IMMIGRATI, MA COME?

I brevi racconti di vita risultanti da interviste condotte sul campo sono testimonianze di sfruttamento se non addirittura di schiavismo. Ai casi registrati in Veneto seguiranno quelli segnalati in Toscana e in regioni del Sud.

I brevi racconti di vita che seguono sono stati realizzati nel corso dell’indagine condotta dall’Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di Flai Cgil), pubblicata a Roma nell’ottobre 2020, dalle Edizioni Ediesse Futura col titolo Agromafie e caporalato. Quinto Rapporto (coordinato da Francesco Carchedi e Jean Renè Bilongo). Sono racconti di sfruttamento, se non addirittura di schiavismo. Qui cominciamo con dei casi registrati in Veneto, regione ritenuta al di sopra di ogni sospetto. Seguiranno i casi registrati in Toscana, Campania, Puglia, Sicilia. Li pubblichiamo perché il problema dell’immigrazione nella percezione pubblica deve cessare di essere un problema di numeri, di statistiche, di decreti repressivi o di respingimenti e naufragi di massa, ma deve diventare un problema di singole persone, di questo o di quella, di chi viene dal Mali o dal Senegal, con un nome che però non può rivelare, perché nella civiltà di cui ci gloriamo al nome corrisponde un diritto, a cominciare dal diritto ad esistere per finire al diritto al lavoro e alla dignità, mentre questi immigrati non hanno alcun diritto e perciò il loro nome deve restare nascosto, altrimenti sarebbero ricacciati nel nulla e sostituiti da altri senza nome. In Italia. Si tratta di lavoratori agricoli che svolgono la loro attività nei campi o nelle serre in condizione di estrema precarietà, non solo economica ma anche sociale ed esistenziale. Economica perché le condizioni occupazionali sono molto dure, e sono ancora più dure perché l’orario di lavoro è molto ampio (in estate la media è di 10/12 ore giornaliere, in inverno di 8/10) e perché il salario oscilla dai 2 euro ai 5, a seconda dell’esperienza che il datore di lavoro attribuisce all’operaio. Sociale perché sono spesso emarginati, parlano poco la lingua italiana, hanno difficoltà di orientamento alla fruizione delle risorse territoriali e non sempre riescono ad avere la documentazione di soggiorno formalmente adeguata. Esistenziale perché, dato il basso salario e lo status giuridico fragile, vivono spesso con l’angoscia di essere intercettati ed espulsi dalle autorità. Queste tre dimensioni creano una condizione psicologica di accentuata vulnerabilità, una condizione di ricatto permanente, una docilizzazione voluta e da loro accettata per non perdere la possibilità di lavorare comunque.

Lettera di una bracciante

VOGLIO LOTTARE PER LA MIA VITA

E PER ALTRE DONNE CHE LAVORANO DI NOTTE

1

Sono una ragazza di 23 anni.
Mi chiamo: Carrozzo Annalisa.
Sono bracciante, di Oria
e oggi voglio dire alla gente
ciò che avrei voluto dire
da tanto tempo. Ogni giorno
che passava speravo tanto
che qualcosa cambiasse e
solo ora mi accorgo che fino
a questo momento non è cambiato
nulla, guardavo le persone
come me che lavoravano nei campi per
poter vivere e mi accorgevo
che se cera qualcosa che non
ci andava non siamo capaci
di dirlo e continuiamo a subire
e a sopportare per paura
di perdere il lavoro si a paura
delle minacce e non ci accorgiamo
di essere vittima ma io scrivo
fine e vi dico: cos’è la paura:
io non conosco più questa parola
e sapete perchè: perchè io
non potevo scegliere ma ce
chi a voluto che io continuassi
a vivere ma in quella strada
3 donne sono morte, lasciando
un grande vuoto si alzavano
la mattina presto e io come
loro per andare a lavorare
per poter avere i contributi
per l’indomani prendevano

