CHE FARE PER UNA VERA “TRANSIZIONE ECOLOGICA”

Cambiare paradigma e compiere scelte coerenti. La proposta di un’Agenzia dell’Acqua come bene comune da istituire a Milano

Nel testo che qui pubblichiamo sono contenute le posizioni e le proposte dell’Associazione “Laudato sì” di Milano, presieduta da Mario Agostinelli, sulla “transizione” o conversione ecologica redatte in forma di intervista in risposta alle domande formulate da Elisabetta Ambrosi per “Il fatto quotidiano” del 10 aprile 2021.

Premessa

L’associazione Laudato si’ – un’alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale si è costituita nel 2018 presso la Casa della carità di Milano, nonostante il suo percorso sia iniziato nel 2015, anno di pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune di papa Francesco e del vertice di Parigi sul clima (Cop 21). Obiettivo dell’associazione è promuovere l’idea di giustizia sociale e ambientale, di mitezza e solidarietà delineata dall’enciclica e fare del concetto di ecologia integrale il fulcro del proprio operato, avviando processi di formazione e autoformazione nelle scuole, sui posti di lavoro, nei territori.
Hanno partecipato all’intervista don Virginio Colmegna, Mario Agostinelli, Emilio Molinari, Daniela Padoan e Guido Viale, soci fondatori dell’associazione.

Partiamo dal presente, nel nostro paese. Per la prima volta esiste un ministero per la transizione ecologica-energetica all’interno di un governo, però, senza una visione ideologica condivisa e chiara. Sottrarre la transizione ecologica alla politica e qualificarla solo come processo tecnico facilita a suo avviso la conversione oppure rappresenta una sorta di paradosso?

Virginio Colmegna:
La questione ecologica non solo non va sottratta alla politica, ma nemmeno alla società nel suo complesso e nella sua essenza più profonda che riguarda il cambiamento culturale, etico e valoriale. Infatti non la dovremmo chiamare “transizione”, ma “conversione”, come fa il Papa nella Laudato Si’, perché è la soggettività di ognuno che deve mettersi in discussione. Etica delle virtù e riforme politiche non si escludono, anzi si condizionano reciprocamente. La concentrazione di potere e le diseguaglianze, cui anche la tecnologia contribuisce, necessitano di una nuova coscienza e di una nuova responsabilità istituzionale, non solo tecnica. Dalle macerie che ci lascia il virus dovremo ricostruire portando nella politica la cultura di pace, il rifiuto della guerra, la cura della salute non ridotta a mercato prestazionistico, l’accesso universale all’acqua, il ricorso a energie più pulite, la difesa dei beni comuni. Non sono solo utopie che scaldano i sentimenti e non incidono, ma punti di partenza vincolanti per un’umanità che vuole scoprire ancora il sorgere del sole. Governare la conversione ecologica vuol dire innanzitutto sottrarci alla logica imperante dell’individualismo esasperato ed egoistico, che lascia libero mercato al progredire delle diseguaglianze con un realismo violento che distrugge l’ecosistema.

In un importante articolo sull’Avvenire, avete indirizzato al ministro Cingolani alcuni rilievi critici. Li divido in due domande. Da un lato, c’è la critica all’investimento anche sull’idrogeno blu, il perseguimento della fusione nucleare, una generale decarbonizzazione troppo soft, anche in riferimento al tema dei sussidi fossili. Da questo punto di vista, quindi soprattutto energetico, come si potrebbe fare invece diversamente?

Mario Agostinelli:
In tutta la nostra riflessione, la questione del tempo che viene a mancare è determinante. Per limitare la crescita della temperatura occorre, da qui al 2030, ridurre della metà le emissioni annue di CO2. Nella relazione non c’è traccia di questa urgenza. La presunzione di arrivare alla “fusione nucleare” entro dieci anni e di mantenere rilevanti quote di metano nel mix energetico nazionale fino al 2050 non solo è in contraddizione con le richieste dell’UE ma oscura la necessità di passare dagli attuali 30 GW (solare più eolico) a 70 GW rinnovabili da installare entro il 2030. Questo implica un rilancio della manifattura italiana con più occupazione e la predisposizione di un sistema energetico decentrato aperto alle comunità territoriali. La cessazione di sussidi ai fossili va di pari passo con lo stoccaggio di idrogeno “verde”, l’unico compatibile con la cura del pianeta e la conservazione dell’acqua.

