Dopo una lunga gestazione e confronto, noi siamo qui oggi per fare una scuola. Ma non è solo una scuola, è anche un’antiscuola, Ivan Illich, di cui esce ora l’opera omnia in Italia ne sarebbe contento. Perché la scuola è fatta per insegnare e per imparare. Ma noi non vogliamo insegnare niente a nessuno, e quanto a imparare non sappiamo nemmeno se ci sono maestri per quello che vorremmo imparare, per quello che vorremmo sapere. Perciò dobbiamo cercare ancora .
Noi vorremmo sapere come si fa a salvare la Terra. Se ci fosse solo da salvarla dai terremoti, dagli tsunami, dalle inondazioni, dalle cavallette, dai virus, forse gli scienziati con la loro “scienza esatta” potrebbero arrivare a dirci come si fa, forse la tecnologia potrebbe approntare rimedi. Ma noi la dobbiamo salvare da noi stessi. Per salvarla da noi stessi non solo dovremmo imparare del nuovo, ma anche cessare di imparare dal vecchio; dovremmo smettere per esempio di imparare come uno può rubare i mercati dell’altro, come si può distruggere lavoro per far lavorare le macchine, come fare armi il cui criterio di perfezione è di essere sempre più letali. Dalle prime mitragliatrici, cinquecento colpi al minuto, usate nella prima guerra mondiale, alle bombe di Hiroshima e Nagasaki sono passati solo trent’anni . Abbiamo imparato troppo presto. Come dicevano i profeti, i popoli non dovrebbero più imparare l’arte della guerra, ma ormai questo non basta più, noi dovremmo disimparare quello che abbiamo imparato fin troppo bene, Abbiamo imparato guerre dove si muore da una parte sola, abbiamo imparato a uccidere con i droni, a decine di migliaia di chilometri di distanza, stando seduti a casa nostra, nei nostri Studi ovali, a goderci lo spettacolo in televisione, coi lustrini sulla divisa, pronte le bottiglie di champagne.
Uscire dalla dialettica
E per un’altra ragione la nostra scuola sarà anche un’antiscuola, perché una scuola è lì per trasmettere i saperi da una generazione all’altra, e dunque è un potente fattore di continuità, un mezzo di riproduzione della società così com’è, così come l’abbiamo ricevuta. Invece noi dovremmo trasmettere un sapere che ancora non c’è, perché col sapere che c’è la società che abbiamo ricevuto non solo non va bene, ma nemmeno può continuare. Prendete la dialettica, questa vetta della filosofia occidentale. Ci abbiamo fatto cattedrali e rivoluzioni, democrazie governanti e reti digitali, siamo tutti nipotini di Hegel. Ma lui è stato il primo a farci vedere gli effetti anche perversi della sua onnipresente dialettica, lui che estasiato salutava Napoleone come lo “spirito del mondo” quando a Jena lo vedeva uscire a cavallo in perlustrazione nella città occupata; lui, Hegel, che teorizza l’inferiorità degli Indios scoperti in America, e dice che sono quasi scomparsi al soffio dell’attività europea, e dice che sono inferiori a noi “perfino quanto a statura”; quello stesso Hegel, filosofo dello Stato prussiano, che celebra la guerra come “la salute etica dei popoli”, perché, dice, “come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione, nella quale lo ridurrebbe una quiete durevole”, così “vi ridurrebbe i popoli una pace durevole, anzi perpetua”.
Per questo ci vuole non solo una conversione dei cuori, ma una revisione del pensiero, di molto pensiero di cui pur ci siamo nutriti fin qui.
Quello che ora chiediamo al nuovo pensiero è come salvare la Terra, le sue acque, i suoi mari, l’asciutto, le foreste, i tramonti, “questa bella famiglia d’erbe e d’animali”, come è celebrata in un canto che, ahimé, ha per titolo “I sepolcri”.
