Oltre lo Stato

Occorre costruire una sfera pubblica all’altezza dei processi di globalizzazione che imponga limiti e vincoli ai poteri transnazionali

PER UN COSTITUZIONALISMO MONDIALE

Occorre costruire una sfera pubblica all’altezza dei processi di globalizzazione che imponga limiti e vincoli ai poteri transnazionali, sia pubblici che privati, che hanno spodestato i vecchi poteri statali e introduca istituzioni di garanzia a tutela della pace e dei diritti umani
Vi è una necessaria espansione del paradigma costituzionale e garantista, indubbiamente la più importante ed urgente ma anche la più difficile. Nell’età della globalizzazione il futuro di ciascun Paese, e soprattutto dei Paesi poveri, dipende sempre meno dalle politiche interne e sempre più da decisioni esterne, assunte in sedi politiche extra-statali o da poteri economici globali: precisamente, dalle politiche decise dalle maggiori potenze e dalle istituzioni internazionali da esse controllate – la Banca Mondiale, il Fondo Monetario, l’Organizzazione Mondiale del commercio, lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu, i vari G8, G20 o G4 – nonché dalle grandi imprese multinazionali. È perciò saltato o si è quanto meno indebolito, ed è destinato a divenire sempre più debole, il nesso democrazia/popolo e poteri decisionali/Stato di diritto, tradizionalmente mediato dalla rappresentanza politica e dal primato della legge votata da istituzioni rappresentative. In un mondo di sovranità disuguali e di crescente interdipendenza, non è più vero che le decisioni più rilevanti spettino a poteri direttamente o indirettamente democratici e subordinati alla legge. Dobbiamo allora formulare la domanda: i due nessi Stato democratico e Stato nazionale/Stato di diritto sono nessi necessari, sicché dobbiamo rassegnarci al declino sia della democrazia che dello Stato di diritto in conseguenza del declino dello Stato nazionale? o invece è possibile un processo di rifondazione delle forme dell’una e dell’altro, in modo da renderli all’altezza, al di là dell’indebolimento degli Stati, di quella che Jürgen Habermas ha chiamato, già molti anni fa, una «politica interna del mondo»1?
Possono sopravvivere la democrazia e lo Stato di diritto?
È questo l’interrogativo che si pone oggi alla teoria della democrazia e dello Stato di diritto. Esiste o meno un futuro della democrazia e dello Stato di diritto, se vengono meno le forme tradizionali, oggi irreversibilmente in crisi, della rappresentanza politica e della legge statale cui tutti i poteri sono sottoposti? Esiste la possibilità, in altre parole, di un costituzionalismo sovrastatale, senza o comunque al di là del modello dello Stato nazionale2? Diritto e Stato sono stati a lungo identificati dalla nostra tradizione giuridica e politica. Da Hobbes a Hegel, il superamento dello stato di natura è stato teorizzato solo con riguardo allo Stato, e non anche ai rapporti tra gli Stati, concepiti invece come soggetti sovrani tra loro in guerra virtuale e permanente3. Oggi, naturalmente, nessuno identificherebbe più il diritto con il solo diritto statale. Di fatto, tuttavia, quella tradizione pesa tuttora nella nostra cultura. Alla crisi degli Stati, e perciò del ruolo delle sfere pubbliche nazionali, non ha infatti corrisposto la costruzione di una sfera pubblica all’altezza dei processi di globalizzazione, cioè l’introduzione di limiti e vincoli, a garanzia della pace e dei diritti umani, nei confronti dei poteri transnazionali, sia pubblici che privati, che hanno spodestato i vecchi poteri statali o si sono sottratti al loro ruolo di governo e di controllo. La Carta dell’Onu, la Dichiarazione universale del 1948, i Patti internazionali del 1966 e le tante Carte regionali dei diritti promettono pace, sicurezza, garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti sociali per tutti gli esseri umani. Ma mancano totalmente le loro leggi di attuazione, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati. È come se un ordinamento statale fosse dotato della sola Costituzione e non anche di leggi attuative, cioè di codici penali, di tribunali e di ospedali. È chiaro che in queste condizioni i diritti proclamati sono destinati a rimanere sulla carta come promesse non mantenute.