2

solo 23 mila lire ora quelle
3 donne non ci sono più
lavoravamo con il freddo sotto
i geli e a volte con il sole che
bruciava e ora ma cosa e rimasto
di loro solo dei ricordi, e questo
perché, perche nessuno e capace
di fare nulla, si dice che la
legge e uguale per tutti ma
non ci puo essere legge se
qualcuno non a la forza di
lottare, io ci sto provando
da 3 anni e continuo a sperare
che altre donne non muoiano
tragicamente o vissuto
un brutto momento che non o
superato ancora e forse non
superero mai finche non avro
giustizia. Forse nemmeno tutte
queste parole che io scrivo
serviranno a niente perche
nemmeno scrivendo si possono
esprimere le cose che si provano
dentr, be io o perso
la mia migliore amica e anche
se io vivo e parlo e solo una
maschera perche in quel giorno
del 25 agosto del 93 sono
morta anche io con lei. Vi voglio
raccontare cosa ho provato
in quel momento: la mia mente
era nel vuoto e la mia vita

3

per me non era più vita era
come se il mondo mi fosse
caduto addosso non volevo piu
vivere volevo morire per
stare con lei non credevo più in
nulla non cera niente piu pe
me che valesse la pena di vivere
o passato tanti giorni nel vuoto
stavo seduta davanti alla sua foto
e fissavo quel volto e quegli occhi
e pensavo una ragazza che amava
tanto la vita e che ora non cera
piu, parlavo con la sua foto e
pensavo che lei un giorno avesse
risposto alle mie domande, o
continuavo a chiederle perché
mi aveva lasciata. Ora so che
quel volto mi ha fatto capire
tante cose che dovevo vivere per
lei e lottare affinche qualcuno
pagasse quelle colpe.
O assistito con coraggio
alla prima causa contro il caporale
che guidava e ogni volta
sentivo che mi mancava il respiro
ma la mia presenza li non e
servita a nulla nessuno ci a
chiesto niente nessuno ci a
interrogato nessuno a voluto
ascoltare cio che pensavamo
di chi ci sfruttava sono tornata
a casa ma non mi
sono arresa sono andata li
ancora per altre due cause
sempre con coraggio fino
a quando non o sentito la
parola assolto be in quel
momento il mondo mi e crollato
addosso e sono scappata in lacrime
non potevo credere che la vita
di una persona potesse valere
cosi poco e in quel stesso momento
la voglia di lottare era ancora

4

più forte quando pensavo a lei
voglio dire non vergognamoci
perche non dobbiamo giustiziare
nessuno ma dobbiamo lottare per
le cose che ci appartengono e io
penso che la vita ci appartiene e
le persone egoiste e cattive
come il caporalato non anno nessun
diritto di togliercela con le loro
parole, voglio lottare per la mia
vita e per quella delle altre
donne che si alzano la notte per lavorare.
Prima che accadesse questo per
me la vita era solo un gioco e ora
mi accorgo di una cosa se tornassi
indietro studierei legge perché
mi piacerebbe andare sempre
dalla parte della verita, perche
chi ti fa del male e ti fa paura
con delle brutte parole e solo una
persona come me ma che secondo me
a paura di noi perche sono dalla parte
del torto e basterebbe solo
una nostra parola per metterli
con le spalle al muro. io non mi
nascondo be no perche se cosi fosse
non avrei detto il mio nome
perche io non trasporto donne
contro la morte ma verso la
vita, io non faccio manifestazioni
per la strada e poi mi nascondo
ma parlo. Io mi faccio
vedere sempre, e non lotto solo per la mia
vita o solo perché mi sento ferita
ma per un futuro migliore,
io non chiedo una guerra ne una
rivoluzione ma l’unione per lottare
per noi stessi e poi per
poter respirare liberamente
con le persone che lottano
per migliorare le condizioni
delle donne che lavorano nei campi.