Tutto questo ci preme, perché l’ecologia è giunta fra noi, e già da molti decenni, almeno dagli anni Settanta del secolo scorso, da quel profetico rapporto dell’ MIT e del Club di Roma che rivelò i “Limiti dello sviluppo”. Tuttavia noi non siamo creatori di mondi, perciò non tocca a noi preoccuparci se un mondo, sia pure bellissimo come questo, scompare dall’universo, dove sono altri milioni di mondi e lune e soli e comete che possono fare anche a meno del nostro. Ma a noi ci preoccupa la Terra, ci preme questa Terra qui, perché su di essa è fiorita la storia, perché essa è rigata dalle sofferenze e dal pianto della storia, perché su questa Terra c’è un’umanità dolente in cammino, che siamo noi, e perché su questa Terra ora pende un giudizio. Ma questo giudizio non è quello del clima. Questo giudizio è quello della decisione che noi dobbiamo prendere su noi stessi. Una decisione che non può essere lasciata nelle mani di questo o quel sovrano, di questa o quella City, di questo o quell’algoritmo di Intelligenze artificiali che non conoscono uomo.
Dobbiamo decidere tutti insieme.
La contraddizione della “cristianità”
Per fare questo dobbiamo superare due aporie, due strozzature proprie della modernità, che finora sono apparse insormontabili e che ora però possono essere rimosse, ed è per questo che oggi possiamo sperare di salvare la storia e passare all’epoca nuova.
La prima aporia o strozzatura è quella che ha sciupato la laicità facendone una controfigura dell’ateismo, mettendo fuori gioco il Dio che era stato dei padri. La laicità è stata la grande carta giocata dalla storia, è stata la decisione assunta dall’umanità, agli albori dell’età moderna, di prendere in mano il proprio destino. Questo comportava però, almeno per l’Europa, di uscire dal regime di cristianità che non lo permetteva, che non dava spazio all’età adulta del mondo, La cristianità è quel regime inaugurato da Costantino e instaurato da Teodosio che nell’intreccio di politica e religione ha dato forma all’ “idea di Europa“. Un’Europa che secondo lo storico austriaco Friedrich Heer, ben noto a papa Francesco, “intesa in senso stretto”, è l’ “Europa occidentale post-greca da Costantino a Hitler” . Ma poiché il regime di cristianità era il risultato, la proiezione di un Dio mal predicato, un Dio geloso dell’uomo, fautore delle guerre di religione e intralcio al progresso storico, era necessario o che questo Dio non ci fosse oppure, se si era credenti, bisognava fare come se Dio non ci fosse. La formula della laicità promulgata dal cristianissimo Grozio, fu perciò per i credenti quella di una finzione, di una ipotesi data per non vera, eppure obbligante. Tutto quello che abbiamo detto (il diritto), scriveva Grozio nel 1625, sussisterebbe ugualmente anche ad ammettere, ciò che pur sarebbe un’empietà, “che Dio non ci fosse o che non si occupasse dell’umanità” : “Etsi Deus non daretur”, lo diceva in latino, che voleva dire rinchiudere Dio nel privato e nel tempio: perciò si disse laicità ed era ateismo: perché un Dio ristretto nel tempio e nel privato, un Dio che non patisce, non è neanche un Dio. La Chiesa reagì con durezza, si arroccò nel rifiuto della modernità, fino al Concilio Vaticano II, e per parte sua continuò ad annunciare un Dio partigiano, che salvava gli uni e scomunicava gli altri, Dio fu quindi un fattore di divisione e di guerra, nella religione e tra le religioni, e l’unità umana non poteva essere pensata. Ma con il Concilio Vaticano II e ora con papa Francesco la Chiesa esce dal regime di cristianità, Dio è diversamente compreso e ad Abu Dhabi si giunge tra cattolici e musulmani a riconoscere che il pluralismo e la diversità delle religioni sono nel desiderio stesso e nel piano di Dio, la fratellanza umana è proclamata e perciò su questo fronte cade l’impedimento a un’umanità indivisa. La novità, dice il documento fondativo della nostra Scuola, è che adesso un popolo della Terra può esserci, può essere istituito; lo reclama la condizione del mondo, dilaniata da sovranità in lotta tra loro, lo reclama l’oceano di sofferenza in cui siamo immersi; lo consente e chiede un Dio diversamente percepito e annunciato. In tal modo laicità e ateismo non sono inseparabili, sono reciprocamente liberi, l’aporia viene a cadere, e paradossalmente diventa interesse anche dei non credenti che Dio non sia più mal predicato.