La conseguenza più grave della globalizzazione, in assenza di garanzie di quelle leggi del più debole che sono i diritti fondamentali, è stata perciò una crescita esponenziale della disuguaglianza, segno di un nuovo razzismo che dà per scontate la miseria, la fame, le malattie e la morte di milioni di esseri umani senza valore. Questa disuguaglianza crescente – giunta al punto che le otto persone più ricche del pianeta hanno la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale4 – non è solo un fattore di discredito, moralmente intollerabile, di tutte le proclamazioni costituzionali dei diritti fondamentali quali diritti universali. Essa è anche una minaccia alla pace, dato che un simile vuoto di diritto pubblico, in una società globale sempre più fragile e interdipendente, non è a lungo sostenibile senza andare incontro a un futuro di guerre e di violenze in grado di travolgere le nostre stesse democrazie. Paradossalmente, alla crescita delle promesse normative e della complessità dei problemi e delle interdipendenze generata dalla globalizzazione, hanno fatto addirittura riscontro, in questi anni, anziché una più complessa articolazione istituzionale della sfera pubblica, una sua semplificazione: da un lato la verticalizzazione e personalizzazione dei sistemi politici con frequenti tendenze di tipo populistico e plebiscitario; dall’altro una crescente concentrazione e confusione tra poteri politici e poteri economici.
Ma allora, di fronte a questo paradosso, è proprio il carattere formale del paradigma costituzionale che consente ed impone un ripensamento della sfera pubblica a livello sovrastatale, oltre che statale. Ai fini di una rifondazione della democrazia costituzionale, ciò che peraltro si richiede è non già l’i- stituzione di un’improbabile e forse neppure auspicabile riproduzione della forma dello Stato a livello sovranazionale – una sorta di super-Stato mondiale, sia pure basato sulla democratizzazione politica dell’Onu – quanto piuttosto l’introduzione di tecniche, di funzioni e di istituzioni adeguate di garanzia. Richiamo qui una distinzione che ho più volte operato: la distinzione, parzialmente diversa da quella che è alla base della classica separazione montesquieviana dei poteri, tra istituzioni di governo e istituzioni di garanzia. Le istituzioni di governo sono quelle investite di funzioni politiche di scelta e di innovazione discrezionale in ordine a quella che ho chiamato la “sfera del decidibile”: non solo, quindi, le funzioni propriamente governative e quelle ad esse ausiliarie di tipo amministrativo, ma anche le funzioni legislative. Le istituzioni di garanzia sono invece quelle investite di funzioni vincolate all’applicazione della legge, e in particolare del principio della pace e dei diritti fondamentali, a garanzia di quella che ho chiamato la “sfera dell’indecidibile (che o che non)”: le funzioni giurisdizionali o di garanzia secondaria, ma anche le funzioni amministrative di garanzia primaria dei diritti sociali, come le istituzioni scolastiche, quelle sanitarie, quelle assistenziali, quelle previdenziali e simili5
Sono queste funzioni e queste istituzioni di garanzia, ben più che le funzioni e le istituzioni di governo, che a livello globale è necessario edificare in attuazione del paradigma costituzionale. Le funzioni e le istituzioni di governo, essendo legittimate dalla rappresentanza politica, è bene rimangano quanto più possibile di competenza degli Stati nazionali, non avendo molto senso un governo rappresentativo planetario basato sul principio una testa/un voto. Al contrario, le funzioni e le istituzioni di garanzia, essendo legittimate non già dal consenso delle maggioranze ma dalla soggezione alla legge e all’universalità dei diritti fondamentali, non solo possono, ma in molti casi devono essere introdotte a livello internazionale. Gran parte di tali funzioni – in materia di ambiente, di criminalità transnazionale, di gestione dei beni comuni e di riduzione delle disuguaglianze – riguardano infatti problemi globali, come la difesa dell’ecosistema, la fame, le malattie non curate e la sicurezza, che richiedono risposte globali che solo istituzioni globali sono in grado di dare. È soprattutto la mancanza di queste funzioni e di queste istituzioni globali di garanzia la vera, grave lacuna dell’odierno diritto internazionale, equivalente a una sua vistosa violazione. Fatta eccezione per l’ancora debole e timida Corte penale internazionale, sono infatti del tutto carenti le funzioni e le istituzioni giurisdizionali di garanzia secondaria destinate a intervenire contro le violazioni dei diritti. Ma ancor più assenti sono quelle che ho chiamato le garanzie primarie e le relative funzioni e istituzioni: in primo luogo le garanzie della pace e della sicurezza; in secondo luogo le funzioni e le istituzioni di garanzia dei diritti sociali, come i diritti all’alimentazione di base, alla salute, all’istruzione e alla tutela dell’ambiente pur proclamati da tante Carte internazionali.