Dal Senegel al Veneto

NELLA BUSTA PAGA LE ORE NON RISULTANO

M. G. è un giovane proveniente dalla zona meridionale del Senegal, una zona dove ciclicamente si verificano conflitti sociali di rilievo tra indipendentisti e forze governative. Questa ampia area geografica si chiama Casamance ed è compresa tra il Gambia e la Guinea-Bissau (con capitale Ziguinchor). M. G. fugge a causa dei conflitti che si verificano nel territorio dove è situata la sua cittadina di residenza. Arriva dopo aver attraversato il deserto fino a Tripoli, dove resta intrappolato per circa 6 mesi (nella prima parte del 2016). M.G. nell’estate 2019 è ospite in una Casa di accoglienza nella prima periferia veronese, in quanto richiedente asilo. Lavora in agricoltura con altri amici, gestiti tutti da un caporale. La paga è sufficiente per vivere, poiché risiede nel Centro.

All’inizio M. G. cambia spesso aziende, poiché è il caporale che smista la sua squadra laddove è richiesta l’attività lavorativa. La paga è bassa, ma M. G. l’accetta ugualmente. Deve inviare soldi a casa ai genitori. Ha un permesso umanitario, in quanto non è riuscito a dimostrare la gravità dei motivi che lo hanno spinto alla fuga. Quindi lascia il Centro, poiché trova lavoro presso una azienda agricola per diversi mesi, poi ancora in un’altra. Agli inizi del 2017 viene assunto presso un’altra azienda, in modo più stabile. La paga è molto bassa, ma M. G. si accontenta ancora. Vive in povertà, comunque. Con altri amici condivide una casa fuori Verona. Entra in contatto con la Flai – Cgil perché si lamenta da mesi con un amico in quanto lavora molti giorni al mese e per molte ore, ma la paga è sempre la stessa. Il datore di lavoro – e il capo squadra di riferimento – gli dicono di avere pazienza che tutto si aggiusterà.

Agli inizi del 2019 M. G. deve rinnovare il permesso di soggiorno, ma non può convertire il permesso umanitario in permesso di lavoro – e dunque poter lavorare più tranquillamente – perché non guadagna a sufficienza. Infatti il nuovo permesso gli viene negato per “reddito insufficiente”. M. G. spiega ai sindacalisti che lavora molte ore al giorno e molti giorni alla settimana, ma non può dimostrarlo. Il suo datore di lavoro non registra le giornate, e lo paga – oltre che poco – anche in buona parte al nero. Per questo nella busta paga non risultano le giornate lavorate, e quindi il salario mensile è molto diverso da quello che dovrebbe.

M.G. riceve 188,90 euro al mese in busta paga, e una quota forfettaria di altri 250 euro all’incirca a fronte di 26/30 giornate di lavoro di media al mese. Chiede al datore spiegazioni, continuamente per mesi. Ma non gli vengono date, nonostante lavori con questa azienda da circa 2 anni e mezzo. Ed è ospitato anche presso l’azienda in un alloggio con altri trenta lavoratori, tutti stranieri. Le condizioni igieniche sono inadeguate, così l’impianto di illuminazione e i servizi interni di prima necessità. Per l’affitto paga circa 20 euro al mese, per un letto a castello. M.G. con altri colleghi si rivolge al sindacato. Dal conteggio sindacale emerge che M. G. e i suoi amici percepiscono un salario orario che oscilla tra i 3 e i 5 euro anche per i giorni festivi e gli straordinari. Con la riduzione drastica delle giornate conteggiate M. G. non percepisce neanche la disoccupazione e le altre spettanze previdenziali. Questa situazione contrasta fortemente con i dettati normativi: sia per il salario percepito, sia per il lungo orario (30 giorni al mese per circa 10 ore di attività quotidiana), sia per l’alloggio inadeguato e per la mancanza di erogazione degli oneri previdenziali. Al riguardo M. G. sta maturando l’idea di inoltrare una denuncia per grave sfruttamento.

(La breve storia di questo lavoratore è stata acquisita da Samba Bocar, sindacalista Flai-Cgil di Verona).

