PERCHÉ UNA GUERRA A BASSA INTENSITÀ

La vera posta in gioco della guerra in Ucraina è l’alternativa tra un mondo unipolare e monocratico e un mondo multipolare e pluralista. Perciò non si intravvedono spazi per vere trattative. Quale pacifismo

Alessandro Valentini

La vera posta in gioco della guerra in Ucraina è l’alternativa tra un mondo unipolare e monocratico e un mondo multipolare e pluralista. Perciò non si intravvedono spazi per vere trattative. Quale pacifismo

Alessandro Valentini

La guerra tra Russia e Ucraina, e in termini più complessivi tra Russia, Nato e Stati Uniti, viene spesso presentata come un ritorno alla “guerra fredda”. Il paragone però è fuorviante, non regge. Nella “guerra fredda” vi erano due sistemi, politici, economici e sociali ben definiti: da una parte il capitalismo, dall’altra parte il socialismo realizzato. Tutta la diplomazia e le relazioni internazionali ruotavano attorno a questa realtà, anche i numerosi Paesi cosiddetti non allineati, come la Jugoslavia, l’India e la stessa Cina, si muovevano dentro questo contesto. E pure le strategie militari, compresa la corsa al riarmo delle due superpotenze, Usa e Urss, non prescindevano dai rapporti di forza usciti dalla Seconda Guerra Mondiale. Tant’è che, nonostante la contrapposizione tra blocchi, vi erano spazi, per una serie di Paesi, anche europei, per poter condurre iniziative diplomatiche in parte autonome, che comportavano anche scambi commerciali e relazioni economiche. Si pensi all’azione delle socialdemocrazie, in primis di quelle tedesche e scandinave, o ai rapporti economici fruttuosi che i governi italiani di centro-sinistra stabilivano con l’Unione Sovietica e gli altri Paesi socialisti. Nessuno statista occidentale, in quegli anni, fece mai dichiarazioni bellicose nei confronti dell’Urss o tentò di praticare una linea volta a smembrarla. Unica eccezione fu Churchill, che subito dopo il ’45, sconfitta la Germania nazista, si avventurò in dichiarazioni forti di aggressione militare all’Urss di Stalin, che non aveva ancora la bomba atomica, ma rimase una voce isolata e non fu ascoltato, per fortuna, dagli statunitensi. Tutti gli Stati di entrambi i blocchi si muovevano all’interno di quanto stabilito dagli accordi di Yalta che sancivano la presenza di due sfere di influenza, quella degli Usa e quella dell’Urss.

Senza infrangere gli accordi di Yalta le due superpotenze si garantivano dei margini di interpretazione autonoma di quanto stabilito. Da parte sovietica si avanzava la strategia della “coesistenza pacifica”, realizzando la quale si sarebbero aperti molti spazi per le forze progressiste in Occidente, per nuovi processi di decolonizzazione del Terzo Mondo e per le lotte di liberazione nazionali. Tra l’altro la guerra coreana era stata una lezione per tutti: su quella strada si rischiava di giungere a un nuovo e più drammatico conflitto mondiale, con conseguenze catastrofiche per l’intera umanità. Da parte Usa invece si praticava la politica di contenimento dell’influenza sovietica, facendo ricorso alle armi e anche ai golpe militari, se necessario, in quei Paesi che formalmente non erano militarmente loro alleati o non erano parte integrante del sistema economico imperialistico. Mai dalla Casa Bianca però fu attuata una politica di aggressione militare diretta e frontale al campo socialista. La crisi di Cuba fu risolta dopo che Kennedy decise di ritirare i missili con testate nucleari dalla Turchia e di conseguenza Krusciov rinunciò a installare armi dello stesso tipo a Cuba.

Questo atteggiamento simile delle due superpotenze apriva enormi spazi politici, non solo, come ho già detto, alle forze progressiste e di sinistra in Occidente e ai movimenti di liberazione, ma anche al movimento della pace, che si affermò con l’enorme contributo anche dei cattolici, e negli Usa della sinistra liberal, che fece suoi gli orientamenti emergenti dalle nuove generazioni, molto coinvolte da fermenti culturali e di costume che caratterizzarono quegli anni. Si pensi a proposito all’influenza della musica rock, della poesia e della letteratura della Beat Generation. Dunque, la “guerra fredda” era una situazione derivata da Yalta ma non determinava il congelamento dei processi mondiali. Dentro al contesto della “guerra fredda” vi erano ampie brecce che consentivano ai movimenti di massa di pesare e di condizionare la politica e persino la geopolitica. La lezione del Vietnam è stata anche tutto questo!