La contraddizione delle sovranità
La seconda aporia o strozzatura che ancora ci lega è quella per cui si è spodestata e infirmata la politica e sul trono si è messa l’economia, e anzi il danaro. Nel nostro sito c’è una pagina ad apertura di una delle aree tematiche della nostra ricerca, che pone la domanda cruciale: se a stare al di sopra di tutto, se a decidere della nostra vita, del nostro futuro, se a essere sovrana debba essere l’economia o debba essere la politica. Questo infatti è il grande dilemma dell’epoca della globalizzazione. Ebbene il logo, la fotografia che illustra questa pagina del sito rappresenta due pifferai, identici e giustapposti l’uno all’altro. Uno è vestito di un abito fatto di faccine che ridono, le faccine del whatsapp, l’altro è vestito di un abito fatto di faccine che piangono. E la didascalia che è anche il titolo dell’intera sezione tematica è: I due sovrani: il Mercatro o la Politica? Perché questa è la sfida; è come se dovessimo scegliere tra due sovrani: il Mercato, che poi vuol dire, a capitalismo vincente, che non c’è altra economia al di fuori di questa, o la Politica che poi, a democrazia non realizzata , vuol dire il dominio, lo scarto, la guerra.
Dunque quale sovrano scegliere, quale padrone? Istintivamente si sarebbe portati a dire che una delle risposte sia di destra, l’altra di sinistra. Economia o politica? Il problema però è che non si sa quale delle due sia il pifferaio delle faccine che ridono, e quale delle due sia il pifferaio delle faccine che piangono. Infatti sono simili. Questo vuol dire che la domanda è sbagliata. Spesso ci facciamo la domanda sbagliata, e questo è un guaio, perché solo le domande giuste ci portano a risposte giuste.
La domanda è sbagliata perché quei due pifferai non sono e non devono essere i nostri sovrani, i nostri padroni. Ambedue li dobbiamo deporre dai troni, non sono loro a dover possedere la terra, a doverne avere il dominio; bisogna stare attenti, perché Il pifferaio magico ci può irretire e portare alla morte, come ha fatto con i topi della favola, come fa l’economia che uccide, oppure il pifferaio ci può illudere, incantare, per farci uscire dalla città a correre dietro a lui, come ha fatto con i bambini della favola, come fa la politica quando strega le menti e indurisce i cuori per asservirli e prendersi tutto il potere.
In realtà economia e politica non sono i nostri sovrani, devono essere invece i nostri ministri, i nostri servitori. Noi siamo qui a un passo dalla casa di via della Chiesa Nuova 14 dove il giovane Giuseppe Dossetti con gli altri professorini ha scritto alcuni degli articoli più importanti della Costituzione italiana, e noi abbiamo qui tra noi due eredi di quella casa e tramiti di quella memoria, Grazia e Stefania Tuzi. Ebbene Dossetti, che mi piace ricordare in questo momento fondativo, in una relazione rimasta famosa ai giuristi cattolici su “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno”, ricordava che nella lettera ai Romani l’apostolo Paolo definisce i poteri pubblici come “diakonoi”, cioè come coloro che servono, e i poteri che imponevano i tributi destinati all’utilità comune, addirittura come i “liturghi di Dio”.
Dunque la politica e l’economia ci devono servire come strumenti e come risorse per la vita comune e il governo del mondo. Ci vogliono tutti e due, come servi fedeli, e ci vuole la loro unione virtuosa, che è l’economia politica.
Il popolo della Terra
Ma se non sono questi i sovrani, chi è dunque sovrano, chi sta sopra tutti e non riconosce altri sopra di sé? Le Costituzioni hanno detto che è il popolo. Ma questo va bene a casa propria. Se le case sono molte, anche i sovrani sono molti, come possono mettersi insieme, se ognuno ha la propria ragione, la propria ragion di Stato? I sovrani del passato hanno risolto la questione o col dominio degli uni sugli altri, o con i patti tra loro o con la guerra.
Ma man mano che il mondo si faceva più complesso, più appetibile e le ricchezze crescevano c’è stato sempre più dominio e più guerre, e guerre di grado in grado più grandi e mostruose. Oggi si è aperta la partita per il dominio non solo di questa o quella parte del mondo, ma del mondo tutto, i patti sono stracciati e la guerra di nuovo si fa mondiale ma, per ora, a pezzi, e non per questo è meno mostruosa, perché le armi ci sono e la guerra è ormai solo terrore.
