La critica del Segretario di Stato Card. Parolin e la risposta risentita del rappresentante di Israele. “Per la Santa Sede la scelta di campo è sempre quella per le vittime”
«Considerare il quadro generale». È questo il filo rosso della risposta dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede alla dichiarazione del segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, al termine del bilaterale di martedì sera con il governo italiano, a Palazzo Borromeo, in occasione dell’anniversario della firma dei Patti lateranensi. Dopo aver ribadito la condanna inequivocabile del massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre e di ogni forma di antisemitismo, il segretario di Stato ha espresso la richiesta affinché «il diritto alla difesa di Israele che è stato invocato per giustificare questa operazione sia proporzionato e, certamente, con 30mila morti, non lo è». Una «dichiarazione deplorevole» afferma la rappresentanza diplomatica di Tel Aviv.
Le parole del cardinale Parolin, in realtà, rinnovano una preoccupazione più volte manifestata dal segretario generale dell’Onu, António Guterres. Opinione condivisa da numerosi leader mondiali nonché da organizzazioni umanitarie di vario orientamento. L’ambasciata israeliana, però, invita a considerare «tutte le circostanze e i dati rilevanti». E ne cita alcuni. Primo, il sistematico utilizzo da parte di Hamas delle infrastrutture civili per i suoi piani criminali. Se, al riguardo, ci sono poche obiezioni, forti perplessità suscitano le successive affermazioni per cui «gran parte del progetto di Hamas, vale a dire la costruzione di questa infrastruttura terroristica senza precedenti è attivamente sostenuto dalla popolazione locale» e «i civili di Gaza hanno anche partecipato attivamente all’invasione non provocata del 7 ottobre».
L’identificazione tra Hamas e il popolo della Striscia non ha sostegno alcuno nella realtà. È vero che alle legislative del 25 ottobre 2006 il gruppo armato ha ottenuto 74 seggi contro i 45 di Fatah. Ma è altrettanto vero che i miliziani hanno ottenuto il controllo dell’enclave non con il voto, bensì con un cruento colpo di Stato consumato nel 2007. Da allora non ci sono state altre elezioni per verificare il consenso degli abitanti di Gaza nei loro confronti. Anzi, fonti umanitarie sul posto parlano di una crescente disaffezione nei confronti del movimento estremista. Prima del 7 ottobre ci sarebbero state anche alcune proteste, nonostante il pugno di ferro. Lo stesso governo di Benjamin Netanyahu ha spesso sostenuto che il popolo di Gaza è ostaggio di Hamas. E gli ostaggi non scelgono di collaborare. Se lo fanno – e questo è da dimostrare – non possono essere definiti responsabili né in base al diritto penale né a quello internazionale.
Proprio il diritto internazionale viene invocato dall’ambasciata israeliana per ribadire l’agire conforme dell’esercito. A conferma di ciò viene indicata la proporzione di tre civili uccisi ogni militante del gruppo armato. Una quota molto inferiore – quasi un terzo – rispetto a quelle degli interventi in Siria, Iraq o Afghanistan. Il dato, in realtà, non trova riscontri. A fornire il bollettino quotidiano dei morti a Gaza è il ministero della Sanità, controllato da Hamas. Le sue cifre sono, in realtà, ritenuti ragionevolmente affidabili dalle principali agenzie umanitarie anche in virtù del livello di distruzione confermato dalle rilevazioni aeree sull’enclave. Le autorità sanitarie, però, non distinguono tra civili e combattenti, dunque è impossibile avere un rapporto. Secondo l’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha), però, almeno 10mila dei morti della Striscia, cioè quasi un terzo del totale, sono minori.
Alla luce del «quadro generale» esposto, appare ragionevole quanto scritto da Andrea Tornielli, su VaticanNews e l’Osservatore romano: «Per la Santa Sede la scelta di campo è sempre quella per le vittime», di qualunque nazionalità, cultura, religione. «Nessuno – conclude il direttore editoriale del dicastero per la Comunicazione vaticano – può definire quanto sta accadendo nella Striscia un danno collaterale della lotta al terrorismo. Il diritto alla difesa, il diritto di Israele di assicurare alla giustizia i responsabili del massacro di ottobre, non può giustificare questa carneficina».
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