Mi pare invece di poter dire che gli scenari attuali poco o nulla hanno a che fare con la “guerra fredda”. Torno sinteticamente sulle ragioni che hanno condotto Putin ad avviare l’”operazione militare speciale”: l’estensione della Nato fino ai confini della Russia; l’aggressione al Donbass e alle regioni di lingua russa da parte di Kiev, con bombardamenti aerei che in otto anni di guerra hanno provocato 14.000 morti, molti dei quali civili, tra cui donne e bambini; il boicottaggio sistematico dell’Ucraina degli accordi di Minsk; l’integrazione delle milizie naziste e degli ultra nazionalisti nell’esercito regolare ucraino dopo il colpo di Stato, voluto, sostenuto, finanziato e guidato dagli Usa, che già erano presenti attivamente da anni nell’ex Repubblica Sovietica attraverso la Nato, la Cia e una serie di laboratori segreti per produrre armi biologiche di sterminio di massa; la persecuzione della etnia russa con vessazioni e metodi razzisti; la messa al bando di ben 11 partiti e dei mezzi di informazione dell’opposizione, con arresti e uccisione di politici, sindacalisti e giornalisti; la persecuzione della Chiesa Ortodossa che ha nel Patriarca di Mosca il suo punto di riferimento. Ho citato tutte queste ragioni che da sole sono già sufficienti per giustificare un intervento militare russo, che tra l’altro ha anticipato quello del governo ucraino, che stava ammassando un grosso esercito ai confini delle due Repubbliche del Donbass.

È mia convinzione però, che la ragione principale che ha spinto Mosca a mettere in atto l’“operazione militare speciale”, pur non sottovalutando l’insieme delle ragioni citate precedentemente, sia squisitamente politica, o se si vuole geopolitica. Il riferimento alla “guerra fredda”, fatto all’inizio di questa trattazione, serve come pietra di paragone per mettere in evidenza che dopo il dissolvimento del campo socialista e della stessa Unione Sovietica, gli Usa hanno radicalmente modificato il loro atteggiamento sulla “questione russa”. Da una politica di contenimento dell’influenza mondiale dell’Urss sono passati a una politica di vera e propria aggressione alla Russia, nutrendo la speranza che fosse possibile non solo disarticolare l’ex Unione Sovietica, ma la stessa Russia. Ricordo che la Russia ha un immenso territorio di 17.100.000 km² che comprende la Siberia all’interno della quale si trova circa il 50 per cento delle risorse strategiche del pianeta. Questo cambio di linea fu provocato da due novità che si erano determinate alla fine del secolo scorso.

La prima riguarda lo scioglimento dell’Urss, dopo il quale l’Occidente credeva, o si illudeva, che si sarebbe andati verso la costruzione di un mondo unipolare, dominato dagli Usa. Dunque, finalmente le diverse centrali imperialistiche avrebbero avuto mano libera per saccheggiare e depredare tutti i Paesi che prima, in qualche modo, erano stati tutelati dall’Urss e contemporaneamente gli Usa e i loro alleati avrebbero potuto presentarsi al Sud del mondo come quelli che dettavano ancor di più le regole. Questa convinzione è all’origine di una serie di guerre, a iniziare dallo smembramento della Jugoslavia Paese leader dei non allineati, senza porsi troppi problemi nel bombardare la Serbia. E in seguito le guerre contro l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, lo Yemen, la Somalia, tanto per citarne alcune. Ciò era reso possibile da una Russia troppo debole per svolgere un ruolo di contrappeso, e tra l’altro molto impegnata in guerre alle porte di casa in Georgia e in Cecenia, e dalla Cina che non era ancora quella grande potenza che è oggi. Sul piano politico si pensava di realizzare l’unipolarismo attraverso le “rivoluzioni colorate” e i colpi di mano per costituire, con il pretesto di portare libertà e democrazia, governi fantoccio legati all’Occidente, in particolare agli Usa o ad alcune potenze europee.

