Origini vicine e lontane della guerra in Ucraina

Dalla concezione belluina dello Stato “sovrano” ai documenti sulla strategia nazionale della sicurezza e della difesa degli Stati Uniti. Nascita e fallacia di un Impero

Pubblichiamo la relazione di Raniero La Valle per la presentazione a Brescia il 13 aprile 2023 al Centro Comboni per “I giovedì della Missione” del libro: “Leviatani, dov’è la vittoria?”

Parafrasando il grido di Isaia, “Sentinella, quanto resta della notte?” che Giuseppe Dossetti riprese in un celebre discorso per la commemorazione di Giuseppe Lazzati, dobbiamo gridare: a che punto è la notte?, a che punto è la notte nella quale siamo sprofondati con questa guerra in Europa e in Ucraina?

Perché questa notte non accenna affatto a finire, anzi diventa sempre più fonda, una a una si spengono le stelle del cielo e le costellazioni spariscono tra le nubi; non siamo nemmeno d’accordo tra noi che la guerra debba finire, non c’è un giornale, tranne due, che ancora dicano che ci voglia la pace, perfino la cultura torna al pessimismo antropologico, dice con Kant che la guerra è secondo natura e la pace invece è un artificio, ma nessuno  mette in atto questo artificio, perché i cuori si sono induriti.

E non è solo una questione di cuore. È che anche le menti si sono perdute. I  linguaggi, la stampa, la televisione, le radio che maneggiano le notizie, impongono un unico pensiero, veicolano una sola opinione, e fanno sì che perfino il tassista dica che Putin è una belva, e che le armi bisogna mandarle.

In tal modo viene propagata una fede. Ma non è la fede pasquale, non è la fede che arriva alla parola inaudita dell’amore dei nemici, perché siamo “fratres omnes”, fratelli tutti, ma è la fede nelle armi; sono loro che stanno al comando, sono loro che decidono quante guerre si devono fare, e quanto devono essere lunghe perché i profitti salgano e le scorte siano consumate, e le armi di vecchia generazione siano distrutte sui campi di battaglia, e siano sostituite con armi sempre nuove, con tecnologie tali che i soldati devono andare in Germania, in Inghilterra, o venire in Italia, a Sabaudia e in Sardegna, per addestrarsi, per imparare l’arte della guerra, come la chiama Isaia, per imparare ad uccidere con queste armi.

E armi, sempre più armi, si mandano da tutto il mondo in Ucraina, sicché ci sono più armi che soldati, e mentre i soldati finiscono e muoiono, le armi non finiscono mai, perché sono sempre rimpiazzate. E Zelensky, che sempre più ne chiede, non sa cosa farsene, e allora progetta piani per riconquistare perfino la Crimea, compresa la base navale russa di Sebastopoli; ed è anche prevista la distruzione del ponte che unisce la Russia alla Crimea, un ponte di 16 chilometri, da poco costruito, il più lungo d’Europa; questi piani potrebbero  attuarsi però solo attraverso una completa disfatta della Russia; il New York Times scrive che gli americani sono “entusiasti” di aiutare l’Ucraina a conquistare la Crimea, e ciò conferma che  appunto per  annientare la Russia essi stanno sostenendo e prolungando la guerra in Europa.

E con le armi mandate dagli inglesi la guerra si farà sporca e contaminerà e deturperà la popolazione del Donbass, eventualmente  liberata, per i prossimi millenni, perché sono armi ad uranio impoverito che come ha spiegato lo stesso “Corriere della Sera”, per migliaia di anni restano nell’ambiente, modificano il DNA e causano linfomi, leucemie e malformazione di feti. Ma nessuno pensa al bene del popolo,  questo vuole l’irredentismo ucraino, questo vuole l’amor proprio, il mito della nazione. l’importante è che il Donbass stia con l’Ucraina e non con la Russia, anche se ha una popolazione  russofona, sicché per il Donbass e per la Crimea combattono due sanguinosi nazionalismi, quello russo e quello ucraino; ed è per riconquistare il Donbass che i carri armati tedeschi avanzano in terra ucraina come i Panzer tedeschi della seconda guerra mondiale, quando invasero la Russia nell’operazione Barbarossa nella quale trovarono il gelo e la morte almeno 90.000 soldati del Corpo di spedizione italiano.

