Come scrive il grande regista inglese Ken Loach nell’introduzione al libro di Stefania Maurizi (Il Potere Segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks, prefazione di Ken Loach, Chiarelettere, Milano, 2021, premio Alessandro Leogrande 2022, Premio European Award for Investigative and Judicial Journalism 2021, verrà pubblicato in inglese nel Novembre 2022 per Pluto Books, Londra), la storia di Julian Assange “è la storia di un giornalista imprigionato e trattato con insostenibile crudeltà per aver rivelato crimini di guerra; della determinazione dei politici inglesi e americani di distruggerlo; e della quieta connivenza dei media in questa mostruosa ingiustizia”. Sì, perché la storia di Assange è la storia di un giornalista che ha svolto il proprio dovere con impegno e coerenza, che non si è piegato davanti al potere e non ha avuto paura di mettere a rischio la propria vita. Assange ha scelto, come ha fatto Chelsea Manning, la fonte di WikiLeaks, di svelare all’opinione pubblica i terribili crimini e le violazioni dei Diritti Umani commessi in Iraq, in Afghanistan o nei centri di tortura come quello di Abu Ghraib e Guantanamo, centri che giustamente la Maurizi definisce “buchi neri della civiltà”.
Non è più tollerabile l’ipocrisia di chi denuncia i crimini commessi dagli altri Stati e rimane in silenzio davanti a quelli commessi dal proprio Paese o dai Paesi “amici”. Sui crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani non può esserci Segreto di Stato ed è un diritto dell’opinione pubblica conoscere la verità. Assange da giornalista ha svolto il suo diritto/dovere di informare eppure siamo arrivati al paradosso che chi denuncia quei crimini rischia 175 anni di carcere mentre chi li commette è libero di vivere la propria vita.
Condannare Julian Assange significa anche condannare la libertà di informazione
Nella vicenda del fondatore di WikiLeaks si gioca cinicamente con la vita di una persona, ma si mette in causa anche la vita stessa della libertà di informazione. Infatti, l’eventuale condanna del giornalista australiano costituirebbe un precedente gravissimo. I capi d’accusa si riferiscono strumentalmente ad una legge del 1917 contro lo spionaggio (Espionage Act), per aggirare il dettato del primo emendamento della Costituzione statunitense che tutela il diritto di cronaca con laica sacralità.
Grazie al primo emendamento non ci furono conseguenze giudiziarie nel caso omologo dei Pentagon Papers, che svelarono i segreti della guerra del Vietnam. Allora, infatti, né l’analista che fornì i dossier Daniel Ellsberg né The New York Times o The Washington Post che li pubblicarono furono perseguiti. Insomma, l’incubo che incombe su Assange riguarda tutte e tutti coloro che fanno informazione. Girarsi dall’altra parte oggi significa aprire la strada al declino della democrazia.
La campagna di demonizzazione di WikiLeaks e di Assange è basata su alcune menzogne:
Ha rubato i documenti o li ha hackerati?
Assange e WikiLeaks non hanno hackerato né rubato i documenti ma li hanno ricevuti da un giovane e coraggioso all’epoca soldato, Chelsea Manning, che vi aveva accesso legittimo, perché era un’analista dell’intelligence che lavorava per l’Esercito degli Stati Uniti ed era in missione in Iraq, durante la guerra scatenata dall’amministrazione di George W. Bush. Invece di chiudere gli occhi davanti all’efferatezza dei crimini commessi e dei sistemi di tortura usati dagli Stati Uniti, Manning ha deciso di non voltarsi dall’altra parte e ha consegnato i documenti all’organizzazione giornalistica di Assange, che li ha pubblicati esattamente come avevano fatto il New York Times e il Washington Post nel 1971 avevano ricevuto i Pentagon Papers da un analista militare, Daniel Elsberg, che vi aveva accesso in modo legale e aveva deciso di farli arrivare ai due grandi quotidiani.