La seconda novità fa riferimento al passaggio dal capitalismo al dominio incontrastato del capitale finanziario, che proprio in quegli anni in Occidente, maturava in tutta la sua enorme portata. Il processo affonda le sue radici nel passato, quando Nixon impose la messa in discussione degli accordi di Bretton Wood e la fine della convertibilità del dollaro in oro, determinando un sistema in cui la moneta non è più alla base dello scambio delle merci, ma diviene essa stessa merce ed è sempre meno connessa ai processi produttivi. È ovvio che un sistema geopolitico unipolare, basato sulla potenza militare statunitense, fosse funzionale alle attività speculative e di finanziarizzazione dell’economia da parte delle oligarchie finanziarie. E la loro globalizzazione, oggi in crisi, ha prevalentemente questa finalità. Si tratta di una globalizzazione finanziaria ben diversa da come si intende in altri Paesi, in particolare la Cina, cioè grande mobilità e circolazione di denaro – merci – forza lavoro (possibilmente qualificata e specializzata) per lo sviluppo della produzione e per creare nuova ricchezza.

Spesso però «il diavolo fa le pentole ma non i coperchi». La fase unipolare è stata breve, non ha retto ai processi in atto. Anche in questo caso cito alcune cause, le più importanti.

– Si è sottovalutato l’imponente sviluppo economico della Cina e la sua capacità di passare da una produzione di quantità a una produzione di qualità affermandosi come primo Paese nella produzione tecnologica.

– In Occidente si sono colti solo tardivamente i processi politici che hanno portato la Russia da Eltsin a Putin, con un conseguente risveglio politico, economico, culturale e militare della nazione.

– Il dominio in Occidente del capitale finanziario ha portato a un forte ridimensionamento del ruolo dello Stato come soggetto principale nel pianificare gli interventi per lo sviluppo produttivo, per grandi opere infrastrutturali, per estendere, migliorare e qualificare il welfare, per attuare politiche monetarie. Dove il capitale finanziario esercita incontrastato il suo dominio, cioè in buona parte dell’Occidente, il tema della programmazione è totalmente rimosso e al suo posto sono subentrate le privatizzazioni selvagge a favore di ristrette élite finanziarie. L’azione dei governi è ridotta a gestire un po’ di spesa corrente e a favorire l’introduzione di nuove e sempre più pesanti privatizzazioni (soprattutto dei beni comuni) e l’esternazione dei servizi. E si assiste anche ad uno scenario nel quale i governi sono al servizio di multinazionali e grandi gruppi finanziari, come si è visto in modo molto chiaro nel caso dei vaccini per contrastare la pandemia, ma anche riguardo alla nuova frontiera dell’intelligenza artificiale e al complesso militare industriale. Tutto ciò mette anche in discussione i livelli di democrazia esistenti. Infatti, l’Occidente (basta guardare al funzionamento della UE) è sempre più caratterizzato da sistemi politici a-democratici, dominati appunto dal capitale finanziario.

– Il mondo non è tutto dominato dal capitale finanziario. Ci sono Paesi come la Cina, la Russia e tanti Paesi del Sud del mondo nei quali lo Stato esercita e svolge le sue funzioni, soprattutto stabilendo modalità e obiettivi degli indirizzi economici. Il Sud è un insieme complesso di Paesi con diverse espressioni politiche e diversi sistemi economici e sociali. Vi sono Paesi socialisti o a orientamento socialista, Paesi in via di sviluppo ma ricchi di materie prime, Paesi con forme di capitalismo monopolistico di Stato, sia pur molto diversificate. Sono questi gli Stati dove vengono attuate forme di pianificazione e politiche più o meno di natura neokeynesiana per migliorare le condizioni materiali di vita e tutelare la sovranità nazionale. Nel frattempo, in Occidente si deve constatare la morte del riformismo, a tal proposito basta riflettere su cosa sono diventati i Paesi scandinavi, un tempo additati come esempio più significativo del modello riformista. In Italia questa involuzione è dimostrata dall’Emilia Romagna e dalla Toscana che hanno smesso di essere esempi del buon governo del centro-sinistra. Gli Stati del Sud del mondo rappresentano oltre i due terzi della popolazione mondiale e sempre meno vogliono stare alle regole dettate da una visione unipolare e prepotente dei rapporti internazionali, una visione che è tutt’uno con gli interessi e le attività del capitale finanziario e dei principali poli imperialisti mondiali. E’ proprio sulla questione di un ruolo forte dello Stato per affrontare e risolvere i grandi problemi dell’umanità che in questi anni si è determinata una frattura che ha creato due veri e propri campi distinti. Accordi internazionali, come il Brics (che raggruppa Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), per citare il più importante, vanno appunto nella direzione di rafforzare quella idea di globalizzazione e di circolazione di denaro-merci-forza lavoro sulla base del reciproco interesse respingendo la concezione di una globalizzazione finanziaria, speculativa e di rapina. Non c’è allora da stupirsi se sono già una ventina i Paesi che hanno chiesto di voler entrare a far parte del Brics.