Ed è per questo infinito profluvio di armi mandate dall’America, dall’Europa e dall’Italia che quella che, secondo la sconsiderata e arbitraria offensiva di Putin non doveva essere nemmeno una guerra, ma solo un colpo di mano militare, è diventata una guerra ad oltranza fino al rischio di una guerra nucleare mondiale.

Ed oggi siamo a tragedie senza fine. Città distrutte, centinaia di migliaia di soldati caduti, civili uccisi. Respinto, senza nemmeno una lettura, il piano di pace della Cina, che pure per la sua equità poteva essere un’ottima base di trattativa. Martedì della scorsa settimana poi la Finlandia è entrata nella NATO, e la Russia ha annunciato inquietanti contromisure sulla sua frontiera  occidentale, mentre ai missili a uranio impoverito risponde minacciando di usare armi atomiche tattiche. Intanto a san Pietroburgo una statuetta imbottita di tritolo fa saltare in aria un certo Tatarsky nella sala dove egli teneva una conferenza, e non si sa se i mandanti siano stati gli ucraini o  russi dissidenti.

La tragedia diventa ancora più severa per il coinvolgimento delle Chiese. Zelensky arriva  a infliggere gli arresti domiciliari al metropolita Pavel  del monastero ortodosso delle Grotte e  a mettergli un braccialetto elettronico ad una caviglia, sotto l’accusa di collaborare con la Russia; e questa accusa equivale all’accusa di esistere come Chiesa, perché il metropolita arrestato appartiene alla Chiesa unita al  patriarcato di Mosca, a differenza della Chiesa autocefala che si è separata da Mosca per divenire una Chiesa nazionale ucraina. D’altra parte il patriarca russo  Kirill ha dato all’Ucraina il pretesto dello scisma e a Zelensky l’alibi per arrestare  Pavel,  avendo sposato la politica di Putin e facendosi, come ha detto col suo vivido linguaggio papa Francesco, chierico di Stato e addirittura “chierichetto di Putin”, suscitando del patriarca moscovita le ire. Così la guerra ha portato una divisione anche tra le Chiese, e in Ucraina si è tornati ai fasti della “Chiesa del silenzio” di sovietica memoria.

E allora bisogna chiedersi come siamo arrivati a questo punto, quali sono le origini vicine e lontane della guerra in Ucraina.