Sempre in quell’articolo, avete criticato il mancato riferimento agli allevamenti industriali, nonostante il riferimento alle diete vegetali, e alla riduzione dei consumi, come l’assoluta assenza della biodiversità. Qui entra in campo un fattore etico, che si lega anche al cambiamento dei comportamenti individuali. Perché secondo lei c’è così tanta reticenza ad individuare e segnalare scelte singolari che producono danni a livello ambientale, e al tempo stesso sostenerle a livello “sistemico”?

Daniela Padoan:
Diminuire o eliminare il consumo di carne porta benefici alla salute umana e del pianeta, ma non può essere solo una scelta individuale. Il governo deve togliere i sussidi alla zootecnia che non osservi rigorose misure di riduzione dell’impatto ambientale, a cominciare dal numero di animali allevati, e disincentivare l’importazione di prodotti che causano deforestazione. La tutela della biodiversità non si riduce però a quello che chiamiamo “bestiame”, animali prodotti come pezzi di un’industria crudele, ma implica affrontare la tragedia di aver ridotto la fauna selvatica del pianeta allo 0,01% della biomassa: una cifra prossima all’estinzione. Ci auguriamo che il nuovo ministero per la Transizione ecologica, che finora non ha dato l’impressione di aver scelto una rottura con il paradigma tecnocratico dominante e nemmeno con l’apparente neutralità degli interessi economici e produttivi in campo – basti guardare alle acrobazie “verdi” su industria militare, gas e petrolio – voglia cercare quella strada di riconciliazione della nostra comunità umana con la biosfera e il vivente, senza la quale non c’è “casa comune” ma solo, come papa Francesco ha scritto nella Laudato si’, «un deposito di risorse da sfruttare».
Questo implica cambiare stili di vita, modi di produzione e consumo, ma soprattutto ripensare l’immagine di noi stessi, segnata da una profonda rottura con le nostre radici, per abbracciare il nostro essere natura. Una strada che il ministro può imboccare affidandosi all’ottima Strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030.

La domanda si lega ovviamente alla vostra critica al Pil come unità di misura e all’auspicio di una “decrescita” o meglio di un benessere all’alternativo al paradigma della crescita. Perché, anche solo a livello semantico, c’è questo terrore da parte della politica a parlare di un modello alternativo di vita e consumo? Perché non passa anche l’idea che sia impossibile disaccoppiare pil e impatto ambientale?

Guido Viale:
Nessun automatismo lega più la crescita del PIL a un aumento dell’occupazione, dei salari, della salute, del benessere, della sicurezza; succede anzi il contrario. È certo invece il suo rapporto con produzione e vendita di armi, grandi opere inutili e devastanti, ricostruzioni malfatte su territori dissestati dall’intervento umano, cure mediche rese necessarie dall’avvelenamento del cibo, dell’acqua e dell’aria, oltre che da zoonosi. Ma è possibile la crescita dei PIL senza continuare a manomettere il nostro pianeta? Molti studi e l’esperienza di più di trent’anni dimostrano che non lo è. Senza un radicale cambiamento dei nostri stili di vita e delle produzioni che lo alimentano, la sopravvivenza della specie umana è a rischio.

Nel paradigma dell’associazione Laudato sì, clima, tutela della biodiversità, utilizzo delle energie rinnovabili etc sono strettamente legati ai temi della giustizia sociale, del lavoro dignitoso e protetto, dell’eguaglianza di genere, della protezione dei poveri e dei migranti. Questa visione oggi è del tutto assente dal parlamento attuale, ma è anche assente in alcune formazioni verdi in Europa. Ma forse, direi, è anche assente – di conseguenza – nell’opinione pubblica, dove il nesso tra “green” e il migrante che sbarca purtroppo non c’è. In che modo riuscire a far emergere questo legame fondamentale? Se un po’ il mondo sindacale l’ha capito, perché i partiti più a sinistra non riescono a utilizzarlo neanche a loro favore?