Sotto il primo aspetto, quello relativo alla pace, occorrerebbe da un lato una riabilitazione del ruolo dell’Onu e del divieto della guerra ripetutamente violato in questi anni dai Paesi occidentali; dall’altro l’istituzione, in vista di un tendenziale monopolio giuridico della forza in capo all’Onu, della forza di polizia internazionale sotto la «direzione strategica» del «Comitato di stato maggiore» prevista dall’articolo 47 della Carta. Ma soprattutto occorrerebbe riprendere il processo, avviato negli scorsi anni Ottanta, di un progressivo disarmo globale, fino alla messa al bando come beni illeciti, perché destinati ad uccidere, di tutte le armi, la cui disponibilità è il principale fattore sia delle guerre che della criminalità. Si tratta di interdire radicalmente – ne cives e anche ne res publicae ad arma veniant – non solo il commercio di armi ma anche la loro produzione e la loro detenzione.
Sotto il secondo aspetto, quello dei diritti umani, sono molte le istituzioni di garanzia primaria che occorrerebbe introdurre o rifondare a livello internazionale. Andrebbero anzitutto riformate le attuali istituzioni internazionali di governo dell’economia – la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio – funzionalizzandole allo scopo, opposto a quello da esse finora perseguito, dello sviluppo economico dei Paesi poveri. Andrebbero poi organizzate, di fronte ai giganteschi problemi sociali della fame e della miseria, istituzioni deputate alla soddisfazione dei diritti sociali previsti dai Patti del 1966. Talune di queste istituzioni, come la FAO e l’Organizzazione mondiale della sanità, esistono da tempo e si tratterebbe di dotarle dei mezzi e dei poteri necessari alle funzioni di erogazione delle prestazioni alimentari e sanitarie. Altre – in tema di tutela dell’ambiente, di garanzia dell’istruzione, dell’abitazione e di altri diritti vitali – dovrebbero invece essere istituite. Il finanziamento di tali istituzioni potrebbe provenire dalla creazione di una fiscalità mondiale, tra l’altro favorita dal risparmio delle spese militari: per esempio dalla cosiddetta Tobin Tax sulle transazioni finanziarie di cui si parla da decenni e che avrebbe anche l’effetto di ridurre le transazioni speculative sui mercati valutari; o anche dalla tassazione, di cui si è già detto, dell’uso e dell’abuso di beni comuni dell’umanità, come le linee aeree o le orbite satellitari o le bande dell’etere.
Il futuro del costituzionalismo. Tre nuove separazioni dei poteri
È chiaro che una simile espansione del paradigma costituzionale richiede la costruzione di una sfera pubblica europea e, in prospettiva, globale. Solo la costruzione di una sfera pubblica all’altezza dei poteri sovranazionali – la costituzionalizzazione, in breve, della globalizzazione e quanto meno dell’Unione Europea – può infatti restituire alla politica un ruolo di governo dell’economia e della finanza e al diritto il ruolo di garanzia dei diritti sociali e del lavoro. Non solo. La stessa democrazia costituzionale degli Stati membri, come la crisi economica ha mostrato duramente, può sopravvivere solo se il suo paradigma si affermerà e si svilupperà a livello sovrastatale.