– Il consolidamento dell’asse strategico tra Russia e Cina che si rafforza proprio nella lotta per contenere l’azione devastatrice del capitale finanziario e la sua visione unipolare. L’intesa tra queste due grandi potenze trascina tutto il Sud del mondo e gli conferisce il coraggio necessario per alzare la testa, per essere coprotagonista di un mondo che cambia, che va nella direzione di una pratica multipolare nei rapporti internazionali, per contrastare e contenere l’azione distruttiva del capitale finanziario. Un Sud del mondo che forse per la prima volta nella sua storia è consapevole di poter riscattare oltre quattro secoli di colonialismo e di imperialismo imposto dagli europei, dai nord americani e dal Giappone.

La veemenza politica, spinta fino all’uso di matrice nazista della russofobia – sentimento di paura e di ostilità verso il popolo, la politica e la cultura russa – non ha mai caratterizzato la “guerra fredda”, anche nei momenti di crisi più acuta. Allora, con la divisione del mondo in due blocchi nessuna delle due superpotenze nucleari è mai intervenuta militarmente né mai ha disposto l’applicazione di sanzioni economiche se l’altra parte calpestava la sovranità, i diritti e le aspirazioni di un Paese che, pur facendo parte integrante di uno dei due campi, cercava una via autonoma per il suo futuro. La partita, anche a livello militare, si giocava in quelle zone del mondo non decisamente posizionate in una delle due aree di influenza. Ha ragione Xi Jinping quando sostiene che siamo protagonisti di cambiamenti che non si vedevano da cento anni. Siamo a un grande tornante della storia, come fu quello della Rivoluzione Francese o della Rivoluzione d’Ottobre. Non si tratta quindi di un ritorno alla “guerra fredda”.

A proposito della Cina vorrei sottolineare che forse, almeno all’inizio, non condivideva in pieno la scelta di Putin di intraprendere un’operazione militare, per una serie articolata di ragioni. La prima preoccupazione dei cinesi era legata al fatto che si sarebbe prodotta una instabilità nel commercio globale; la seconda che temevano una reazione molto aggressiva degli Usa e della Nato, inoltre non erano sicuri che il contingente militare russo, circa 160.000 militari, fosse sufficiente contro l’esercito ucraino, forte di quasi 400.000 soldati con il supporto dei corpi di élite ben addestrati dalla Nato; infine non vi era la certezza che il Sud del mondo si sarebbe schierato con la Russia. Ma ciò che ha convinto Xi Jinping e il gruppo dirigente cinese è stata l’impostazione della operazione militare data da Putin. Tra le ragioni dei russi – alcune rammentate anche da Papa Franceso (“la Nato che abbaia ai confini della Russia”) – giuste o errate che siano, ce n’è però una fondamentale, vitale, che ovviamente i cinesi non possono ignorare: la battaglia per realizzare un ordine mondiale multipolare che corrisponde al modo della Cina di interpretare strategicamente le relazioni internazionali al fine di sviluppare il socialismo con caratteristiche cinesi. In scala ridotta un processo di graduale e sempre più convinta adesione e sostegno alla Russia vi è stato anche da parte di settori, pur molto minoritari, della sinistra rivoluzionaria europea. Da questa riflessione ne deriva un’altra che occorre sottolineare. La Russia, con l’operazione militare, non è stata fagocitata dalla Cina come certi nostrani esperti geopolitici liberal sostengono. La Cina indubbiamente è una potenza economica ben più importante della Russia, però quest’ultima ha enormi riserve di materie prime e un potente arsenale militare (e nucleare) molto più forte di quello cinese, ma soprattutto il Cremlino ha saputo condurre una iniziativa politica e diplomatica che l’ha portata di fatto a essere leader dei Paesi del Sud del mondo. Insomma, le due potenze hanno bisogno l’una dell’altra e insieme prospettano al Sud del mondo la vittoria nella battaglia per un nuovo ordine mondiale. Occorre inoltre sottolineare che sono tre i Paesi fondamentali del processo di integrazione economico e commerciale asiatico. Troppo spesso ci si dimentica dell’India il cui ruolo per molti aspetti è quello di mantenere un equilibrio dello sviluppo stabile in Asia.