Dall’India a Vicenza

DA SOLO CON ZAPPA E VANGA DINANZI AGLI AGUZZINI

M.M. è un cittadino indiano di 32 anni. La sua storia è simile a quella di molti altri emigrati che lasciano il loro paese in cerca di fortuna e di sostentamento per la propria famiglia residente nel paese di origine. M.M. è il più grande dei suoi 5 fratelli, e il suo grande desiderio in patria era quello di studiare agronomia. Ma non continua gli studi poiché la famiglia ha necessità di risorse economiche e lui, il più grande, espatria per svolgere questa funzione: inviare soldi a casa. Arriva in Italia nel maggio 2016 e si stabilisce a Vicenza qualche mese dopo. Conosce attraverso degli amici un connazionale che lavora in una società di import/export di prodotti agricoli soprattutto con Londra, dove ha sede legale la società. All’epoca M.M. non parla ancora la lingua italiana, non ha un mezzo di trasporto né un alloggio stabile. Ma viene assunto dal suo connazionale che risiede a Vicenza, d’accordo con il datore di lavoro che risiede a Londra.

L’azienda agricola senza terra è ubicata nell’hinterland di Vicenza, dove l’azienda ha affittato dei campi per la coltivazione di ortaggi. M.M. deve occuparsi del ciclo produttivo delle terre utilizzate dall’azienda: dalla semina alla raccolta senza avere mezzi e attrezzature idonee per una coltivazione intensiva. Il suo datore vicentino gli dà una bicicletta e gli paga una stanza a casa di un altro connazionale. Ogni mattina M.M. deve percorrere circa 20 km in bicicletta (andata/ritorno) per recarsi nel fondo, dove inizia a lavorare alle 5 del mattino per fermarsi alle 19 di sera. M.M. è l’unico operaio del fondo, e deve lavorare con la zappa e la vanga: sia per la semina che per la manutenzione del campo, nonché per la raccolta e l’imballaggio dei prodotti da spedire. È sempre da solo, il suo datore vicentino è presente ma svolge attività di collegamento con Londra. Qualche volta arrivano altri operai ma svolgono attività diverse.

Il lavoro di M.M. si snoda per 15 ore al giorno, scandite da lavoro sulla terra, pulizia degli spazi, semina e raccolta dei prodotti, nonché irrigazione. Dopo le raccolte immagazzina. In questa fase sono occupati altri operai stranieri, ma M.M. non parla con loro e neanche può avvicinarsi durante il lavoro. I raccolti non sono adeguati, e il datore principale – quello di Londra – quando visita il fondo è sempre infuriato perché gli arrivano prodotti insufficienti rispetto alla quantità che potrebbe smerciare nella capitale inglese. Il datore vicentino scarica su M.M. l’andamento della produzione, e si giustifica accusandola di pigrizia, di disattenzione e dunque di essere inefficiente perché non prende il lavoro dalla parte giusta. E poi – oltre tutto – si lamenta dicendo che il lavoro è pesante e il salario troppo basso. M.M. è sfruttato e asservito al suo datore. E’ sfruttato in modo para-schiavistico, non c’è un’altra definizione. Mangia male, e quasi soltanto ciò che produce l’orto. E’ debilitato fisicamente e psicologicamente.

Chiede altri braccianti per aiutarlo, e chiede più soldi per sé e per la sua famiglia. Le risposte del datore vicentino sono minacciose, e si giustifica dicendo che è “il londinese” che comanda e quindi è lui che deve decidere. Tale situazione va avanti da anni, ma soltanto a metà luglio del 2019 M.M. inizia a maturare l’idea di rivolgersi al sindacato dietro suggerimento della persona con cui abita (tra l’altro nel tempo sono state ospitate nella stessa casa altre persone che venivano via via occupate nella stessa azienda). Arriva in Flai-Cgil intimidito. Piano piano racconta la sua esperienza vicentina. Ci si rende immediatamente conto della gravità della situazione: in busta paga risultavano soltanto 10 giornate registrate, con un contratto di lavoro sottoscritto circa tre anni addietro. Fatti i conteggi è partita una denuncia circostanziata ai Carabinieri.