Le origini lontane sono quelle a cui allude il titolo di questo libro quando parla dei Leviatani. I Leviatani sono dei mostri biblici, delle bestie feroci di terra o di mare, evocate nei libri sapienziali e profetici della Bibbia, ed è questo il nome che il filosofo Thomas Hobbes ha dato allo Stato moderno nell’illustrarne la genesi. Fino ad allora la comunità politica era declinata in categorie teologiche, ma con Thomas Hobbes nel XVII secolo si teorizza e si consuma il passaggio dalle categorie teologiche alle categorie politiche, si passa dalla trascendenza divina al nomos umano. Dice  Hobbes che lo Stato è il Dio mortale, è il Leviatano; esso è ormai una costruzione totalmente artificiale, è la grande macchina che inaugura l’età della tecnica. Lo Stato nasce, secondo Hobbes, come reazione ad una situazione di pericolo e di paura in cui si trovano gli uomini nello stato di natura dell’homo homini lupus; nasce da una scintilla di ragione degli uomini che, per superare questa condizione di uccidibilità generalizzata, che poi in realtà era lo stato delle guerre civili in atto in quel momento in Europa. decidono di fare un patto, da cui nasce lo Stato; essi rinunciano a difendersi da sé, e trasferiscono a un’altra entità, a una persona sovrana, allo Stato, la loro sicurezza, la loro sopravvivenza. Così nasce lo Stato; e siccome lo Stato deve assumere i poteri di questi cittadini per garantirli, prende obbedienza e restituisce protezione;  esso nasce pertanto nelle forme dell’assolutismo; nasce con la polizia all’interno e la guerra all’esterno; e nasce assumendo la nazione come suo fondamento, come materia della sua identità, come sua legittimazione o, come dice qualcuno, come suo alibi[1]. Ma le nazioni sono straniere le une alla altre, gli stranieri diventano nemici, e la soluzione del loro conflitto  è la guerra. Essa è frutto della sovranità, che Jean Bodin aveva teorizzato come la summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas, vale a dire come potestà “assoluta”, cioè sciolta dalle leggi, nei confronti dei cittadini e dei sudditi; ed era stato Francisco De Vitoria che, per legittimare la guerra degli spagnoli che avevano conquistato (o, come si dice, “scoperto”) l’America, aveva introdotto la legittimazione della guerra, come espressione esterna della sovranità. Il domenicano spagnolo aveva fatto questo ragionamento: il sovrano rappresenta la perfezione  e l’autosufficienza della comunità politica, intesa aristotelicamente come perfetta, come societas perfecta. Pertanto egli non può riconoscere alcuna autorità al di sopra di sé, superiorem non recognoscens, allora quando ha da affermare un proprio diritto,  si fa giustizia da sé, non può appellarsi a nessun altro, il sovrano è giudice nella sua causa; e il modo in cui egli si fa giustizia, la forma della sua giurisdizione, è la guerra; e quindi la guerra, come estremo modo di rapporto tra poteri sovrani, viene posta a fondamento e cardine del diritto internazionale inteso appunto come norma di rapporti tra poteri sovrani. E dal ‘500 al 1945 la guerra è precisamente questo; sta dentro il diritto internazionale, non è una patologia, non è un catastrofico accidente, è la forma culminante di un rapporto internazionale considerato come un rapporto pattizio fra Stati sovrani; nel momento in cui questo patto si rompe, non c’è altro modo di risolvere la controversia se non la guerra; quindi guerra perfettamente legittima. Questo è il Leviatano.

Ma la storia è anche sempre piena di sorprese, di altre possibilità. Perché nello stesso tempo si sviluppa il diritto, come monopolio sì dello Stato, ma anche come suo limite, il diritto che è una forza simmetrica alla violenza. E la lotta per il diritto che si sviluppa in tutti questi secoli fino a noi, mina le basi dell’assolutismo, mette vincoli alla forza, cerca di dare limiti e regole alla guerra, scopre e proclama, di rivoluzione in rivoluzione, i diritti fondamentali e universali dell’uomo.

È con queste premesse che si giunge alla grande crisi del ‘900. Con la I e la II guerra mondiale, con il nazifascismo, con la Shoà, prevalgono le categorie della distruzione, della guerra, della sovranità incondizionata, della demonizzzione dell’altro, dello straniero; tutte queste cose giungono alla loro estrema aberrazione, portano l’umanità alla più grande tragedia mai conosciuta. E qui c’è il colpo di reni, qui c’è la grande svolta, la grande revisione del 1945, l’anno in cui tutto sembra dover cambiare, dover cominciare di nuovo. Si mette fuori legge la guerra, viene dichiarata come “un flagello”, nella Costituzione italiana sarà addirittura “ripudiata”, si ridimensiona la categoria della sovranità, perché si stabilisce un ordinamento internazionale che dovrebbe vincere anche l’assolutezza delle prerogative sovrane, si afferma l’uguaglianza di tutte le persone, senza distinzione di razza, sesso, religione, nazionalità ecc., ma non solo delle persone, anche delle nazioni grandi e piccole, tutte sono eguali, dice la Carta dell’ONU, si fondano le Nazioni Unite, si inaugura, con la Carta dell’ONU, un nuovo diritto internazionale, che  non è  più solamente pattizio, nato da un contratto, ma che aspira a diventare uno ius cogens, un diritto cogente per tutti; si sanziona il delitto di genocidio, addirittura si inventa una parola che prima non esisteva, i popoli venivano sterminati ma ancora nessuno aveva definito questo delitto con un termine specifico, genocidio; si dà avvio alla decolonizzazione, si sogna la nuova comunità universale delle nazioni.