Per il suo coraggiosissimo gesto in favore della pubblica opinione e del pubblico interesse, Chelsea Manning ha avuto una condanna a 35 anni di carcere duro, di cui 11 mesi di detenzione in condizioni inumane e degradanti, come stabilito dal Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura, Juan Mendez. Per il suo gesto di integrità morale, Chelsea Manning ha trascorso 7 anni in una prigione militare. Ha provato a suicidarsi due volte. A quel punto, l’amministrazione Obama ha commutato la pena di 35 anni ai 7 già scontati (senza darle la grazia, le ha solo concesso una commutazione della pena, quindi gli effetti civili rimangono). Uscita di prigione nel maggio del 2017, però, l’amministrazione Trump l’ha di nuovo imprigionata nel 2019, e tenuta in galera per un anno nel tentativo di farla testimoniare contro Julian Assange e WikiLeaks. Ancora una volta, Chelsea ha dato prova della sua fibra morale: non si è piegata. Ha pagato un prezzo altissimo: ha tentato di suicidarsi per la terza volta ed è stata condannata a pagare una multa di 256mila dollari. Non si è comunque piegata e ha spiegato così la sua decisione: “Ogni persona deve creare il mondo in cui vuole vivere. Io credo nel giusto processo, nella libertà di stampa e in un sistema giudiziario trasparente. Sono contraria all’uso del Grand Jury come strumento per fare a pezzi le comunità vulnerabili. In particolare, sono contraria a questo Grand Jury come tentativo di intimidire giornalisti e editori che servono un cruciale bene comune. Ho questi valori da quando ero bambina e ho avuto anni per rifletterci mentre mi trovavo in prigione. Per gran parte di quel tempo la mia sopravvivenza è dipesa da quei valori, dalle mie decisioni e dalla mia coscienza. Non li abbandonerò adesso”.
WikiLeaks ha pubblicato nomi di persone le cui vite potevano essere messe in qualche modo in pericolo?
I redattori dell’organizzazione giornalistica WikiLeaks, diretta da Julian Assange, prima di pubblicare i documenti segreti sul proprio sito, li hanno sottoposti ad un approfondito lavoro di verifica. Gli stessi dati sono stati verificati da un gruppo di giornalisti appartenenti alle maggiori testate internazionali: New York Times, Der Spiegel, El Pais, il Guardian, Le Monde, L’Espresso, che poi li hanno a loro volta pubblicati.
Stefania Maurizi scrive: “Centosettantacinque anni di prigione per aver ottenuto e pubblicato i documenti del governo americano inviati da Manning che facevano emergere torture e crimini di guerra. Per il mio giornale avevo rivelato gli stessi identici documenti. […] Nessuno mi aveva mai interrogato, arrestato, incarcerato. E nessuno dei giornalisti che come me avevano lavorato su quei file segreti come media partner di WikiLeaks – da New York alla Nuova Zelanda, da Londra all’Argentina – avevano mai avuto un problema”.
Durante il processo a Chelsea Manning, nel 2013, davanti alla corte marziale, è stato chiamato a testimoniare Robert Carr, il capo della Task Force del Pentagono incaricata di indagare sulle conseguenze delle pubblicazioni dei documenti segreti inviati da Manning a WikiLeaks. Carr ha testimoniato che, nonostante le indagini della sua task force, non era emerso un solo nome di persona uccisa a causa di quelle rivelazioni.
Sono trascorsi 12 anni dalla pubblicazione dei documenti segreti del governo americano per cui Julian Assange rischia 175 anni in una prigione di massima sicurezza, ad oggi gli Stati Uniti non sono riusciti a portare un solo esempio di persona uccisa, ferita o finita in prigione
Ha violato il segreto di Stato?
Nell’aprile del 2010 Assange ha scelto di far conoscere a tutto il mondo, attraverso il sito di Wikileaks, un video segreto chiamato “Collateral murder”, nel quale veniva documentato lo sterminio di civili e bambini a Baghdad nel 2007 ad opera dei contractor americani. Oltre a questo, vennero pubblicati altri filmati e documenti che, come gli “Afghan war logs” tratti dai database del Pentagono e della CIA, consentirono di svelare diversi crimini contro l’umanità commessi dagli Stati Uniti in Afghanistan, nel lager di Guantanamo ed in altre parti del mondo. Con la pubblicazione di milioni di documenti, furono poi svelate altre gravissime vicende, tutte oggetto di articoli pubblicati sui più importanti giornali americani, ora silenti o quasi.