Questa è la vera posta in gioco della guerra in Ucraina, lo sanno bene entrambi i campi. Ecco perché è difficilissimo mettere in piedi uno straccio di negoziato. La Russia, oltre a voler raggiungere tutti i suoi obiettivi esplicitamente dichiarati vuole, insieme con la Cina, che gli Usa e l’Occidente abbandonino l’unipolarismo per il multipolarismo, ma l’Occidente è totalmente prigioniero dell’immenso potere che ha il capitale finanziario che non intende assolutamente rinunciare a questa sua visione. Pertanto, la posizione egemone è che l’unica pace giusta sia quella che preveda non solo il ritiro della Russia da tutti i territori occupati, compresa la Crimea, ma anche la sua umiliazione; solo mettendola in ginocchio si pensa di poter scongiurare la minaccia per il bel “giardino” occidentale, realizzato con secoli di sfruttamento e di rapina del Terzo Mondo. E i più oltranzisti giungono a teorizzare che se la Russia sarà smembrata sarà ancora meglio.

Spazi dunque per trattative non ce ne sono, per ora non si intravvedono. Per questo la strategia militare dei russi consiste nel condurre una guerra a bassa intensità puntando non solo alla disfatta di Kiev ma anche al logoramento dell’Occidente. L’uso della forza militare applicata selettivamente e in modo limitato ha anche lo scopo di evitare che alcuni Paesi confinanti con la Russia si allarmino oltre il dovuto fino a un allargamento del conflitto. Questa tipologia di guerra localmente circoscritta è tesa inoltre al logoramento dell’Occidente, e segnali in questo senso se ne vedono un po’ dappertutto in Occidente, non solo negli Usa, ma anche in Europa, nella Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna come in Italia, per citare solo i Paesi più importanti. Una conduzione militare, perciò, funzionale all’intensa attività politica e diplomatica dei russi e dei cinesi, volta al consolidamento dei loro rapporti di amicizia con il Sud del mondo. Il risultato è che non è la Russia ad essere isolata ma è l’Occidente che è sotto assedio. Un dato questo del tutto evidente nella partita delle sanzioni economiche in cui l’Europa è la prima a farne le spese. Chi avrebbe detto solo due anni fa che la Germania sarebbe entrata in recessione?

Mi si potrebbe criticare dicendo che sottovaluto il rischio di una guerra nucleare che causerebbe una catastrofe per tutta l’umanità. È senz’altro vero che se non ci fossero le armi nucleari la terza guerra mondiale sarebbe già scoppiata, quindi, rovesciando la questione, risulta evidente che le armi nucleari rappresentano oggi un deterrente molto forte, maggiore di quello che si è avuto nel passato, proprio perché non ci sarebbero né vinti né vincitori. Le grandi potenze lo sanno molto bene. Anche la possibilità di una guerra nucleare tattica in Europa è solo una trovata giornalistica: la risposta a una bomba nucleare tattica sarebbe una guerra nucleare mondiale che coinvolgerebbe anche gli Stati Uniti. Il primo missile nucleare russo non sarebbe lanciato sulle capitali europee ma su New York, e questo il Pentagono lo sa molto bene. Il rischio di una guerra nucleare non è quindi del tutto scongiurato ma resta un’opzione molto remota, poco probabile. Ecco perché la sconfitta militare della Russia, come del resto quella degli Stati Uniti, non può essere contemplata. Ecco perché i russi conducono in Ucraina una guerra a bassa intensità. Ecco perché gli Usa rispondono tentando di armare fino ai denti l’Ucraina in questa loro sporca guerra ibrida. Tutta la partita si gioca su tempi medio-lunghi, cioè si scommette su chi si logora per primo permettendo così di creare le condizioni per un cambiamento radicale di orientamenti politici nelle file dell’altro campo, anche se spesso si confonde questo terreno di duro confronto con quello della dialettica politica, anche molto vivace, che inevitabilmente si manifesta all’interno di ogni principale protagonista del conflitto.

Le premesse che hanno portato a un nuovo tornante della storia sono maturate negli ultimi vent’anni. Ne ricordo alcune.

– Gli esiti della cosiddetta Primavera araba, in particolare in Egitto e in Algeria con la nascita di governi, che dopo un iniziale sbandamento, si sono sempre più allontanati dall’Occidente e in forme diverse sono diventati alleati della Russia.

