Benvenuti a tutti e a tutte alla giornata che inaugura la Scuola “Costituente terra”. Una presenza così numerosa è capace di mettere a tacere ogni atteggiamento che scetticamente, ma anche irresponsabilmente, releghi nell’utopia o nell’astrattezza di inattuabili teorie, o nella visionarietà del sogno, un’idea come quella che oggi viene non solo illustrata, ma avviata, grazie alla volontà persuasa e alla scienza di personalità eccezionali, per cui in particolare rivolgo un saluto pieno di gratitudine ai relatori senatore Raniero La Valle e al prof. Luigi Ferrajoli, li ringrazio oltretutto per avere scelto una biblioteca, questa biblioteca, per presentare un progetto tanto ambizioso quanto necessario e urgente.
E’ infatti altamente significativo che prenda corpo in una “biblioteca storica di conservazione” (come tradizionalmente venivano chiamate le biblioteche di ricerca) un progetto di tale rilevanza che investe i piani della salute, dell’ambiente, dell’economia, della scienza, dell’educazione, dell’istruzione, all’interno delle istituzioni e della teoria del diritto facendo leva sull’esercizio del pensiero critico, dell’etica e della domanda di giustizia per tutti. Un progetto le cui tre direttrici, in sintesi, mi sembrano essere la cultura, la cura, la politica, declinate non più su scala soltanto nazionale ma globale, poiché, così come questi diversi piani vanno ricompresi in un sistema integrato di teorie e di pratiche per sperimentarne l’efficacia, così non hanno alcuna possibilità di produrre senso e benefici reali senza essere applicati a un mondo definitivamente globalizzato.
Del resto, a pensarci bene, dove, se non in quell’istituzione che è la biblioteca pubblica, cittadini e associazioni dovrebbero incontrarsi per studiare, pensare, creare i presupposti di volontà e azioni indirizzate al bene comune; dato che nei secoli di formazione degli Stati moderni la biblioteca si è assunta, il compito di allargare, in via di principio, a tutti il privilegio di accedere alle informazioni e alla conoscenza che era di esclusiva pertinenza delle élites della Repubblica delle Lettere per tutta ladurata dell’Ancien Régime.
La Biblioteca di Alessandria
Le biblioteche di conservazione, oggi, dopo gli ultimi due secoli dedicati alla tutela e alla conservazione per l’appunto, dopo un secolo impiegato a garantire il massimo accesso pubblico contribuendo a creare la sfera della opinione pubblica, dopo mezzo secolo dedicato alle cerimonie della valorizzazione, è bene che scoprano una loro nuova ragion d’essere nell’opera di mediazione richiesta da una realtà sempre più complessa e inafferrabile, recuperando una funzione che, in realtà – lo abbiamo dimenticato – appartiene loro fin dalle origini al tempo stesso mitiche, ma altrettanto reali e concretamente fondate della Biblioteca di Alessandria, che era biblioteca e museo insieme, ovvero un tempio consacrato alla conservazione dei testi, ma anche e soprattutto alla loro traduzione, di ogni provenienza e in tutte le lingue conosciute; il mondo era connesso e il suo laboratorio era la biblioteca che diventerà il modello di ogni futura biblioteca, avendo oltretutto insegnato che l’universalità di cui faceva pratica non si limitava alla conservazione dei sacri testi o della scienza aristotelica, ma includeva e etichettava finanche le ricette di cucina. I sopraffini bibliotecari come Callimaco e Apollonio Rodio inventarono la scienza filologica che ha permesso all’Europa di riconnettere la sua civiltà tardomedievale alle acquisizioni filosofiche, politiche, letterarie del pensiero e dell’arte classica, oltrepassando le pareti dei monasteri, riconoscendo la storicità di quelle acquisizioni, favorendo, per l’appunto, l’umanesimo.
Confusa con la Biblioteca di Babele di borgesiana memoria divorata nei vortici dell’infinito negativo, la Biblioteca alessandrina è invece, al contrario, quanto di più concretamente organizzato si possa pensare in termini di conservazione, fondazione e produzione del sapere. Non di un solo popolo, di una sola civiltà, ma di tutte quelle al tempo conosciute. La pratica della traduzione, traduzione di tutti i libri che arrivavano con le navi al porto, è stato quanto di più straordinario, in termini di trasmissione del pensiero e della cultura, gli uomini abbiano potuto concepire e realizzare.
Non avrei nominato la Biblioteca di Alessandria e non ne difenderei la natura concreta e laboratoriale che ebbe, (oltre naturalmente a quella sacrale, e oltre al mito della biblioteca universale e perenne che pure ha alimentato), se proprio con Raniero La Valle non ne avessimo parlato ritenendola una indicazione forte per la raccolta di testi fondamentali di servizio alla Scuola di cui si intende ragionare. “Disimparare l’arte della guerra” – uno dei motti dell’Appello – richiede, come ogni disciplina, una solida bibliografia di partenza; figuriamoci un processo di apprendimento interminabile come è quello richiesto dalla azione pacifista!