M.M. inoltra la denuncia per le pessime condizioni di lavoro subite. E qualche settimana dopo aver sporto la denuncia viene malmenato da due sconosciuti e durante minacciato. Data la situazione M.M. viene convinto a trasferirsi in un’altra città fuori dal Veneto. Attualmente M.M. (ottobre 2019) sta bene, studia agronomia (in una all’Università italiana), e i suoi aguzzini (il “vicentino” e il “londinese”) sono in carcere per sfruttamento lavorativo e riduzione in schiavitù.

(La breve storia di questo lavoratore è stata acquisita da Giosuè Mattei, sindacalista Flai – Cgil di Vicenza).

Dal carcere bengalese alla giungla vicentina

UNA VITA DA SCHIAVI MA LE ISTITUZIONI CI SONO

N.O. é un cittadino bengalese nato nel 1989 a Magura, una piccola cittadina del Bangladesh sudoccidentale. Nel suo Paese di origine militava nel partito di opposizione e per questo motivo ha subito persecuzioni tanto da essere anche arrestato. All’uscita dal carcere nel 2012, ha contattato P. uno dei leader del suo partito, il quale gli ha garantito un aiuto per poter emigrare in Italia, tramite un connazionale presso cui avrebbe – una volta arrivato – lavorato in agricoltura. N.O. con l’aiuto di P. invia copia del suo passaporto al connazionale in Italia. La spesa concordata per emigrare con documenti regolari in Italia era di 800.000 rupie (circa 8.000 euro). Come pattuito, N.O. ha ottenuto un visto per lavoro stagionale in agricoltura secondo quanto previsto dalla normativa italiana in merito al decreto flussi. N.O. ha pagato 200.000 rupie alla consegna della copia del passaporto, e tramite operazione bancaria, ha effettuato il saldo di 600.000 rupie alla consegna del nulla osta. Per recuperare i soldi necessari è stato costretto a vendere tutte le sue proprietà. N.O. ha quindi viaggiato dal Bangladesh all’Italia in aereo in compagnia di un altro connazionale anch’esso trafficato da P. ma che all’arrivo in Italia si è diretto in Francia.

Arrivato all’aeroporto di Fiumicino il 5 agosto del 2012 ha telefonato a H., il suo contatto in Italia, il quale gli ha fornito indicazioni per raggiungere Vicenza con i mezzi pubblici. Giunto a destinazione viene portato nella casa di proprietà di H. dove abitavano altri 7 connazionali, tutti braccianti agricoli occupati in varie aziende agricole della provincia. L’abitazione è in condizioni fatiscenti. Appena arrivato in Italia H. gli ha comunicato che per l’ottenimento del permesso di soggiorno avrebbe dovuto pagare ulteriori 6.000 euro. N.O. anticipa tutto quello che gli era rimasto dei suoi risparmi, ovvero quasi 1.000 euro e si accorda che la quota restante l’avrebbe consegnata una volta iniziato a lavorare. N.O. su indicazione di H., inizia a lavorare il 7 agosto 2012 per conto di un imprenditore agricolo italiano della provincia di Vicenza. Dal primo giorno di lavoro gli viene ritirato il passaporto, così come a tutti gli altri connazionali che lavoravano per lui, circa una decina. Insieme a loro lavorava anche un’altra decina circa di operai marocchini e alcuni romeni.