Guido Viale e Mario Agostinelli:
La connessione tra degrado ambientale e privazione dei più elementari diritti è ben presente agli abitanti della Terra che vivono sulla propria pelle le conseguenze dei cambiamenti climatici e della depredazione di risorse materiali e umane. Basti guardare ai milioni di sfollati e migranti ambientali, a contesti industriali come l’Ilva o alle tante “terre dei fuochi”. Questa enorme somma di sofferenze non è stata raccolta, nella sua importanza umana e nella sua valenza politica, dai partiti di ogni schieramento, che continuano a inseguire, con diverse modalità, il paradigma della crescita, trattando l’ecologia come un fastidioso ingombro o un rivestimento superficiale di cui fregiarsi. Nemmeno il sindacato ha saputo finora collocare dalla stessa parte lavoro e ambiente. Quella offerta da papa Francesco è, storicamente, un’occasione mai praticata dai partiti della sinistra né dai movimenti del Novecento: fare della consapevolezza ecologica il cuore di un programma politico-sociale che apra una nuova fase, tanto più necessaria oggi, di fronte alla pandemia.

Voce autorevole sul rapporto tra giustizia sociale e ecologia integrale è stata senz’altro quella dell’attuale papa, autore della nota enciclica Laudato sì. Sembra che oggi sia soprattutto il mondo cattolico quello capace di proporre una visione alternativa che parli a nome della tutela di tutti i viventi e unisca sociale e ambiente. Com’è maturata questa svolta nella Chiesa? Possiamo dire che a lungo è mancata, invece, una visione attenta all’ambiente, in favore di una totalmente antropocentrica (paradossale, in effetti)?

Virginio Colmegna:
La sintesi profonda tra giustizia sociale e giustizia ambientale, tra lotta alla povertà e impegno per una nuova ecologia e la cura dell’ecosistema è il tratto distintivo di un’enciclica, che – sovvertendo le solite modalità – è rivolta a tutti, non solo ai cattolici. La Laudato Si’ è nata dentro il contesto di una crisi epocale che stiamo vivendo e che è riassunta da quell’espressione, «Cultura dello scarto», elaborata dallo stesso Papa: non ci sono più gli sfruttati e gli oppressi, ma il paradigma tecnocratico e la ricerca di profitto facile e immediato hanno prodotto “scarti” e “avanzi”: persone escluse dalla società, semplicemente perché non servono. Questi meccanismi di povertà e diseguaglianze, insieme alla devastazione del pianeta dovuta essenzialmente alle stesse cause, sono la matrice dell’enciclica, che si ispira al Cantico delle creature di San Francesco dove già c’era una visione del Creato nella sua compiutezza. L’enciclica ci ha interrogati, reso inquieti e ci ha messo in ricerca, con un sussulto di umanità e giustizia sociale. Papa Francesco ci ha regalato una definizione bellissima rivolgendosi ai fratelli e alle sorelle dei movimenti e delle organizzazioni popolari: «Voi siete per me dei veri poeti sociali, che dalle periferie dimenticate creano soluzioni dignitose per i problemi più scottanti degli esclusi». Il Sinodo sull’Amazzonia, poi, è un ulteriore e straordinario riferimento di quella sintesi tra giustizia ambientale e giustizia sociale che ha portato all’attenzione mondiale la distruzione dell’ecosistema e il potere delle multinazionali. Tutto questo sconvolge anche la Chiesa, tanto che il cambiamento dell’enciclica non è che sia stato ancora assimilato da tutto il mondo cattolico. La Laudato Si’ viene citata, ma non sempre colta nella profondità di cambiamento strutturale che è richiesto. Perché dobbiamo cominciare, ognuno, dai propri stili di vita e di consumo.

C’è un altro rilievo che muovete al governo e alla politica. Ovvero quello di uno scarso coinvolgimento delle associazioni e della società civile proprio nel processo di trasformazione. Come questo potrebbe avvenire? Perché sarebbe fondamentale ascoltare il mondo associativo ecologista nella stesura ad esempio del Piano nazionale di resilienza e perché tanta resistenza nel farlo, nel nome di una visione tecnocentralizzata?