Ciò che manca, purtroppo, non è il programma alternativo alle politiche attuali, rappresentato dal progetto formulato nelle tante Carte costituzionali, ma la volontà di realizzarlo6. Quella volontà, che negli anni del dopoguerra dette vita alla democrazia, allo stato sociale e allo sviluppo economico fu alimentata dalla passione e dall’energia politica, oggi scomparse, provenienti dalla soggettività politica e dalle lotte delle forze sociali, in primo luogo il movimento operaio, che erano allora organizzate e rappresentate dai vecchi partiti di massa. La condizione necessaria, anche se non sufficiente, per riprodurre quella volontà e quell’energia è oggi la restaurazione di quella che ho chiamato la gerarchia democratica dei poteri, ribaltata in questi anni da processi di confusione e concentrazione. Quei poteri vanno separati, a garanzia del primato dei poteri sociali sui poteri pubblici, dell’autonomia delle funzioni di garanzia dalle funzioni di governo e del ruolo di controllo dei poteri di governo sui poteri economici e finanziari.
Indicherò tre separazioni a mio parere a tal fine necessarie, che più volte ho indicato come espansioni e aggiornamenti della classica separazione formulata da Montesquieu, con riguardo a un assetto istituzionale enormemente più semplice di quello odierno: in primo luogo la separazione tra i (poteri sociali dei) partiti e (quelli pubblici del)lo Stato; in secondo luogo la separazione tra funzioni pubbliche di governo e funzioni pubbliche di garanzia; in terzo luogo la separazione tra poteri politici di governo e poteri privati di tipo economico o finanziario.

Separare i partiti dallo Stato
La prima separazione che dovrebbe essere istituita, a garanzia della rappresentanza, è quella tra i poteri pubblici e istituzionali e i poteri sociali espressi dai partiti politici. Oggi la crisi della democrazia rappresentativa è determinata in gran parte dal venir meno del rapporto, fino a qualche decennio fa mediato dai grandi partiti di massa, tra società e istituzioni. I partiti hanno cessato di essere organi della società e si sono statalizzati, identificandosi con le loro rappresentanze istituzionali che, libere da vincoli e controlli dal basso, si sono subordinate al mercato. Alla loro separazione dalle loro basi sociali ha fatto infatti riscontro il loro insediamento nelle istituzioni pubbliche, quali organi dello Stato ben più che della società. Oggi è di moda, nel dibattito pubblico, dare per scontato che i partiti appartengono a un’epoca passata e non sono più riformabili. Dobbiamo invece essere consapevoli che senza partiti, come ammoniva un secolo fa Hans Kelsen, una democrazia fondata sul suffragio universale non può funzionare e degenera inevitabilmente in oligarchia o in autocrazia7.
È questa, oggi, la vera, gravissima questione costituzionale: i partiti, che dovrebbero essere i tramiti del rapporto di rappresentanza, sono diventati le istituzioni più screditate e impopolari, e il loro discredito si è trasferito sulle stesse istituzioni rappresentative a cominciare dal Parlamento. È cresciuta l’astensione e il voto è prevalentemente un voto “contro”: per il meno peggio, ossia per disprezzo o paura di altre formazioni. Peraltro, questo crollo della rappresentanza politica, mentre è pienamente funzionale alle politiche liberiste dei governi, cui consente la massima e indisturbata onnipotenza nei confronti della società necessaria alla loro subalternità alle direttive dei mercati, penalizza gravemente l’opposizione e neutralizza qualunque politica anti-liberista in difesa dei diritti sociali e del lavoro.
Il primo passo in direzione di una rifondazione delle nostre democrazie dovrebbe perciò consistere in una riforma dei partiti diretta a imporre loro regole elementari di democrazia interna e, soprattutto, la loro separazione dalle istituzioni pubbliche, a cominciare da quelle elettive. È la vec- chia regola montesquieviana della separazione dei poteri, assolutamente necessaria per garantire l’alterità tra rappresentanti (le istituzioni elettive) e rappresentati (gli elettori organizzati in partiti), il controllo e la responsabilità dei primi di fronte ai secondi e il «diritto» dei cittadini, come dice l’art. 49 della nostra Costituzione, di «concorrere con metodo democratico», per il tramite, appunto, dei partiti, «a determinare la politica nazionale». Occorrerebbe perciò introdurre la rigida incompatibilità tra cariche di partito e cariche pubbliche, incluse quelle elettive, onde vincolare i partiti al loro ruolo di organi della società, quali rappresentati e non quali rappresentanti, deputati alla formazione dei programmi, alla scelta dei candidati e alla responsabilizzazione degli eletti, ma non anche alla diretta gestione della cosa pubblica. Per molteplici ragioni: per consentire, con l’alterità dei partiti rispetto alle pubbliche istituzioni elettive, il loro ruolo di mediazione della rappresentanza politica rispetto all’elettorato; per evitare i conflitti di interesse che si manifestano nelle auto- candidature dei dirigenti e nella cooptazione dei candidati sulla base della loro fedeltà a quanti li hanno designati; per impedire la confusione dei poteri tra controllori e controllati e consentire invece il controllo da parte dei primi sull’attività dei secondi e la responsabilità dei secondi rispetto ai primi; per favorire il ricambio fisiologico e selettivo dei gruppi dirigenti; per dar vita, infine, al solo effettivo contrappeso e contropotere – il potere dal basso delle forze sociali – in grado di bilanciare la concentrazione dei poteri in capo ai governi e di riaccreditare la politica, ancorandola alle sue istanze di base e così restituendola alle sue tradizionali funzioni di governo dell’economia.