Ma è, come ben sappiamo, una rivoluzione incompiuta. Subito, a partire da quello stesso anno, vengono seminati i germi della nuova crisi; irrompe la bomba atomica sui cieli del Giappone, si riaccende lo scontro irriducibile tra i sistemi, l’Europa è divisa, si formano i blocchi, comincia la guerra fredda, la decolonizzazione si impantana in sanguinosi conflitti. C’è anche  chi cerca di fondare un mondo diverso: nel 1986 Gorbaciov e il leader dell’India Rajiv Gandhi firmano la dichiarazione di New Delhi per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, ma l’Occidente non la raccoglie. E nell’ultimo decennio del secolo, con la dissoluzione dell’impero sovietico, mentre nasce la grande speranza che si possa costruire un mondo diverso, la storia prende un altro corso. La grande speranza dell’89 svanisce. Viene ripristinata la guerra, la quale con la guerra del Golfo riceve una nuova legittimazione, tornano i nazionalismi, si riaffaccia il mito dello Stato nazione, si fomenta la divisione dei vecchi Stati secondo linee che sono insieme etniche e religiose, si torna a legittimare il principio cuius regio eius et religio, come negli accordi di Dayton per l’ex Jugoslavia che stabiliscono confini che passano tra etnia e etnia, tra religione e religione, mentre ci sono moltitudini di migranti, di stranieri, che premono sulle frontiere dell’Europa; decadono e deperiscono le vecchie sovranità statuali, anche la nostra, assorbite in contesti più ampi, e si erge, di nuovo affermandosi come  legibus soluta, una nuova sovranità universale, che non è più quella dell’ONU, ma è quella della NATO che tende a sostituirsi ad essa, mentre esplode il mercato globale.

E proprio la globalizzazione intesa come deregulation e competizione di tutti contro tutti, ripristina quello stato di natura da cui, secondo Hobbes si doveva uscire con il Leviatano, ripristina quello stato di guerra civile che però, nel villaggio globale, è ormai guerra civile mondiale.

Tutto quello che ne segue, fino alla guerra d’Ucraina, è raccontato in questo libro. Ma in esso manca l’ultimo tassello: quello che è successo nell’ottobre del 2022, dunque pochi mesi fa, là dove questo libro si arresta. È a quel punto che escono due documenti cruciali dell’amministrazione americana.

Si tratta dei due documenti programmatici in cui, in piena guerra d’Ucraina, il 12 e 27 ottobre 2022, la leadership americana enuncia le due strategie fondamentali degli Stati Uniti: il primo è la “National Security Strategy” del Presidente Biden, il secondo ne è la pianificazione operativa sul piano militare, ed è la “National Defense Strategy of The United States of America 2022” firmata dal capo del Pentagono Lloyd Austin,

Questi due documenti,investono il destino del mondo come tale, e non solo di una sua parte.

Essi infatti postulano un unico potere che si protende alla totalità del mondo, e presumono  che questo debba avere un unico ordinamento politico, economico e sociale e corrispondere a un unico modello di convivenza umana; questo è un presupposto che da tempo gli Stati Uniti hanno posto a base della loro relazione col mondo, da quando, dopo l’11 settembre 2001 e lo shock dell’attacco alle Due Torri, avevano enunciato l’ideologia a cui doveva essere conformato l’assetto del mondo, come era concepito dagli Stati Uniti. Secondo quella ideologia  il solo  modello valido per ogni nazione sarebbe riassumibile in tre termini: Libertà, Democrazia e Libera Impresa; dunque un modello che mette insieme una definizione antropologica, una indicazione di regime politico ed una forma obbligatoria di organizzazione economico-sociale.

