L’EPIDEMIA MINACCIA ANCHE IL PENSIERO

Volgo attenzione non al COVID-19, al protocollo sanitario, alle misure di prevenzione e contenimento proposte dall’OMS e dal governo italiano, ma all’ondata emotiva, al crudo ‘reale’ che l’invisibile virus ha destato in noi e alle sue ricadute sul pensiero, le relazioni interpersonali, la vita della comunità e i rapporti internazionali. Anna Sabatini Scalmati

L’EPIDEMIA MINACCIA ANCHE IL PENSIERO
CERCARE NUOVI MODI DI ABITARE LA TERRA

di Anna Sabatini Scalmati

Volgo attenzione non al COVID-19, al protocollo sanitario, alle misure di prevenzione e contenimento proposte dall’OMS e dal governo italiano, ma all’ondata emotiva, al crudo ‘reale’ che l’invisibile virus ha destato in noi e alle sue ricadute sul pensiero, le relazioni interpersonali, la vita della comunità e i rapporti internazionali.

La mente, sofisticata lettrice degli stati d’animo, del negativo che interno ad ogni rappresentazione abita i pensieri, accanto al noto percepisce il ‘non ancora noto’, negli eventi coglie impressioni, sensazioni che si presentano prima del logos; ad esso, a noi, al ‘metasociale’ il compito di accoglierle e farsene carico.
Del coronavirus ci è noto il supposto luogo di prima individuazione, le manifestazioni sintomatiche, il decorso e il numero dei contagi. Più difficile avvicinare le reazioni emotive che le misure messe in atto dall’autorità hanno sul vissuto dei singoli, sulle istituzioni, sui giovani, sul corpo sociale e la circolazione dei pensieri, sulla paura che dagli archivi del nostro millenario passato evolutivo balza in primo piano; una paura che, a fronte di possibili sofferenze, e nel tentativo di evitarle, proteggersi ed essere protetti, riattualizza atteggiamenti, pregiudizi, chiusure, diffidenze, piani difensivi e, ad essi connessi, piani offensivi. La paura innalza muri, la difesa affila le armi.
La lotteria della morte a cui l’invisibile ospite ci convoca, piega l’attenzione di tutti noi sul sistema mondo, i valori culturali, lo sfruttamento delle risorse, le contraddizioni socio-economiche, il modello di produzione, i conflitti.
Il virus, microrganismo acefalo, indifferente al nostro destino, gestisce il banco, sfilaccia la narcisistica onnipotenza dell’umano, il bulimico fare, produrre, consumare. Impari confronto. L’ingegnosa ‘Torre di Babele’, da noi eretta sul progetto di uno sviluppo illimitato, corrosa da invisibili tarli, sul punto di implodere, è ora costretta a misurarsi con la ‘dura’ realtà, il sistema mondo e le ferite che l’umano ha inferto alla vita di cui dovrebbe essere vestale.

Il virus e le relazioni sociali

Gemellato con epidemia e pandemia, da settimane il Covid-19 ci misura con emozioni che il registro dei ricoveri, aggiornato in tempo reale, i notiziari e i social mantengono sempre deste; ansie strettamente connesse alla fragilità dei nostri corpi, ai loro bisogni, al loro essere destinati a finire. Ansie che affacciano stati depressivi, paranoie, immagini di inquietanti privazioni, rappresentazioni di pericolo-angoscia–impotenza che, per difendersi, si aprono all’offesa: aggressività a cui risponde l’aggressività dell’altro.
Ansie fra cui affiora il timore del lutto che, dallo stanzino del sottosuolo mentale ove con grande abilità la cultura dominate l’ha sospinto, salta in primo piano. Impari confronto tra la fragilità dell’organismo e il virus che silente e invisibile attraversa i confini e, senza permesso di soggiorno, parassita le cellule.
“Mantenete le distanze, diffidate, lavatevi le mani” – ripetute raccomandazioni delle autorità sanitarie -, fanno della strada un luogo denso di minacce. Le parole captate dal passante accelerano i battiti cardiaci, affrettano il passo verso casa. Un senso di impotenza annebbia la riflessione, la corretta analisi, inibisce il pensiero e innalza una diga che separa gli uni dagli altri; una nebbiolina di sospetto anche sulle persone care.
Al di qua l’io sano, al di là il potenziale untore, il colpevole, il portatore di virus che, virus da evitare, deve essere tenuto lontano.
Le relazioni interumane gravide di sospetti riesumano dagli interstizi più o meno dormienti della storia, pregiudizi xenofobi che fertilizzano correnti di pensiero intrise di razzismo e ostilità. Sui vicini si riversano fabule, proiezioni che disegnano sul volto dell’altro i tratti del pericolo, del male. Humus ad alto rischio esplosivo che apre le chiuse a fobie, paranoia, isteria e fertilizza il potenziale distruttivo che, sempre presente nell’umano, in un breve volgere di tempo contagia al negativo le interrelazioni che uniscono la specie. Pagine nere della storia raccontano quanto e come, in un breve volgere di scena, la paura ‘uccide l’anima’.
Fin dai primi casi di cui si è avuta notizia, il Covid-19 e la Cina sono stati ‘razzizzati’. Il virus è il ‘cigno nero’ della cultura, dei mercati, delle festività del capodanno della grande repubblica che, guarda caso, ha inaugurato l’anno del ‘topo’ e, da noi, ha dato semaforo verde al virus Ali: Amministratori locali ignoranti.