Naturalmente i dirigenti dei partiti sarebbero di regola destinati ad essere eletti nelle istituzioni rappresentative. Ma in tal caso dovrebbero lasciare il loro posto nel partito ad altri dirigenti, in grado di orientarli e controllarli. Si porrebbe così fine all’odierna occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, i quali dovrebbero essere investiti di funzioni soltanto di indirizzo politico, e non anche di pubblici poteri. Solo il venir meno degli attuali conflitti di interesse che si manifestano nell’auto-elezione e nella designazione da parte dei capi dei partiti dell’intero personale politico varrebbe a restaurare il rapporto di rappresentanza tra istituzioni elettive ed elettorato, a radicare i partiti nella società, a ridurne il discredito odierno e a restituire loro autorevolezza, credibilità, forza di attrazione e di aggregazione sociale e soprattutto, grazie alla loro autonomia dai rappresentanti, capacità di costante control4lo e responsabilizzazione degli eletti8.

Separare le funzioni di garanzia dalle funzioni di governo
La seconda separazione, non meno importante, è quella tra le funzioni di governo e le funzioni di garanzia. Le funzioni di governo, sia legislative che esecutive, sono entrambe legittimate, in democrazia, dalla rappresentanza popolare e perciò sono oggi, soprattutto nelle democrazie parlamentari, assai più condivise che separate. Le funzioni di garanzia, non solo quelle giurisdizionali o secondarie ma anche quelle amministrative o primarie come la scuola, l’assistenza sanitaria e la previdenza, sono invece legittimate dalla loro soggezione alla legge, e in particolare ai diritti fondamentali. È tuttavia accaduto che le funzioni di garanzia primaria – l’istruzione, la sanità pubblica e simili –, inesistenti ai tempi di Montesquieu, si siano sviluppate, con la costruzione dello Stato sociale, entro quel grande contenitore che è l’Amministrazione pubblica alle dipendenze del potere esecutivo, non potendo certo collocarsi all’interno del potere legislativo o di quello giudiziario. Ma è chiaro che la loro fonte di legittimazione non è di tipo rappresentativo o maggioritario, ma al contrario contro-maggioritario, risiedendo nei diritti fondamentali di tutti quali limiti e vincoli ai poteri delle maggioranze.
Di qui la necessità della loro separazione e indipendenza dai poteri di governo, nonché di una loro autonomia finanziaria, idonea a metterle al riparo dai tagli di spesa decisi dai poteri politici contingenti e perciò ad assicurare la garanzia dei diritti come la vera, assoluta priorità, rigidamente incondizionata rispetto a qualunque altra. Solo così si produrrebbe il capovolgimento delle attuali politiche di austerità che assumono al contrario il pareggio dei pubblici bilanci come l’assoluta rigidità, in Italia addirittura costituzionalizzata con l’assurda riforma dell’art. 81 della Costituzione, a costo di tagli alla spesa pub- blica in danno dei diritti alla salute, all’istruzione, alla previdenza e all’assistenza. Non si tratta di una proposta irrealistica. È quanto è previsto dalla Costituzione brasiliana del 1988, che in accordo con la gerarchia delle fonti ha conferito rigidità a tali diritti, introducendo vincoli di bilancio consistenti, con- trariamente a quelli da noi adottati, in quote minime del ricavato delle imposte da destinare alla loro garanzia: almeno il 18% del bilancio federale e almeno il 25% dei bilanci statali e municipali all’istruzione e quote calcolate annualmente ma mai suscettibili di riduzione alla sanità pubblica. Né si tratta di misure economicamente insostenibili. Grazie ad esse, più di cinquanta milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà e il Brasile è diventato uno dei Paesi che negli ultimi anni ha conosciuto la crescita maggiore del suo prodotto interno lordo. A riprova del fatto che le spese nei diritti sociali sono gli investimenti economicamente più produttivi essendo la salute, l’istruzione e la sussistenza non solo fini a se stesse, ma anche le condizioni della produttività individuale e perciò collettiva.