N.O. non è mai stato accompagnato presso la Prefettura per regolarizzare la sua posizione. H. infatti gli comunica che ciò sarebbe avvenuto solo al saldo dei 6.000 euro pattuiti. Solo dopo molti mesi di lavoro, N.O. riesce a consegnare la cifra necessaria ad H., il quale la versa interamente all’imprenditore, il quale non provvede comunque alla regolarizzazione del contratto. Il suo lavoro normalmente iniziava alle 8 del mattino fino alle 8 di sera, ma durante il periodo giugno-novembre N.O. ha lavorato anche 16/18 ore al giorno, in quanto doveva irrigare i campi la notte. Nel periodo estivo non aveva mai un giorno di riposo, mentre durante l’inverno non lavorava la domenica. La paga mensile era fissata a 1.200 euro, che riceveva in contanti (poco più di due euro l’ora). Tra le mansioni che svolgeva era compresa anche la guida di macchinari agricoli, seppure lui non possedesse regolare patentino. A causa dei ritmi lavorativi disumani, non avendo sufficiente tempo per rientrare a casa la sera (per la distanza che doveva percorrere), N.O. ha accettato di alloggiare in una casa di proprietà del datore di lavoro situata vicino l’azienda. In questa abitazione erano ospitate altre 7 persone e altre erano alloggiate nel garage sottostante, poiché era stato adibito a dormitorio per i braccianti bengalesi. Per questo posto letto N.O. – ed anche gli altri – doveva restituire dal salario mensile al datore di lavoro la somma di 250 euro.

Nel mese di novembre N.O. ha un incidente sul lavoro: pulendo dal fango una fresa atta all’estrazione dei topinambur e si è tagliato un dito. Il datore di lavoro lo accompagna al pronto soccorso dell’ospedale, ma prima di farlo entrare gli dice di non raccontare di essersi prodotto la ferita durante il lavoro ma nel corso di una caduta dalla bicicletta. Il datore costringe N.O. a riprendere il lavoro il giorno stesso, dopo aver ricevuto le medicazioni. L’azienda viene sottoposta a ispezione a seguito di alcune segnalazioni inoltrate da privati cittadini ai Carabinieri, in quanto avevano compreso che il garage era utilizzato per farci dormire i lavoratori, e pertanto che poteva trattarsi di una situazione di sfruttamento occupazionale. Data la natura della segnalazione, gli ispettori del lavoro decidono di effettuare un intervento multi-agenzia insieme ai Carabinieri, personale INAIL, personale SPISAL e operatori e mediatori del progetto N.A.Ve.

Nel corso dell’intervento in azienda tutti i lavoratori hanno ricevuto informazioni sulla tutela dei loro diritti, e per tale motivo alcuni hanno deciso di collaborare con le istituzioni competenti per potersi affrancare dalle condizioni di sfruttamento. N.O. inoltre, insieme ad altri connazionali, ha deciso di aderire ad un programma di protezione sociale e il Pubblico Ministero competente del caso ha quindi concesso un nulla osta al rilascio di un titolo di soggiorno ai sensi dell’ art. 18 D.lgs 286/98. Attualmente N.O. beneficia della protezione sociale prevista dal progetto N.A.Ve (di cui il Comune di Venezia è capofila).

( La breve storia di questo lavoratore è stata acquisita da Cinzia Bragagnolo, Progetto N.A.Ve. (Comune di Venezia)

Dal Senegal a Rovigo

LA NEGAZIONE DI ESISTERE

Il primo caso è quello di un lavoratore di 34 anni. B.S. viene dal Senegal. Tutti i giorni in bicicletta fa oltre 40 km – tra andata e ritorno – per andare al lavoro in una azienda agricola ubicata in un importante distretto agro-alimentare di Rovigo. Vi lavora da circa quattro anni. E’ andato più volte in Flai-Cgil, per raccontare le sue condizioni di lavoro. Racconta che sono molto dure, ma alla domanda vuoi inoltrare una denuncia? la sua risposta è sempre negativa. Perché non vuoi? Gli viene più volte chiesto. La risposta è quella che danno quasi tutti i braccianti che arrivano in Flai: “Ho paura di perdere il lavoro. Ho paura di non trovarne un altro”. B.S. afferma queste cose – in maniera netta e decisa – dopo qualche mese dal primo incontro (avvenuto nel giugno 2019). A novembre (dello stesso anno) – dopo alcuni scambi telefonici – porta anche la sua busta paga per poterla sottoporre a verifica.

