Scatenano la forza ma è solo impotenza

Il diritto internazionale è in crisi, la Carta dell’ONU offesa, il Principe è di nuovo sul trono, ma il mondo ridotto a un solo Impero è inverosimile, possono distruggerlo ma non dominarlo. Le speranze sono intatte

Possono i popoli, minacciati da mille pericoli e braccati da mille poteri, chiedere la salvezza al diritto, quando perfino la sentenza di una Corte di Giustizia internazionale, formalmente riconosciuta, come quella dell’Aja, che ha condannato gli Stati Uniti per aggressione al Nicaragua, resta lettera morta, e il Nicaragua non è oggi meno minacciato di prima? Certo, il diritto non è tutto, eppure la battaglia per il diritto, per un diritto che sempre più si faccia strumento di giustizia, ha accompagnato tutto il cammino dell’incivilimento umano.
È in questa vicenda che va collocata e ricordata la data del 4 luglio 1976, dieci anni fa, quando veniva proclamata ad Algeri la “Dichiarazione universale dei diritti dei popoli”, su iniziativa di Lelio Basso e di esponenti di Stati, di popoli, e di movimenti di liberazione di tutto il mondo. Non si trattava di un’impresa improvvisata: vi confluiva tutta l’esperienza dei Tribunali Russell I e II, sul Vietnam prima e sull’America Latina poi, e delle altre iniziative giuridiche e politiche che negli anni avevano cercato di enucleare e difendere un diritto dei popoli accanto e di fronte al diritto degli Stati; e vi si rispecchiava naturalmente tutta l’esperienza di lotta dei popoli che avevano cercato e cercavano di affermare se stessi anche contro gli ordinamenti istituiti nel lungo e faticoso esodo dalla notte del colonialismo.
La novità stava nel fatto che mentre fino ad allora si era parlato di diritti dell’uomo, come supremo vaglio critico del diritto degli Stati, e spesso tali diritti dell’uomo erano stati riferiti a un uomo assunto nella sua individualità e astrazione, che non esiste da nessuna parte, qui invece si faceva riferimento al diritto di uomini e donne storicamente congiunti e insieme organizzati, identificati in popoli, assunti nella loro diversità e riconosciuti nella loro eguaglianza per dignità e destino; e di questo diritto dei popoli si faceva il vaglio critico del diritto degli Stati e del diritto internazionale.
L’altra novità era che, rompendo gli indugi, i promotori della Dichiarazione d’Algeri, pur privi di poteri e di una formale rappresentanza, si assumevano una funzione di supplenza e definivano in sede costituente i diritti fondamentali dei popoli, dando così voce a popoli ancora senza voce e prefigurando e anticipando quella che un giorno potrebbe essere una vera e propria Costituente dei popoli.
I diritti proclamati dalla “Dichiarazione universale di Algeri” erano il diritto all’esistenza (non solo fisica ma anche nell’identità nazionale e culturale), il diritto all’autodeterminazione politica (ivi compresa la libertà democratica del regime interno), i diritti economici, il diritto alla cultura, il diritto alla tutela dell’ambiente e all’uso delle risorse comuni, il diritto dei popoli a essere salvaguardati come tali anche quando siano in condizioni di minoranza in entità statuali più ampie.
Dall’iniziativa costituente di Algeri, sempre sotto l’impulso creativo di Lelio Basso, nascevano tre istituzioni internazionali: la Fondazione internazionale per il diritto e la liberazione dei popoli, la Lega con analoghe finalità ma con prevalenti caratteristiche di militanza di base, e il più noto Tribunale permanente dei popoli, che ha il compito di dichiarare e applicare il diritto dei popoli (sia pure senza alcuna forza coattiva) ai casi concreti (come ha fatto per le Filippine, l’Argentina, il Salvador, l’Eritrea, l’Afghanistan, ecc.).
Quando dieci anni fa si avviò questa impresa, sembrava che proprio in questo senso si muovesse la storia: l’imperialismo era in crisi, il Vietnam aveva vinto, la distensione era in corso, e perfino in Italia sembrava aprirsi un’epoca nuova.
Ma oggi? Il bilancio dei dieci anni è assai negativo. Sono stati dieci anni di restaurazione: le maglie del dominio si sono tornate a stringere, i processi di liberazione sono stati bloccati, la corsa al riarmo è stata ripresa, la soglia della militarizzazione dalla terra allo spazio è stata varcata, e così la soglia di nuove armi non convenzionali, quelle invisibili e ad azione istantanea (le armi a energia); non solo si è cercato di restaurare i vecchi imperialismi, di un mondo ancora bipolare, ma si cerca di affermare un imperialismo di tipo nuovo, planetario, che agisce mediante diversi e interconnessi circuiti di potere, la tecnologia, la cultura, la lingua, il dollaro, il commercio, gli “aiuti”, l’ideologia, la religione, e brandisce, come arma strutturante e decisiva, la potenza militare; è l’imperialismo di un unico impero, nel quale il mondo “altro” non tanto è conquistato quanto assorbito, non tanto sconfitto quanto assimilato, non occupato militarmente ma sempre e comunque posto sotto l’ombra minacciosa di uno smisurato tallone militare.
È il sistema di guerra, nel quale non c’è posto per il diritto dei popoli, ma non c’è posto nemmeno per il tradizionale diritto internazionale, quello corporativo, contratto tra Stati; e infatti il diritto internazionale oggi è in crisi, la Carta dell’ONU travolta, il principio di maggioranza alle Nazioni Unite irriso, la Corte dell’Aja ricusata, i trattati esistenti sono considerati impotenti e obsoleti; il Principe è di nuovo sul trono, l’Occidente riscopre Machiavelli, mentre l’America, che non conosce Machiavelli, da Repubblica si trasforma in Sacro Impero.
Dunque l’orizzonte è oscurato e molte illusioni sono cadute. Ma attenzione: questo è relativo solo alla severità dell’analisi, non significa affatto pessimismo della prognosi. Infatti le speranze sono accese, il futuro è ancora da giocare. I popoli non sono rassegnati, il mondo ridotto a un solo Impero è inverosimile, il Nicaragua è ancora lì, le armi più sofisticate si accecano e sbagliano persino il bombardamento di Tripoli, le centrali nucleari si rompono; e la forza, più presume di se stessa, più svela la sua ultima impotenza, mentre anche qualcuno tra i grandi parla ormai non più di dominio, ma di interdipendenza, di cooperazione, di un mondo dove nessuno può più risolvere i problemi da solo, ma tutti devono preoccuparsi della vita di tutti. Questi sono i segni, le anticipazioni del futuro; chi ancora agita scudi e corazze e lance, anche invisibili, chi brandisce l’ascia, sta nel passato, non è ancora uscito dalle caverne, può forse distruggere il mondo, non certo dominarlo.
Dunque la partita del diritto dei popoli non è chiusa. Anzi, proprio adesso comincia, e la vittoria è tutt’altro che preclusa.

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