C’è poi un’altra implicazione della separazione tra funzioni di governo e funzioni di garanzia. Ciò che un costituzionalismo oltre lo Stato richiede è la costruzione, ben più che di funzioni e istituzioni di governo, di funzioni e istituzioni di garanzia idonee ad attuare politiche sociali – a garanzia della sopravvivenza, dell’ambiente e della pace – di livello sovranazionale, o almeno europeo, non legittimate dal voto ma semplicemente dai patti costituzionali di convivenza. Pensiamo alla legittimazione e alla credibilità che proverrebbero alle Nazioni Unite dall’attuazione del capo VII della Carta dell’Onu a garanzia della pace; o dall’istituzione di un demanio planetario o almeno europeo di beni comuni e vitali in grado di impedirne la privatizzazione e mercificazione; o dal rafforzamento delle competenze e dei mezzi finanziari di istituzioni sovranazionali di garanzia come la FAO o l’Organizzazione mondiale della sanità, a sostegno dell’alimentazione di base e della salute; oppure al capovolgimento dell’immagine dell’Europa – non più solo il volto austero ed ostile dell’Europa dei mercati e dei sacrifici, ma anche quello benefico delle garanzie – che conseguirebbe, per esempio, da un reddito minimo di cittadinanza erogato direttamente dall’Unione Europea in attuazione, tra l’altro, dell’art. 34, 3° comma della Carta di Nizza, sul «diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti».

Separare le funzioni pubbliche dai poteri economici e finanziari privati
La terza separazione, forse la più difficile, è infine quella tra poteri pubblici di governo e poteri economici o finanziari. Questa terza separazione ha rappresentato, fino a pochi decenni fa, un tratto caratteristico della modernità, quale elemento del costituzionalismo profondo non solo della democrazia, ma ancor prima dello Stato moderno, nato dal venir meno della confusione tra sovranità e proprietà propria dello Stato patrimoniale e della società feudale e dall’affermazione di una sfera pubblica separata e sovraordinata, appunto, alle sfere private dell’economia. La sua restaurazione richiederebbe oggi, oltre alla rifondazione dei partiti quali organi sociali di indirizzo politico, lo sviluppo di una sfera pubblica sovranazionale all’altezza dei mercati e di funzioni politiche di governo parimenti sovranazionali.
Si capisce come solo una sfera pubblica sovranazionale consentirebbe un ruolo di governo della politica sull’economia. Oggi, si è visto, questo ruolo è stato travolto e capovolto dall’asimmetria tra il carattere globale dei mercati e il carattere ancora in prevalenza statale della politica e del diritto. Una risposta razionale alla crisi non solo della democrazia, ma della stessa economia, dovrebbe perciò consistere nella creazione di un governo sovranazionale dell’economia nella direzione intrapresa, ma presto abbandonata e invertita, con gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944 dai quali nacquero il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, concepiti originariamente come istituzioni dirette a favorire non soltanto la stabilità monetaria e il libero commercio, ma anche la crescita dell’occupazione e lo sviluppo dell’economia dei Paesi più poveri. Quanto meno una politica razio- nale dovrebbe promuovere, dopo i fallimenti delle politiche di austerità, l’istituzione di un governo europeo dell’economia, parallelamente a politiche sociali direttamente europee del tipo poco sopra illustrato.