Daniela Padoan:
Questi temi dovrebbero entrare in modo rilevante nel processo educativo che riguarda una scuola aperta e diffusa, con il coinvolgimento del terzo settore, del volontariato e dell’associazionismo ecologista. La società civile è molto avanti, sia nelle elaborazioni teoriche che nelle pratiche sui territori, ma non ha sponde istituzionali. Occorre fare tesoro della miriade di esperienze che riguardano la riconversione produttiva, il riciclo, l’agricoltura e la piccola imprenditoria biologica in cui lavorano anche persone migranti. È sui territori – non chiusi in se stessi ma connessi a reti sovranazionali – che si creano comunità capaci di ecologia integrale. Quanto ai motivi della resistenza a coinvolgere la società civile, basti pensare al modo surrettizio in cui potrebbe essere introdotta – a quanto risulta dalle relazioni definite e votate in questi giorni dalle Commissioni competenti – la destinazione di una parte dei fondi del Recovery Plan al comparto militare, “promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica”. Un paradosso inaccettabile.

Nei vostri documenti, così come nel libro “Niente di questo mondo ci risulta indifferente” c’è il timore di una catastrofe ecologica, i cui indizi d’altronde sono ormai visibili ai più. Il mondo cattolico, da sempre fautore della speranza, come si pone rispetto al dramma che emerge dai dati? Ci può essere una terza via tra una speranza un po’ di “deafult” diciamo, un po’ retorica insomma, e il catastrofismo paralizzante?

Virginio Colmegna:
Papa Francesco ha fatto il suo primo viaggio a Lampedusa e da lì parlò di «Globalizzazione dell’indifferenza», richiamando sentimenti di umanità e commozione di fronte al dramma delle vittime del Mediterraneo. Ecco, questo è un messaggio di speranza autentica. All’insorgere della pandemia un amico ha scritto: «Come accade sempre nelle grandi tragedie che trafiggono la storia, i credenti cominciano a domandarsi che fine abbia fatto Dio; gli atei o i non credenti cominciano a chiedere di pregare». Siamo tutti poveri di certezze, specie in questo periodo, ma tutti sentiamo una carica interiore che ci permette di dare un senso alla speranza che nasce dal sentirsi appartenere a un’umanità profonda, a un’unica comunità di destino che condivide la vita su questo pianeta. Da qui nasce la forza di radicare questa speranza dentro la quotidianità perché non possiamo vivere senza speranza, senza la capacità di prendersi cura, proprio in nome dei legami profondi e dei sentimenti forti che ci tengono insieme. Papa Francesco ci chiede di non lasciarci rubare la speranza. Allora non possiamo far altro che dare senso a questa speranza con la capacità di chiedere concretezza alla politica e di contrastare l’indifferenza.

In conclusione, quale indicazioni vi sentireste di dare rispetto a chi ci governa come filoni di azione fondamentali e urgenti? Sempre nell’articolo dell’Avvenire (bellissimo giornale, peraltro) voi parlate di riprendere in mano la legge di iniziativa popolare sull’acqua bene comune, acqua oggi minacciata anche dai tentativi di finanziarizzazione e, purtroppo, anche da un’ambiguità sulla sua natura di bene comune inalienabile. Quali altre misure/leggi sarebbero urgenti e necessarie (ius soli? Riduzione dei dieci anni per il reddito di cittadinanza agli stranieri? Altre misure si welfare?).

Emilio Molinari:
Dieci anni senza traduzione in legge di un risultato referendario non ha precedenti in nessun Paese democratico. L’Italia e l’Europa riconosca l’acqua un bene comune. Finora le direttive parlano di bene economico, per tanto da vendere e comprare, mettere in bottiglia e quotare in borsa. L’acqua è il primo vaccino, il primo presidio igienico sanitario da garantire a tutti. È necessario un grande investimento pubblico nella riparazione delle reti che perdono il 42% di acqua nei depuratori e nelle reti fognarie. Sarebbe una grande opera capace di generare lavoro. Milano deve aderire alle “città blu” che garantiscono l’accesso all’acqua e i servizi igienici indispensabili anche ai morosi, ai senza casa e alle comunità rom e sinte.
L’ex area Expo – con le università, le organizzazioni mutualistiche e di solidarietà – diventi sede di un’”Agenzia dell’acqua bene comune”.
Quanto alle altre misure, è urgente la messa al bando del glifosato, presente in tutte le falde e nei corsi di acqua, e un’indagine nelle aree metropolitane sul dilagare nelle discariche dei depositi di rifiuti tossici abusivi che inquinano acqua e aria.

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