del moderato che ci prova un po’ per caso, che quasi non crede alla capacità di trascinare le folle. Senonché il suo stesso giornale sforna a ruota l’articolo di un altro intellettuale placido, antifascista, al quale viene concesso l’uso di parole oscene che lamentano “la mancanza di guerrieri” in Europa.
È un caso? Credo di no: la retorica astratta, campata per aria da una parte – Europa Europa! – e l’incitamento a combattere in armi dall’altra, sullo stesso giornale. Dopodiché la strada è aperta; altri intellettuali esibiscono un’eccitazione tutta maschile e senile per la battaglia, e lo fanno rispolverando il lessico estetizzante del guerriero, della forza, parlando di “spirito combattivo”, di “senso della lotta”.
Torna la bellezza del morire in guerra, e la bellezza di un nuovo rivisitato nazionalismo – la nostra Europa! – ovvero i miti necrofili che credevamo sepolti sotto i 70 milioni di morti della seconda guerra mondiale.
È desolante che tante forze antifasciste, anche disarmiste, siano cadute nel tranello del giornale degli Elkann non riconoscendone il posizionamento, gli interessi, illudendosi con la loro presenza di marcare una prospettiva diversa da quella dominante del riarmo e della coltivazione del nemico, questa volta la Russia. Sono caduti nel tranello, molti in buona fede, per il desiderio di esserci comunque, preoccupati di nuove divisioni e dunque di un ulteriore indebolimento delle forze democratiche.
Ma tutto ciò non è serio. Davvero grave che abbia abboccato anche l’ANPI (con l’eccezione dell’ANPI di Roma per l’opposizione degli iscritti!) che negli anni della guerra in Ucraina aveva mantenuto fede fin qui alla carta costituzionale. La retorica europeista che in questo contesto osa parlare di pace, tace del riarmo, ma non per questo è meno bellicista. Si finge che l’orgoglio UE non passi attraverso un risveglio della deterrenza franco/britannica estesa alla Germania, mentre l’Europa che finge di alzare la testa rispetto agli USA finge anche di non sapere che sono circa 80 le testate nucleari statunitensi schierate sul suo territorio.
A dire no al Trattato di proibizione delle armi nucleari, non partecipando alla Conferenza newyorchese, in corso dal 3 al 7 marzo scorso, neppure come osservatrici, sono naturalmente le potenze nucleari e i loro alleati. Un’altra coincidenza non trascurabile è la notizia dell’invio da parte degli Stati Uniti in Europa, delle nuove testate atomiche B61-12. L’informazione, data solo dal “Fatto quotidiano”, dopo che se ne parlava da una decina d’anni, cade anch’essa durante lo svolgimento della Conferenza newyorkese degli Stati parte del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari.
Da una parte quindi la terza conferenza TPAN esprime la soddisfazione, l’avanzamento delle adesioni; la si può immaginare come una festa della diplomazia mondiale a tutti i livelli, istituzionali e della società civile delle molte organizzazioni non governative e associazioni del pacifismo globale che si dà appuntamento nel quarto anniversario dell’entrata in vigore del TPAN. Dall’altra parte se ne deve riconoscere la debolezza finché in qualche modo non verrà preso in considerazione dalle potenze nucleari.
In questa prospettiva il documento congiunto dell’associazione Costituente Terra e Disarmisti Esigenti, entrambi presenti all’incontro coordinato da Ican presso l’ONU, individua tre vie per passare dalla proibizione alla eliminazione effettiva delle armi nucleari 1) il tavolo delle potenze nucleari per adottare il NO FIRST USE, una misura prudenziale di un patto di non primo uso e di deallertizzazione delle testate condiviso dalle potenze nucleari;
2) una riproposizione degli accordi di Helsinki del 1975 configurabili in una Helsinki 2 in cui un dialogo da riaprirsi con la Russia allontanerebbe il rischio di una guerra estesa ai paesi baltici a minoranza russa e bielorussa. In questa direzione merita grande attenzione e supporto la proposta di Olga Karatch, di Our House pacifista e dissidente bielorussa (candidata al Nobel per la pace nel 2024) di lottare per la creazione di una zona demilitarizzata nell’area che interessa il confine tra Russia, paesi Baltici, Bielorussia, Polonia e Ucraina.
Così come merita di essere integrata in un documento strategico comune anche la richiesta di fare del golfo di Trieste un’area libera da armi nucleari sulla base del Trattato di pace con l’Italia del 1947 e della risoluzione 16 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che aveva istituito il Territorio libero di Trieste quale stato disarmato e neutrale. Tuttavia, il golfo di Trieste in violazione del succitato trattato, ospita oggi due porti nucleari militari di transito, Trieste in Italia e Capodistria in Slovenia.
L’eliminazione totale delle armi nucleari, nella migliore delle ipotesi, senza dover passare per l’olocausto nucleare, può ottenersi solo in un processo a lungo termine. Questa necessaria gradualità non significa sottrarre radicalità al TPAN, così come il TPAN, a sua volta, non diminuisce la forza del piano per un disarmo totale e per l’eliminazione delle guerre, che è la vera ragione d’essere delle Nazioni Unite e che, nel progetto della Costituzione della Terra di Luigi Ferrajoli trova espressione negli articoli 52: con il divieto di produzione di commercio e di detenzione dei beni micidiali (le armi nucleari, le altre armi di offesa e di morte, i droni omicidi, le droghe pesanti, le scorie radioattive, le emissioni di gas serra e tutti i rifiuti tossici; nell’art. 53: con la messa al bando delle armi e il monopolio pubblico della forza; nell’art. 77: con il superamento degli eserciti nazionali.
Non si tratta di fantascienza. Ma della terza e più radicale via che abbiamo indicato nel working paper allegato agli atti della Conferenza ONU e la cui sostanza ha precedenti storici, come del resto la proposta di una Helsinki II sulla base della quale si era arrivati a negoziare l’ingresso della Russia nell’alleanza atlantica. Il precedente è rappresentato dal discorso che nella sede delle Nazioni Unite tenne il presidente degli Stati Uniti J. F. Kennedy, dopo l’assassinio del Segretario Generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld:
“Il programma che sarà presentato a questa assemblea – per un disarmo generale e completo sotto un efficace controllo internazionale – … riguarderebbe sia i sistemi di lancio che le armi. In definitiva, ne arresterebbe la produzione, i test, il trasferimento e il possesso. Si otterrebbe, sotto gli occhi di un’organizzazione internazionale per il disarmo, una costante riduzione della forza, sia nucleare che convenzionale, fino ad abolire tutti gli eserciti e tutte le armi, tranne quelle necessarie per l’ordine interno e una nuova Forza di Pace delle Nazioni Unite. (J.F. Kennedy, 25 settembre 1961, all’ONU).
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