Per B.S. è un fatto nuovo, anche di coraggio. Nei quattro/cinque incontri precedenti si era sempre rifiutato di farci vedere la busta paga poiché aveva timore che il solo fatto di essere visto entrare nella sede sindacale poteva danneggiarlo, fino alla rottura del rapporto di lavoro. E questa paura serpeggiava ancora nel corso della verifica. B.S. racconta che lavora quasi tutti i giorni al mese, dunque dai 27 ai 30, con qualche domenica o lunedì libero per andare in moschea. E questo ritmo è quello che cadenza il tempo di lavoro di B.S. per ogni mese, per ogni anno. Questo numero di giornate non compare in busta paga. E’ la prima contraddizione. Ciò che dice il lavoratore non trova conferma in busta paga e di conseguenza neanche l’ammontare del salario. Infatti, nella busta paga di B.S. compaiono registrate 18 giornate al posto di 27/30 (dunque una decina in meno), equivalenti per un totale complessivo di 56 ore effettivamente lavorate.

Da questo lavoratore si riscontra che. in 18 giorni abbia lavorato all’incirca 3 ore al giorno, mentre ne dichiara almeno una decina (quindi almeno 180). Cosicché in busta paga il netto salariale di B.S. ammonta a 478,00 euro, ossia 8,5 euro all’ora (per le 56 ore conteggiate per 18 giorni lavorativi registrati) -(Tale paga oraria è poco più bassa di quella prevista dal Contratto provinciale di Rovigo per i lavoratori a tempo determinato, categoria 3 livello F raccolta in serra (uguale a 7,22 euro l’ora) e meno del livello E ex qualificati (10,27 euro l’ora). Cfr. Fondazione Metes, Osservatorio nazionale sulle dinamiche retributive degli operai agricoli. Rapporto 2017 (a cura di Massimiliano D’Alessio), Metes Osservatorio CPL, Roma, 2017, p. 273).-
Gli viene ribadita l’opportunità di denunciare il datore di lavoro, ma B.S desiste ancora. Afferma che se perde il contratto per licenziamento non potrà rinnovare il permesso di soggiorno e dunque non vuole rischiare di restare a Rovigo in condizione di irregolarità. Senza contratto viene meno il requisito di ottenimento del rinnovo del permesso di soggiorno. B.S dice che in questa situazione ci sono anche i suoi colleghi stranieri non solo senegalesi ma anche altri che provengono da Paesi comunitari.

(La storia è stata raccolta da Mauro Baldi, Flai-Cgil di Rovigo).

Dal Mali a Rovigo

IL RICATTO DEL PERMESSO DI SOGGIORNO

Il secondo caso è quello di un lavoratore di 21 anni. S.S. viene dal Mali, ed è un dipendente di una ditta marocchina che opera in agricoltura. Un altro dipendente della ditta ogni mattina passa con un furgone in un determinato punto vicino alla stazione ferroviaria di Rovigo per raccogliere gli operai e portarli sul luogo di lavoro. Non sembra un caporale, benché svolga un’attività similare per conto diretto dell’azienda proprio per trasportare i braccianti nelle campagne dove si svolge la produzione. S.S. è uno dei tanti operai che si reca in Flai a denunciare verbalmente le brutte condizioni di lavoro, soprattutto per quanto riguarda l’orario, le giornate registrate all’INPS e di conseguenza l’ammontare del salario, ma poi per una denuncia specifica al datore di lavoro si tira indietro.

Il motivo è sempre lo stesso: la paura di ritorsioni, di licenziamento e soprattutto la paura di restare senza permesso di soggiorno essendo questo (come è noto) correlato al contratto di lavoro. S.S. arriva in ufficio alla metà di settembre 2019. E’ molto amareggiato, sfinito di stanchezza. Il primo colloquio è molto generico, il lavoratore dice e non dice. Cerca di capire che cosa sia il sindacato, a cosa gli potrà servire, se lo potrà difendere e soprattutto cosa può fare per affrontare i suoi problemi, che alla fin fine sono uno solo: il basso salario che percepisce. S.S. dice di lavorare tutti i mesi da diversi anni (dall’inizio del 2018) – con contratti di nove mesi rinnovabili – per un salario che non supera i 240,0 euro complessivi al mese e che negli ultimi quattro/cinque mesi (dunque dagli inizi di aprile/maggio) ha ricevuto in tutto 240 euro, ossia la paga di un mese, vantando, dunque, quattro/cinque stipendi arretrati.