Se il segreto di Stato ha anch’esso diritto di cittadinanza in ogni democrazia, deve essere chiaro un principio irrinunciabile affermato anche in numerose sentenze di organi giurisdizionali sovranazionali: esso può essere apposto su atti, documenti, notizie, attività, cose e luoghi la cui conoscenza non autorizzata può danneggiare gravemente gli interessi fondamentali dello Stato. Serve in sostanza a garantire, come afferma la legge italiana in materia (n.124/2007, art. 39), con riferimenti ovunque condivisi, ad evitare danni all’integrità dello Stato, alle istituzioni poste a suo fondamento, alla sua indipendenza rispetto agli altri Stati, nonché alla sua preparazione e difesa militare dello Stato stesso. Abbiamo, quindi, l’assoluta certezza che ciò che Assange ha svelato al mondo intero, non ha leso neanche uno dei fondamentali interessi degli Stati Uniti.
Tra i principi da ricordare vi è anche il divieto di abusi, come quello di utilizzare il segreto di Stato, come troppo spesso è avvenuto anche in Italia, per garantire l’impunità di persone ed organi delle istituzioni per gravi delitti, come quelli eversivi dell’ordine costituzionale.
Ecco perché, verificata l’assenza di pericoli per la collettività, la diffusione di certe notizie di elevato interesse mondiale, costituisce un dovere per la libera stampa, mentre l’alto rischio di ergastolo e di trattamenti disumani che potrebbe far seguito alla estradizione di Assange impone il rigetto della richiesta americana: si tratta di principi inequivocabili che anche la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo – che fortunatamente esiste – ha più volte affermato nelle sue sentenze.
Assange ci ha fatto conoscere cose vergognose che il Potere voleva tenere nascoste. Punendo Assange, tenendolo in carcere ed estradandolo negli Stati Uniti si lancia un messaggio chiaro ai media, che così ha sintetizzato Vladimiro Zagrebelsky: “cani da guardia della democrazia, Sì, ma non dovete mordere!”
WikiLeaks ha pubblicato dati falsi o manipolati?
WikiLeaks non ha mai pubblicato documenti falsi. La verifica dei documenti segreti è stata condotta in parallelo sia dai giornalisti dell’organizzazione sia dai media partner, ovvero dai giornali e giornalisti che hanno lavorato sui file in collaborazione con WikiLeaks. Parliamo di decine di quotidiani di primo piano, dal New York Times al Washington Post, dal Guardian al Der Spiegel, a Le Monde, La Repubblica e l’Espresso (era pre-Elkann), Pagina12, ecc.
Gli Stati Uniti non hanno mai neanche provato a smentire la veridicità dei documenti segreti del governo americano pubblicati da WikiLeaks e decine di media partner. Di fatto i documenti sono stati usati in corti e tribunali internazionali e locali. Ad esempio, il cittadino tedesco Khaled el-Masri, vittima di un’extraordinary rendition della CIA, rapito, stuprato e torturato perché scambiato per un pericoloso terrorista, ha potuto fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani grazie ai cablo di WikiLeaks, le corrispondenze segrete della diplomazia americana in cui, tra le altre cose, venivano discusse le pressioni degli Stati Uniti sulle autorità tedesche per il caso el-Masri.
Ha messo a rischio la vita di persone appartenenti alla comunità LGBT?
Non si conosce un solo caso di persona LGBT uccisa, ferita, imprigionata o arrestata perché il suo nome o qualche particolare identificativo della sua persona sono stati pubblicati da WikiLeaks. Per oltre un decennio, le autorità americane hanno studiato l’impatto delle pubblicazioni di WikiLeaks, creando enormi Task Force al Pentagono e nella CIA alla ricerca di persone uccise, ferite, imprigionate a causa dei documenti rivelati da WikiLeaks. Ad oggi, gli Stati Uniti non sono riusciti a portare un solo nome. Ed è ragionevole pensare che se ne avessero trovato anche solo uno, lo avrebbero pubblicizzato urbi et orbi. A opporsi all’incriminazione di Julian Assange e alla sua estradizione sono tutte le più grandi organizzazioni per la difesa dei diritti umani e della libertà di stampa: da Amnesty International a Human Rights Watch, dall’American Civil Liberties Union (ACLU) a Reporters Sans Frontières (RSF) e all’International Federation of Journalists (IFJ). Se Julian Assange e WikiLeaks avessero messo a rischio la vita di persone e, in particolare, delle persone più esposte a rappresaglia, come quelle della comunità LGBT, credete che Amnesty International, Human Rights Watch e tutti gli altri starebbero zitti e sosterrebbero Julian Assange?
Assange e WikiLeaks al soldo del Cremlino?