– Il fallimento del tentativo di destabilizzazione della Siria concluso con la riammissione della Lega Araba, con vivo disappunto degli Usa. Nell’intervento militare russo a sostegno di Damasco si evidenzia forse l’inizio della controffensiva russa.

– Il ruolo predominante che stanno assumendo in Medio Oriente potenze regionali come l’Iran e la Turchia, e in Asia l’India, l’Indonesia e il Pakistan.

– La situazione del tutto nuova determinatasi in America Latina in Paesi strategici per il Continente e nell’ Africa Equatoriale.

– Il tentativo di “rivoluzione colorata” in Bielorussia miseramente fallito.

– La crisi profonda del sistema politico, sociale e culturale statunitense che ha favorito l’affermarsi di una “anomalia” come Trump.

Ai fatti citati, che hanno fatto da presupposto a un cambiamento epocale, si devono aggiungere, non sottovalutandole, le ricorrenti crisi che si sono determinate in questo ventennio per effetto delle contraddizioni insanabili del capitale finanziario e la messa in discussione dell’Opec, in particolare da parte dell’Arabia Saudita, del sistema del petrodollaro su cui gli Usa per anni hanno fatto leva, dopo la messa in discussione degli accordi di Bretton Wood voluta da Nixon, per riaffermare l’egemonia della loro moneta (sempre più carta straccia, senza nessun valore) a livello globale. Tra l’altro oggi è proprio la Russia, che lavora in forte intesa con i Paesi arabi, con i sauditi in primo luogo, ad esercitare un ruolo guida dell’Opec.

Ho per sommi capi ricostruito gli scenari mondiali che hanno portato alla situazione di guerra tra l’Occidente e la Russia per giungere al vero nodo di questo mio intervento: la debolezza, persino la fragilità, del movimento per la pace nonostante gli appelli di intellettuali o di personalità preminenti come Papa Francesco. A questo proposito occorre chiedersi cosa sta accadendo nel mondo cattolico e più specificamente nella Chiesa. Il Pontefice dichiara “che non è il cappellano dell’Occidente” e prende una posizione molto coraggiosa sulla guerra in Ucraina, mosso veramente da una visione ecumenica di capo mondiale del cattolicesimo. Ma in Occidente il grosso dell’establishment che si riconosce nella religione cattolica, politici, giornalisti, manager, banchieri, intellettuali, persino una parte del clero semplicemente lo ignora. Per la prima volta nella storia moderna della Chiesa la parola del Pontefice, non più posizionato sulla scelta della difesa dei valori dell’Occidente, è inascoltata, è di fatto respinta. Non so cosa avverrà nei prossimi anni, se tale frattura nel mondo cattolico sarà ricomposta o meno, ma oggi ha una forte ricaduta politica negativa. Con Giovanni XXIII una parte importante del mondo cattolico in Occidente era spinto a impegnarsi per la pace, a essere parte integrante del movimento pacifista. Oggi, nonostante gli accorati appelli del Papa, buona parte dei cattolici non si sentono coinvolti nella lotta per la pace, come a dire la politica è una cosa e la religione è altra. Dunque, siamo cattolici ma la politica mal si sposa con le idee del Papa.

Un ragionamento simile può essere fatto per la sinistra europea e per i democratici. Se si è subalterni all’ideologia liberale, in cui forte è oggi la componente laicista (non laica, attenzione!) diviene allora difficile trovare il nesso tra lotta per la pace e la lotta per un nuovo ordine mondiale. Sono tutte forze che a parole si dichiarano per la pace ma in pratica dànno tutto il loro sostegno alla guerra Usa e Nato in Ucraina. Imbevute spesso di un ideologismo laicista, tronfio di banalità sui diritti civili, sulla libertà e la democrazia – come se l’Occidente avesse le carte in regola per dare lezioni a tutti – in nome di questa ideologia laicista, espressione del dominio del capitale finanziario e di una nuova borghesia con esso affermatasi, sostengono la scelta di campo occidentale. Hanno rimosso tra l’altro la storia, omettendo che il cosiddetto modello liberale in Europa e negli Usa si è potuto affermare poiché ha praticato per secoli una politica di rapina (anche tramite lo schiavismo) nei confronti del Terzo Mondo. Se tale politica si indebolisce, e oggi è sempre più evidente questo processo, allora il modello liberale entra in crisi e diviene autoritario nella forma di un regime a-democratico. A questo processo si accompagna l’evidenza che l’ex Terzo Mondo si sta ricollegando al filone politico e culturale del marxismo e del leninismo.