Ora, cominciando proprio dall’incipit dell’Appello di Raniero La Valle che cito: “L’Amazzonia brucia e anche l’Africa, e non solo di fuoco, la democrazia è a pezzi, le armi crescono, il diritto è rotto in tutto il mondo. Il mare è tomba ai naufraghi, la temperatura aumenta e il deserto avanza”, questo incipit, che ho in parte ridotto, quanto mai vibrante nella sintesi che inquadra la nostra realtà storica mi ha fatto pensare per la sua icasticità a un famoso quadro di Rubens: “Le conseguenze della guerra” realizzato tra il 1637 e il 1638, in piena guerra dei Trent’anni, forse la più devastante che l’Europa ricordi – in cui in forma allegorica, ma senza lasciare spazio ad ambiguità il grande artista nonché coltissimo diplomatico, denunciava gli orrori della guerra. E dove sorrette da una iconografia di ispirazione mitologica e classica campeggiano le personificazioni dell’Europa in lutto invocante la pace, della dea Venere che nulla può contro il dio della guerra, delle personificazioni della Discordia, delle Furie, dei mostri che simboleggiano la Peste e la Carestia, il massacro degli indifesi, la distruzione delle Arti.
Una scena di grande spettacolarità drammatica in cui l’artista non tralascia di considerare nulla di quanto la guerra causa: nel dipinto si possono notare anche i libri calpestati dal furore cieco del dio (della guerra), mentre il liuto che era simbolo per eccellenza, nell’Europa moderna, della concordia e della pace generatrici delle arti, il liuto è rotto. Le arti sono travolte e annientate a indicare che la guerra non solo causa morte e distruzione, miseria e malattia ma spezza la civiltà stessa, annichilisce l’uomo la storia e la sua capacità di raccontarla.
E faccio qui un inciso per tornare dal secolo diciassettesimo a una conferenza che si è tenuta qui in Vallicelliana organizzata in collaborazione con l’ISMEO – Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’;Oriente – e con l’Istituto di cultura iraniano alla presenza dell’ambasciatore iraniano, in cui gli studiosi italiani si sono schierati a difesa dell’immenso patrimonio culturale (ben 24 i siti iraniani patrimonio culturale Unesco!) che Donald Trump ha minacciato di distruggere, considerandolo un legittimo obiettivo militare. Ricordo che in quella conferenza è stato sottolineato come le rappresaglie ipotizzate da Trump sono talmente assurde che non sono nemmeno ricomprese fra le possibili minacce elencate nella Convenzione Unesco del 1972 per la protezione del patrimonio mondiale. In altre parole, le distruzioni promesse dal presidente americano non sarebbero diverse dalle devastazioni operate dall’ISIS in Iraq e Siria, e, prima ancora, daiTalebani in Afghanistan.
E a questo proposito mi verrebbe da chiedere a Luigi Ferrajoli se fra quelle che lui individua e chiama “funzioni di garanzia primaria” non si potrebbero includere accanto al diritto alla salute, alla tutela dell’ambiente e all’istruzione forse anche la tutela e la fruizione del patrimonio culturale per quanti vi aspirano o vi potranno in futuro aspirare, cioè per tutti e per tutte..
Sempre a proposito del seminario originato dal gesto di Trump va anche detto che la sua organizzazione è stata decisa all’interno di molte cautele, poiché, data la presenza probabile dell’ambasciatore, che poi c’è stata, una conferenza di profilo scientifico rischiava di configurarsi, o di essere strumentalizzata, anche come presa di posizione politica. Tuttavia rinunciarvi avrebbe significato restare prigionieri di logiche interne all’”arte della guerra” che invece vogliamo “disimparare”. L’opzione contraria, “non disimparare la guerra”, è stata invece scelta da tutti i maggiori quotidiani nazionali e da tutte le TV che hanno ritenuto di non dedicare neanche una segnalazione in cronaca a un approfondimento tanto determinante per le sorti del patrimonio mondiale dell’umanità. Quell’assordante silenzio di stampa e TV non è stato un buon segno sul piano delle garanzie, così come in questi giorni non è un buon segno lo scatenamento dei mass media nei confronti dell’”untore” cinese.
Ma torniamo nuovamente al Seicento. La posizione di Rubens era tutt’altro che isolata in Europa, apparteneva certamente alla élite di quanti intrecciavano relazioni e pratiche fondate sull’idea di una patria comune agli uomini coltivatori delle lettere e delle scienze. Una sorta di cooperazione tra dotti le cui coordinate andavano convenzionalmente da Erasmo a Voltaire, mentre quelle spaziali non avevano confini, e che aveva nella locuzione “Repubblica delle Lettere” la sua residenza ideale, e nelle università, nelle accademie, nelle botteghe dei librai, nelle fiere internazionali dei libri, nello scambio epistolare, nei viaggi, nella conversazione erudita, e nelle biblioteche le sue stazioni e il suo movimento reali. Tutti costoro credevano nell’universalità delle idee e ricercavano la pace. Lo avevano imparato dagli umanisti italiani, primo fra tutti l’autore del più importante testo dell’umanesimo: il celebre Discorso sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico della Mirandola, un pilastro della modernità che in poche mosse fonda l’uomo e lo consegna ai mutamenti della sua volontà, delle sue diverse determinazioni e della storia.