La campagna di demonizzazione per cui Julian Assange e WikiLeaks sarebbero al soldo del Cremlino è una delle molteplici campagne di delegittimazione che, per oltre un decennio, hanno privato di empatia pubblica Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks: l’unica protezione reale contro il leviatano che vuole vedere morto Assange, WikiLeaks e la loro rivoluzione: il complesso militare-industriale degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ma, come scrive Stefania Maurizi nel suo libro, “in realtà neppure i paesi autoritari ostili agli Stati Uniti e ai loro alleati possono avere alcuna simpatia per quello che fa [WikiLeaks]. Ovviamente, apprezzano e applaudono quando l’organizzazione rivela i segreti dei loro avversari o li imbarazzano davanti al mondo, ma temono di poter essere loro stessi un obiettivo e che il modello ispiri i loro dissidenti”.
Contrariamente alla campagna di disinformazione, Julian Assange e WikiLeaks hanno pubblicato rivelazioni devastanti sulla Russia, come i cablo della diplomazia americana, dove i diplomatici americani riferiscono conversazioni riservate che descrivono la Russia ai tempi di Putin come uno stato mafia, in cui i servizi segreti controllano la criminalità organizzata e la mafia fa quello che lo Stato non può fare in modo presentabile.
WikiLeaks ha anche pubblicato le email interne del regime siriano di Bashar al-Assad, sostenuto dalla Russia, e gli Spy Files Russia, documenti sulle aziende russe che forniscono tecnologia per consentire agli apparati del Cremlino di sorvegliare le comunicazioni telefoniche e via internet dei loro cittadini.
Giornalisti che hanno lavorato per i loro giornali come media partner di WikiLeaks per molti anni, come Stefania Maurizi, raccontano di non aver mai assistito a una situazione in cui WikiLeaks aveva in mano documenti sulla Russia e li abbia nascosti e non li abbia pubblicati e raccontano che i media controllati dal Cremlino non sono mai stati ammessi a lavorare sui documenti segreti di WikiLeaks. C’è un’unica occasione in cui hanno lavorato a documenti di WikiLeaks: nel 2013, quando l’organizzazione di Julian Assange pubblicò le brochure dell’industria della sorveglianza, ma si trattava di brochure aziendali, non documenti segreti scottanti come quelli del governo americano.
COMITATO PER LA CAMPAGNA PER LA LIBERTA’ D’ASSANGE (Daniele Costantini, Giuseppe Gaudino, Laura Morante, Armando Spataro, Grazia Tuzi, Vincenzo Vita)
Un appello del Premio Nobel della Pace Adolfo Perez Esquivel
Le sofferenze che Julian Assange sta patendo per la sua ingiusta detenzione sono provocate dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna che vogliono ridurre al silenzio e punire un giornalista che ha avuto il coraggio e l’etica professionale di pubblicare informazioni sui crimini commessi dagli Stati Uniti in Irak e in Afghanistan.
Il trattamento inumano, fisico e psicologico, cui è sottoposto e i molti anni di persecuzione gli hanno provocato un deterioramento fisico e psicologico. L’annuncio della sua estradizione negli Stati Uniti, dove rischia una condanna a 175 anni di carcere, equivale ad una condanna a morte.
Le conseguenze di questa politica repressiva, che viola il diritto alla libertà di stampa, puntano a controllare i mezzi di comunicazione. Si vuole far tacere col terrore i giornalisti che provano a dare informazioni sulle violazioni dei diritti umani commessi dagli Stati Uniti e da altre potenze che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Di tutto ciò non si parla, si copre l’impunità dei crimini commessi contro i popoli, minacciando chi li denuncia.
E’ deplorevole che la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, presieduta da Michel Bachelet non abbia la forza e gli strumenti giuridici per difendere la libertà di stampa, impedire l’estradizione di Assange e chiedere la sua liberazione.
Le Nazioni Unite devono essere trasformate e democratizzate. Attualmente questo Organismo non ha la possibilità di agire e di difendere la Pace e la vita dei popoli e delle persone. E’ un faro spento che ha bisogno della forza e della volontà dei popoli per essere nuovamente acceso e tornare ad illuminare l’umanità.
Mi appello ancora con forza alle associazioni di giornalisti, al mondo della cultura, ai giuristi, alle organizzazioni per i Diritti Umani, non rimanete indifferenti, ALZATE LA VOSTRA VOCE E CHIEDETE LA LIBERAZIONE DI JULIAN ASSANGE.
Buenos Aires, 1 luglio 2022
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