Ma al di là della difficile costruzione di una sfera pubblica sovranazionale all’altezza delle sfide globali, sono possibili già oggi molteplici misure dirette a separare i poteri politici dai poteri economici: la messa al bando delle lobby; il finanziamento pubblico dei partiti politici e l’introduzione di limiti rigidi ai finanziamenti privati delle campagne elettorali onde evitare che con il voto vengano di fatto eletti i finanziatori anziché i candidati; lo sviluppo di partiti politici sovranazionali e quanto meno europei; l’introduzione di rigide incompatibilità tra poteri politici e poteri privati onde impedire conflitti d’interesse quali ben conosciamo in Italia, e che ben più che conflitti consistono e si risolvono sempre nella prevalenza degli interessi privati sugli interessi pubblici; le garanzie, infine, di tali incompatibilità sia di tipo primario, come l’ineleggibilità alle cariche pubbliche di quanti siano titolari di rilevanti interessi e poteri privati, sia di tipo secondario o giurisdizionale come sono i controlli di tali incompatibilità affidati, come per esempio in Messico e in altri Paesi dell’America Latina, ad organi terzi e imparziali9.

Obiezioni scettiche all’ipotesi di un costituzionalismo globale

Tutti questi processi appaiono oggi per un verso insostenibili e per altro verso inverosimili. Distinguerò due ordini di obiezioni scettiche alla prospettiva di un loro possibile sviluppo: uno di carattere teorico, l’altro di carattere politico.
Secondo un primo ordine di obiezioni teoriche, un costituzionalismo globale e perfino europeo sarebbe insostenibile non esistendo un popolo globale omogeneo, e neppure un omogeneo popolo europeo. Dietro questa tesi c’è l’idea, sostenuta esemplarmente da Carl Schmitt, che il fondamento assiologico di una Costituzione sarebbe una qualche coesione sociale e culturale dei soggetti ai quali è destinata, o peggio una loro comune volontà, o peggio ancora una loro comune identità politica o culturale o nazionale: in breve, l’esistenza di un demos quale fonte non solo della sua effettività, ma anche della sua legittimità. Ogni Costituzione, scrisse Schmitt, è l’espressione dell’«unità politica di un popolo»; è l’atto che «costituisce la forma e la specie dell’unità politica, la cui esistenza è presupposta».10 È una concezione della Costituzione che a mio parere va letteralmente ribaltata. Entro una teoria della democrazia costituzionale le Costituzioni vanno concepite, hobbesianamente, come patti di convivenza, tanto più necessari e preziosi quanto più profonde e conflittuali sono le differenze personali e le soggettività politiche che sono chiamati a tutelare, e quanto più vistose e intollerabili sono le disuguaglianze materiali che hanno il compito di rimuovere o ridurre. Esse non servono, quindi, a rappresentare organicamente una immaginaria volontà comune di un popolo o ad esprimere una qualche omogeneità sociale o identità collettiva. Se fosse questa la loro finalità se ne potrebbe tranquillamente fare a meno. Servono bensì a garantire i diritti di tutti, anche contro la maggioranza, e perciò ad assicurare la convivenza pacifica tra soggetti e interessi diversi e virtualmente in conflitto. Sono, per così dire, patti di non aggressione e di mutuo soccorso, la cui ragione sociale è la garanzia della pace e dei diritti vitali di tutti, tanto più essenziali quanto maggiori, per le forti disuguaglianze e differenze, sono i pericoli di guerra o sopraffazione. La loro legittimità, diversamente da quella delle leggi ordinarie, consiste non già nel fatto di essere volute da tutti, ma nel fatto di garantire tutti.