Dopo che negli ultimi due anni questa biblioteca ha realizzato letture pubbliche collettive e integrali del Manifesto di Ventotene di Spinelli, altra opera utopica scritta sotto le bombe, e della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, più recentemente, ci siamo dedicati a un ciclo di incontri intitolato “L’ordine e l’inquietudine”, muovendo proprio dal secolo della Controriforma, del barocco e della dissimulazione, ma anche della crisi della coscienza europea secondo la fortunata formula di Paul Hazard; ce ne siamo occupati perché è il secolo che inquadra le epoche storiche di fondazione di questa biblioteca e delle sue prime e principali acquisizioni bibliografiche, ma ci siamo sentititi via via sempre più attratti, anche per cogliere la lunga traiettoria dell’origine stessa della biblioteca pubblica, da un discorso che affrontasse i principali temi della modernità, a partire proprio dall’umanesimo e dal suo ruolo imprescindibile nella formazione di una identità europea, che è molto più ampia e differenziata di quanto le riconosciute origini giudaico-cristiane e greco-romane già di per sé non facciano.
E chi più e meglio di Giovanni Pico, può illuminare la nostra coscienza di europei che intendono allargare oltre la stessa Europa il discorso dei diritti fondamentali, della pace, della salvaguardia dell’umanità e della terra? La famosa Orazione che introduce (o meglio, che avrebbe introdotto perché fu pubblicata postuma) le 900 tesi di Pico, integra e valorizza saperi disparati (nel senso che è il frutto dello studio e delle traduzioni dei testi che esprimono i saperi di dottrine e civiltà diverse, la caldea, la greca, l’araba, l’ebraica, compresa la cabala, la cristiana) e quindi offre una visione della stessa storia umana ricchissima e differenziata, oltre le angustie di qualsiasi tradizione. Laddove le traduzioni non sono affatto e soltanto un trasportare da una lingua all’altra, nulla di meccanico, ma ogni volta una rifondazione di tradizione e pensiero, sono il lavoro della filosofia che punta alla pace, non all’annullamento delle differenti teologie e tradizioni e neppure alla giustapposizione, ma al dialogo delle dottrine.
Il logo e il genocidio degli Armeni
Sia ben chiaro che non ci troviamo nei campi dell’erudizione, dell’antiquaria, dell’esperienza meditativa o della magia come in passato e anche oggi in qualche caso si pensa a proposito di Pico, ma di un preciso disegno morale e politico. Il suo autore intendeva andare da Firenze a Roma e discutere in un Concilio di dotti le sue tesi, le 900 conclusiones che miravano alla necessità di contemplare tutte le dottrine, religioni, della teologia e della filosofia, del diritto e della scienza, dei saperi degli Arabi, dei Caldei, dei Greci, degli Ebrei, dei Cristiani, non per ridurre tutto a uno, ma per comparare i diversi saperi e riconoscerne le differenze. Era questo il modo degli umanisti di intendere la pace vera, un dialogo serio e difficile.
“Disimparare l’arte della guerra”, quindi, e “che la storia continui”. Si tratta di stare all’interno di un processo di lunga durata che ha origine proprio nel ‘600, nel cuore di quella crisi della coscienza europea individuata da Paul Hazard in un felice saggio del 1935 in cui egli individua i presupposti di idee, di sensibilità e di pratiche che alimenteranno il secolo dei lumi e che contribuiranno all’esito rivoluzionario francese; l’unica rivoluzione al cui fallimento non abbiamo ancora assistito, tanto che i suoi principi – che poi sono quelli della nostra Costituzione – orientano anche un lavoro come quello che oggi ci si accinge a fare. Perché la storia continui e ne accolga, per la scuola che si vuole prefigurare, gli insegnamenti del pensiero della “lunga durata” che non solo è comprensione della storia dei popoli, ma il solco (sia quello scoperto, sia quello sottotraccia) in cui scorgere il vero progresso dell’umanità. Convinti che c’è più bisogno di storia che di memoria e che, per dirla con Paul Ricoeur , abbiamo diritto a una memoria felice.
Sul piano politico è necessario uscire dal conto delle vittime e provvedere a che non ve ne siano più. Mi sento di dirlo anche come discendente della diaspora armena, della terza generazione, certo finora la più fortunata. Lo dico con convinzione e ho molto apprezzato – anzi è stato un ulteriore richiamo che l’Appello letto sul Manifesto ha avuto su di me – che il logo del progetto di una Costituzione della Terra sia preso dalla miniatura di un manoscritto armeno e che così voglia alludere al primo genocidio del Novecento. Ma scegliendo una immagine che ribalta l’orrore del Metz Yeghern, del “Grande Male” – così gli Armeni chiamano il loro olocausto – lo rovesciano in una effige che “dice” la terra, che sia una miniatura che parli al tempo stesso della grande civiltà del libro e dei frutti della terra ( forse il melograno …), i quali sembrano germogliare da un libro refrattario alle fiamme.
Paola Paesano, direttrice della Biblioteca Vallicelliana
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