S.S. si prende coraggio e racconta le condizioni occupazionali, definibili indecenti e caratterizzate da forte sfruttamento. Il salario così basso è anche riportato in busta paga, essendo l’equivalente di 5 giornate di lavoro regolato contrattualmente (calcolando 7 euro per raccolta di campo aperto x 6,5 ore giornaliere = 45,5 euro al giorno, quindi 240,00:45,5=5,2 giornate), mentre il bracciante afferma di lavorare l’intero mese (quindi quasi 25 giornate). Si tratta di un chiaro esempio di sfruttamento sul lavoro e di truffa bella e buona.

Da Cracovia a Rovigo

L’IMPERATIVO È TACERE

Il terzo caso è quello di un lavoratore di 25 anni. A.A. è di origine romena, viene dalla città di Cracovia. Lavora in un’azienda agricola di Rovigo da più anni. La sua attività è quella della raccolta, pulitura e cernita dell’aglio e anche nella raccolta di frutta, poiché il ciclo produttivo è consecutivo. A.A. lavora con altri connazionali e con altri operai africani, provenienti principalmente dal Senegal e dal Mali. Le condizioni di lavoro sono proibitive per chiunque, poiché si lavora molto e si percepisce un salario molto basso.

A.A. ci racconta la sua storia professionale in questa ditta e dello sforzo che ha fatto per proseguire gli studi – dopo averli lasciati per venire in Italia – poiché studiava dopo il lavoro, frequentando anche i corsi serali. Anche lui parla di ricatti e di aut aut da parte dei capi azienda: “o lavorate a queste condizioni oppure trovatevi un altro lavoro”. Questa frase era continuamente espressa dal capo azienda e dai suoi dirigenti. Tacere era l’imperativo di tutti i braccianti assunti. Nessuno fiatava. La situazione per A.A. cambia dopo aver conseguito il titolo di studio in un Istituto tecnico meccanico, e il conseguente cambio di lavoro: da bracciante agricolo diventa operaio metalmeccanico, cambio avvenuto a luglio 2019. Per tale motivo si è sentito libero di tornare al sindacato e raccontare anche fatti che non riusciva a raccontare prima poiché, al pari degli altri braccianti, aveva la paura del licenziamento.

Il fatto più importante che racconta A.A. sono le pratiche di sfruttamento e di dipendenza psicologica che subiva, insieme agli altri colleghi, nel corso dello svolgimento del lavoro. A.A. era occupato nella raccolta, cernita e lavorazione dell’aglio bianco. Si trattava di un lavoro a cottimo, e il pagamento avveniva in base al peso di prodotto raccolto, ovvero un tot al kg. Ma il pagamento non avveniva in base ad un kg di prodotto raccolto, bensì in base ad un kg di prodotto pulito, ossia di aglio sfrondato dallo stelo e dal fogliame primario. L’aglio per essere pesato e dunque pagato al kg doveva essere innanzitutto sano (senza impurità) e ben pulito (senza fogliame superfluo), dunque il pagamento all’operaio avveniva non tanto alla raccolta, ma quanto a lavorazione quasi compiuta. In altre parole prima dell’immagazzinamento del prodotto o del conferimento del medesimo al primo acquirente/compratore secondo il principio del cottimo a “cassa di frutta raccolta”.

In un anno A.A. è stato occupato per oltre 300 giornate (per 11 mesi consecutivi), ma in busta paga ne risultavano soltanto 100. L’orario di lavoro nei periodi di luce solare non era di meno di 10/12 ore, nei periodi tardo autunnali/invernali almeno 7, con turni di riposo limitati e spesso anche senza una pausa pranzo, anche in piena estate.

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