Una versione aggiornata di questo argomento scettico consiste nella tesi che un costituzionalismo oltre lo Stato sarebbe viziato dalla cosiddetta fallacia della “domestic analogy”, essendo irrealistica e destinata all’insuccesso qualunque progettazione dell’ordine internazionale che riproduca le strutture e i presupposti delle odierne democrazie statali11. L’ordinamento internazionale difetterebbe, secondo questa tesi, di taluni tratti essenziali alla formazione dello Stato di diritto che appartengono soltanto agli ordinamenti statali: come l’esistenza, di nuovo, di un popolo mondiale e di una società civile planetaria, nonché lo sviluppo di un’opinione pubblica globale e di partiti sovranazionali. Anche questa tesi, a me pare, deve essere ribaltata. Al di là del nesso appena criticato tra “popolo” nel senso schmittiano e Costituzione, è proprio la pretesa di una perfetta analogia dell’ordinamento internazionale con gli ordinamenti statali che riflette l’idea, viziata da fallacia domestica, che non esista altro tipo di istituzione politica suscettibile di essere sottoposta a limiti e a vincoli costituzionali che non sia lo Stato nazionale; laddove quell’analogia è solo una conferma induttiva della validità della tesi teorica, suffragata dall’esperienza storica degli Stati, secondo cui il diritto è il solo strumento razionale di pacificazione e civilizzazione dei conflitti e la sola alternativa realistica alla guerra e alla legge del più forte. Ben più serie sono le obiezioni di tipo realistico che sostengono l’assoluta improbabilità e inverosimiglianza di un processo di integrazione politica globale. Certamente, infatti, nulla consente di essere ottimisti: i ritardi e le inadeguatezze delle attuali politiche, statali e internazionali, rendono del tutto improbabile lo sviluppo di un costituzionalismo sovranazionale. Ma non identifichiamo ciò che i poteri economici e politici non vogliono fare con ciò che è impossibile fare. Non confondiamo, se non vogliamo occultare le responsabilità della politica e i potenti interessi dai quali è condizionata, tra conservazione e realismo, squalificando come irrealistico o utopistico ciò che semplicemente contrasta con gli interessi e con la volontà dei più forti. Contro questa fallacia pseudo-realistica, che equivale a una legittimazione teorica dell’esistente, dobbiamo essere consapevoli del fatto che nelle attuali violazioni e inadempienze delle tante promesse formulate nelle tante Carte costituzionali e internazionali non c’è nulla di inevitabile; che in quanto è accaduto e potrà accadere non c’è nulla di necessario o di naturale, ma solo il risultato delle politiche dissennate con le quali la crisi è stata dapprima cagionata e poi aggravata; che perciò un altro mondo e un’altra Europa sono possibili, se e solo se la politica sarà capace di un’inversione di rotta; che, soprattutto, la vera mancanza di realismo consiste nell’idea che la realtà possa rimanere come è, e l’umanità possa continuare nella sua folle corsa verso lo sviluppo insostenibile e la crescita delle disuguaglianze senza andare incontro a un futuro distruttivo.
Una cosa, infatti, è certa. Oggi o si va avanti nel processo costituente europeo e poi globale e si avvia un processo generale di integrazione politica basato sulla garanzia della pace e dei diritti vitali di tutti, oppure si va indietro, ma indietro in modo brutale e radicale. O si perviene all’integrazione costituzionale e all’unificazione politica dell’Europa, magari ad opera di un’Assemblea costituente europea, oppure si produce una disgregazione dell’Unione e un crollo delle nostre economie e delle nostre democrazie, a vantaggio dei tanti populismi che stanno crescendo in tutti i Paesi europei. O si impongono limiti, nell’interesse di tutti, allo sviluppo sregolato e selvaggio del capitalismo globale, oppure si va incontro a un futuro di sicure catastrofi: alle devastazioni ambientali conseguenti a uno sviluppo industriale ecologicamente insostenibile; alla minaccia nucleare in un mondo affollato di armamenti incomparabilmente più micidiali di quelli dell’epoca di Hobbes; alla crescita esponenziale della disuguaglianza, della miseria e della fame e allo sviluppo incontrollato della criminalità organizzata e del terrorismo.
L’intera storia del diritto moderno è la storia travagliata di un lungo processo di limitazione dei poteri assoluti, tramite vincoli ad essi imposti quali strumenti di tutela e di attuazione dei diritti fondamentali e della pacifica convivenza. È perciò un elementare realismo dei tempi lunghi che impone con urgenza, quale condizione di sopravvivenza del genere umano, il disarmo generalizzato, l’imposizione di limiti allo sviluppo industriale insostenibile e la globalizzazione delle garanzie, dei diritti fondamentali e dei beni comuni e vitali. Sarebbe un fallimento della ragione – di quell’artificial reason alla quale, all’origine dell’età moderna, si richiamò Thomas Hobbes a sostegno del contratto sociale – se questo processo si interrompesse proprio allorquando i poteri vecchi e nuovi sono diventati più minacciosi che mai per la sopravvivenza dell’umanità.

Luigi Ferrajoli

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