A questo punto io potrei illustrarvi nei dettagli questi due lunghi documenti, che porto qui con me; ma non ne abbiamo il tempo e non credo che lo gradireste. Perciò vi racconto solo le grandi scelte che con essi vengono fatte. Sono documenti che ben pochi conoscono in Italia e in Occidente, perché sono stati occultati dalla stampa e nascosti dai governi, per l’effetto negativo che avrebbero sull’opinione pubblica riguardo ai rapporti con l’America.

Intanto essi dicono qual è il modo in cui gli Stati Uniti guardano al mondo. Biden dice che l’era della post guerra fredda è finita, cioè è finito il tempo in cui non si poteva fare la guerra per la paura dell’arma nucleare.  Ciò consente di guardare al mondo di oggi come a un’arena in cui si possono combattere tutte la guerre che sono necessarie. Questo  non è un mondo riconciliato e unito nella coesistenza pacifica e nel diritto, ma un mondo nel quale si deve condurre una competizione strategica, dalla quale uscirà un vincitore finale, che avrà il primato e dovrà avere il controllo su tutto, cioè stabilire sulla terra un impero, un unico Impero. Questo vincitore finale devono essere gli Stati Uniti, perché  come detentori del bene e della democrazia, contro le Potenze autoritarie, si considerano i supremi tutori del mondo  per  fare un mondo a propria immagine e misura. Gli americani questo non lo chiamano impero, ma dicono che in questa competizione “nessuna nazione è meglio posizionata degli Stati Uniti per avere successo”, che “essi guideranno con i nostri valori; non c’è nazione meglio posizionata degli Stati Uniti d’America per guidare con forza e determinazione”. Di Imperi parla anche il Corriere della Sera, che però tace degli Stati Uniti e condanna come Imperi  la Russia e la Cina. Queste però  Imperi  ancora non lo sono, sono ancora lontane dal dominare il mondo, mentre gli Stati Uniti lo sono già, avendo fatto guerre e colpi di Stato in tutta la terra, e avendo stabilito basi militari in tutti i continenti.

Poste queste premesse i documenti della strategia americana dicono quali siano i competitori strategici e i nemici da battere. Il principale avversario, a sorpresa, non è la Russia, già votata da Biden alla condizione di paria, che è considerata già disfatta, e i cui “limiti strategici” sono stati messi in luce con la sua guerra di aggressione all’Ucraina; no, il vero nemico finale, quello con cui si deve affrontare la sfida culminante è la Cina. Non se ne spiegano bene le ragioni, se non che essa vorrebbe rimodellare l’ordine internazionale a suo vantaggio. Il capo del Pentagono precisa che la Cina vorrebbe rimodellare la regione dell’Indo Pacifico e il sistema internazionale “per adattarlo alle sue preferenze autoritarie” e minacciare le alleanze degli Stati Uniti in quella regione. Questo non vuol dire che il conflitto con la Cina sia inevitabile né auspicabile, ma se dovesse esserci, se fallisse la deterrenza che dovrebbe impedirlo, gli Stati Uniti sono pronti a prevalere nel conflitto, cioè a vincerlo, come del resto ogni altro conflitto che si trovino a combattere.

Ci sono poi dei nemici minori, come la Corea del Nord e l’Iran, ma gli autocrati che vorrebbero minare la democrazia, saranno sconfitti. E non ci sono solo i nemici: l’assioma è  che nessun altra Potenza (e dunque nemmeno l’Europa) debba non solo superare, ma neanche eguagliare la potenza americana, e questo vale anche per l’Europa.  In patria gli Stati Uniti continueranno a lavorare per essere all’altezza dell’idea di America sancita nei documenti fondativi, attirando “sognatori e aspiranti” da tutto il mondo.