A questo punto si scopre l’aporia, non si può non venirne fuori. Perché questo mondo di sovrani è divenuto impossibile. Non è possibile che uno si dichiari l’unico sovrano e voglia aggiudicare a sé un secolo intero, imporgli la sua divisa, e lo proclami come fece Bush il nuovo secolo americano. Non è possibile che uno si pretenda sovrano e decida per tutti che la crisi climatica non c’è, e così mandare a picco la terra. non è possibile che uno si dichiari sovrano sui fiumi, sulle foreste dell’Amazzonia, il polmone del mondo, e ne attizzi. gli incendi. Non è possibile che qualcuno pretendendosi sovrano decida dei ghiacciai della Groenlandia, dei fuochi dell’Africa, o decida che i Curdi non devono esistere, che gli Armeni non abbiano subito genocidio, che i Palestinesi non devono esserci. Non è possibile che un solo sovrano si faccia arbitro di come gestire una malattia invasiva, come mettere in stato di quarantena la Terra. Non è possibile che questo o quel sovrano chiuda i mari, intercetti i profughi, perseguiti i migranti e faccia passare sui social l’idea che meglio morti che sbarcati. Non è possibile che molti sovrani gareggino per colonizzare lo spazio per farsene scudo o base di lancio per la decisiva stoccata nucleare sulla terra.
Non è possibile, e sono proprio i sovranisti, i suprematisti, gli identitari, quelli che dicono “prima noi”, cioè “solo noi”, sono proprio loro, ed è paradossale che siano proprio loro, a dimostrare che questo turpe gioco dei sovrani è finito, che deve essere chiuso.
E l’aporia si risolve intronizzando un nuovo e tutt’altro sovrano. e questo sovrano è il popolo della Terra, che giunga ad unità, che si riconosca nella sua soggettività anche giuridica e politica, soggetto costituente del nomos della Terra. Non per mettersi sopra al mondo, per disporne in modo assoluto, per governarlo con editti e con armi e con leggi come facevano i vecchi sovrani. Non si tratta di un governo del mondo, ognuno deve continuare a governarsi da sé. Ma si tratta di una Costituzione del mondo, con il suo “non ancora” che deve diventare realtà, con i suoi principi universali e supremi, con i suoi strumenti di attuazione e istituti di garanzia; Ferrajoli ora ci dirà come si fa.
Non solo abitarla, ma amarla
Noi, come scuola, vorremmo aprirle la strada, perché il popolo della Terra possa continuare ad abitare la sua casa, l’oikόs, per questo si parla di ecologia. Questa casa, con i due pifferai al suo servizio, ha bisogno di qualcosa di più di una mano invisibile che ne amministri il mercato, ha bisogno di qualcosa di più di una politica che la governi, ha bisogno di qualcosa di più di una ragione scientifica che ne sveli i segreti e i processi, ha bisogno di essere amata. Finora abbiamo pensato di dominare, di abitare, di sfruttare la Terra; ora dobbiamo decidere di amarla; finora abbiamo pensato che la Terra portasse noi, qualunque cosa facessimo, qualunque ferita le arrecassimo; ora sappiamo che siamo noi che dobbiamo portare la Terra, e se non la portiamo, se non ce la carichiamo addosso, la perdiamo. Non basta essere i geologi, i geografi della Terra, dobbiamo esserne i geofili, gli amanti.
Perciò noi vorremmo che questa fosse una Scuola disseminata e diffusa, telematica e frontale, non una sola scuola, ma cento scuole, così come Walter Tocci ci ricorda che a Roma si inventarono le cento piazze per l’incontro dei cittadini. E anzi vorremmo che ogni casa diventasse una scuola, ciascuno maestro e maestra l’una dell’altro, e allora più che una scuola sarebbe una scholé, come si diceva in antico, ossia l’ozio operoso, il contrario del negozio, lo studio, il pensiero, la vita pienamente vissuta, la contemplazione, il Sabato, come diceva l’economista Claudio Napoleoni .
Ora questa Scuola è al suo esordio e già da questo pubblico, dalle diversità di luoghi e di culture qui rappresentate, sembra piena di vigore. Noi siamo arrivati a questo punto attraverso un cammino difficile, con pochissime forze, e non sappiamo come lo potremo fare ancora, in ogni caso non troppo a lungo. Ma non importa, perché quello che veramente speriamo è che questa Scuola ci sia tolta di mano, che molti altri se ne approprino e la moltiplichino, che diventi un’impresa comune, un principio speranza per tutti. Dovrete essere voi, nel pomeriggio, a dirci come continuare. Grazie.
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