Marx per primo pose la questione coloniale, relegata poi in un angolo dalle socialdemocrazie, ripresa con forza da Lenin e dalla Russia dei soviet e infine rilanciata da Stalin e l’Unione Sovietica ne fece uno dei cardini della sua politica internazionale. Oggi tale aspetto è stato mirabilmente ripreso da Putin. Con questo non intendo affermare che Putin sia un comunista, ma l’attenzione alla questione coloniale (che oggi riguarda l’emancipazione del Sud del mondo dalle politiche di rapina dell’Occidente) rimane una bussola di orientamento ieri dell’Urss e oggi della Russia. È un dato politico ben percepito da molti Paesi del Sud del mondo, ben consapevoli che i conti per il loro passato di sfruttamento devono farli non con i russi (e direi neanche con i cinesi) ma con gli anglosassoni, i francesi, i tedeschi, gli spagnoli, gli italiani e via dicendo.

A sinistra hanno una certa influenza anche alcune tesi che sono fuorvianti nel migliore dei casi, e nei casi peggiori sono invece maliziosamente costruite dalle centrali imperialistiche. Sono quelle che definiscono la guerra in Ucraina “guerra capitalista”, “guerra imperialistica” o “tra due imperialismi”, o avanzano analisi geopolitiche superficiali come quella che le tre grandi potenze, Usa, Russia, Cina sarebbero degli imperi e pertanto ragionino come tali. Concetti come questi non aiutano a costruire quel nesso tra lotta per la pace e lotta per un nuovo ordine mondiale, anzi disorientano. Se un negoziato per porre fine alla guerra è oggi un obiettivo difficilmente raggiungibile in quanto spazi per una trattativa attualmente non ce ne sono, è evidente che un movimento per la pace che si attesta su un generico pacifismo, “né con gli uni né con gli altri”, non farà molta strada.

L’equidistanza poteva avere grandi margini di manovra durante la “guerra fredda” quando nello schieramento dei non allineati confluirono in una certa fase addirittura un centinaio di Paesi. Anche in Italia il movimento per la pace negli anni Ottanta si caratterizzò come equidistante e il Pci di Berlinguer fu uno dei grandi artefici di quel movimento di massa. Ma anche un movimento equidistante allora era considerato positivo dai sovietici in quanto, in ultima istanza, poteva essere ricondotto alla proposta della “coesistenza pacifica” per imbrigliare le posizioni oltranziste della Nato e degli Usa.

Questo ci dice la storia. Gli scenari attuali sono invece totalmente diversi. Prima la sinistra europea, o per meglio dire ciò che di essa rimane e che non ha abbandonato una prospettiva rivoluzionaria, uscirà dagli schemi novecenteschi e prima sarà in grado di ricostruire un progetto politico di massa per la trasformazione. E tra gli schemi obsoleti, da abbandonare al più presto, c’è quello che riguarda il modo di concepire la lotta per la pace. Se la sinistra non abbraccia la battaglia per un nuovo ordine mondiale, che non si prospetta come un pranzo di gala, ma richiede un costante impegno politico, allora sarà irrimediabilmente destinata alla sconfitta, sia In Italia sia in Europa.

Tutti gli sforzi generosi per far vivere un movimento per la pace sono ovviamente da sostenere, compreso il referendum contro l’invio delle armi in Ucraina, ma sono momenti tattici, di corto respiro. Attualmente la necessità politica risiede nella scelta di campo: o si sta con chi vorrebbe un ordine unipolare dominato dagli Usa o si sta con chi invece è per un ordine mondiale multipolare la cui realizzazione passa oggi attraverso la sconfitta politica, economica e militare.

Nella storia è già accaduto. Nella Prima e poi nella Seconda guerra mondiale la sinistra precipitò in una crisi profonda e si rialzò grazie all’impegno generoso, teorico, politico e organizzativo di avanguardie rivoluzionarie. Se la sinistra non ripensa sé stessa muore; è fondamentale riproporre oggi la dedizione e la passione di nuove avanguardie. Senza questo lavoro non ci sono prospettive.

 

Alessandro Valentini

(Fonte: Rete Ambientalista, Sinistrainrete)

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