Al documento sulla difesa nazionale sono aggiunti due allegati; uno è la revisione della cosiddetta “postura nucleare”, l’altro è la revisione della difesa missilistica.

Sul nucleare si ribadisce quanto era già stato deciso dopo l’attacco alle Torri gemelle: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva; il principio del no first use, del non usare la bomba per primi è abbandonato, la nuova strategia è di ricorrere se necessario per primi all’arma nucleare. E questa nuova dottrina, adottata ormai anche dalle altre Potenze nucleari, fa sì che dietro questo scudo si possano  combattere  senza troppi rischi tutte le guerre convenzionali.

Dunque il futuro che viene prospettato è un futuro di competizione e di guerra. Se esiste un “sogno americano” che dovrebbe estasiare tutto il mondo, più che un sogno è un incubo. Il messianismo americano si rovescia, non è un esodo verso le terre promesse, ma verso le guerre promesse.

Le ultime notizie ci parlano dell’arresto di Trump per cospirazione e corruzione. Ma la corruzione non è solo quella di Trump. C’è un’altra corruzione che è un vizio del potere, oggi si corrompe non solo con denaro, ma con armi e dollari, c’è una corruzione non solo di una pornostar con cui fare l’amore, ma di un popolo intero per fargli fare la guerra,  c’è una cospirazione che non è di uno solo contro il proprio Paese, ma è una cospirazione dei Leviatani contro la pace e la vita del mondo.

Che possiamo fare dunque? Noi abbiamo un’altra visione del mondo. Il mondo non è un’entità amorfa, primitiva, disponibile al dominio, ridotto a un unico Impero. Ciò vuol dire riconoscerne la complessità, accettare gli altri – noi diremmo addirittura di amarli – e lasciare che ognuno, persone e popoli, si svolga secondo la propria vocazione, vivendo la propria storia, non abitando nei sogni altrui, ma nei propri.

Questa è la vocazione dell’Europa. Essa ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua  identità, secondo il “progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento”, come aveva detto Francesco al Consiglio europeo del  25 novembre 2014.

L’Europa ha le risorse per affrontare queste sfide, per dire in faccia al mondo che la guerra non è l’ultima parola della storia, e che l’unica risposta alla tragedia dei migranti è proprio quella che nessuno vuole ammettere, ma è l’unica adeguata e anche l’unica vera, ossia quella che inevitabilmente prevarrà nel lungo periodo: l’apertura delle frontiere, la via aperta agli esodi collettivi, il trasporto dei profughi non più assimilato al “traffico di esseri umani”, il riconoscimento e l’effettivo esercizio dello “ius migrandi” e del diritto di mettere dovunque  radici,  che è stato tra i primi diritti umani universali  affermati  dall’Occidente all’alba della modernità, come fu teorizzato  da Francisco de Vitoria per legittimare la conquista dell’America.

Oggi non si potrebbe lasciar scrivere a papa Francesco un’enciclica come “Fratelli tutti” se i fratelli non potessero incontrarsi, scambiarsi, accogliersi a vicenda, vivere insieme oltre le differenze di lingue, religioni, territori e culture, così come non si potrebbe pensare  a un mondo unito e salvaguardato da un ordinamento costituzionale per tutta la Terra, senza che il pluralismo e lo scambio tra i popoli siano riconosciuti e preservati nell’”armonia delle differenze”. Non sarà una Costituzione unica per tutta la Terra che domerà i Leviatani, ma piuttosto un più avanzato costituzionalismo mondiale, che preservi i beni comunitari già acquisiti dall’ONU e faccia scaturire le scintille di molte Costituzioni radicate negli ordinamenti  locali.

Sarebbe gloria e vittoria dell’Occidente se il diritto delle persone e dei popoli e il ripudio della guerra ne fossero le norme fondanti.

[1] O come suo “stratagemma” (José Gil nella voce Nazione dell’Enciclopedia Einaudi, vol. IX, 1980, pag. 834 e seg.).

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