La spagnola non nacque in Spagna

Il Covid-19 richiama un anniversario non da festeggiare, ma da ricordare. Quest’anno ricorre il centenario della fine della influenza spagnola, la pandemia che dal marzo del 1918 al marzo 1920 ha seminato milioni di morti in tutti i continenti. Sulla identità dell’allora paziente zero, gli scienziati e gli storici non sono ancora certi. Alcuni pensano sia stato un cittadino USA, altri un soldato sul fronte francese, altri un contadino cinese. Ma un documento dell’archivio militare USA attesta che il 4 marzo del 1918 nel Kansas, un ranciere si è presentato in infermeria con febbre e dolori; dopo di lui, altri soldati hanno accusato i medesimi sintomi e in poche ore tutti i letti del reparto vennero occupati. Negli stessi giorni in Francia e in Inghilterra un’influenza particolarmente virulenta si era diffusa fra le truppe, ma, per non demoralizzare i soldati e la popolazione già stremata dalla guerra, non se ne diede notizia. Quando, due mesi dopo, in maggio, l’influenza si è propagata nella penisola iberica e il suo volto letale ha allarmato le autorità, la Spagna, paese neutrale, libera da restrizioni di guerra, ne ha denunciato la presenza. Avvenne così che il virus, che fino al marzo del 1920 ha fatto strage nei cinque continenti, prese il nome della nazione che ne diede notizia.
Ma torniamo all’oggi. Non diversamente da altri virus, che attraversano i confini nazionali e – come le merci – cavalcano la globalizzazione, il Covid-19 per la carica transitiva che gli è propria, superata la grande muraglia, si è diffuso nei quattro punti cardinali.
Le istituzioni nazionali ed internazionali, seriamente allarmate, hanno decretato leggi di emergenza, cordoni sanitari, controlli alle frontiere, quarantene, blocco della circolazione, chiusura delle scuole, delle attività commerciali, dei luoghi pubblici e di culto. Inedite pagine di storia che rendono più cupa l’angoscia; per tutti il domani è incerto. La pressoché totale reclusione dei cittadini divide i gruppi familiari, i nonni dai nipoti; i contagiati allontanati dalle cure dei propri cari e questi, impotenti a prestare loro aiuto, in passiva attesa di notizie.
Nelle famiglie, il forzato arresto delle attività coniugato con la forzata convivenza surriscalda gli affetti.
Il brutale confronto con il domani incerto, non apre periodi ipotetici, ma la realtà di un evento che, sparigliate le carte, declina stati d’animo ed emozioni. L’ansia morde, traspare nei gesti, negli sguardi tesi, nel sé contratto o si sprigiona in manifestazioni isteriche, crolli melanconici, depressioni, paranoie; in rete nel contempo scorrono false notizie, truffe, rimedi che garantiscono un’immunità pressoché totale. Nelle carceri, i luoghi più fragili e infelici del contesto nazionale, all’ordine di sospendere le visite dei familiari, i reclusi insorgono: più di dieci le vittime, seri i danni alle strutture.

Guardare con occhi nuovi

Danni collaterali dell’epidemia, tra questi primeggia la paranoia (para, alterazione, nóos, pensiero), sistematizzato delirio di persecuzione che mette in campo rappresentazioni che giacciono nel fondo arcaico della mente. La paranoia, pensiero che delira, è una coloritura della logica razionale che, propria sia alla ragione sia al delirio, moltiplica paure e allarmi. Qualora questi divengano egemoni, la ragione non solo non le si oppone, ma sistematizza il delirio e da esso si fa guidare. Nelle situazioni di tensione l’irrazionalità del pensiero paranoico, inizialmente valorizzata come utile cautela, si dissimula con facilità perché solo gradualmente, alla ricerca della presunta causa del fatto e della colpa, il pensiero si arrocca su se stesso, abbandona ogni sintassi logica e scivola via dalla corretta analisi dei fatti.
Non al delirio, ma ad un pensiero riflessivo siamo chiamati a prestare attenzione, un pensiero in grado di assumersi la responsabilità del domani, di sostare nella “posizione depressiva” che rallenti il fare, moderi l’avere e abbracci la specie e le specie e i valori intensi e caldi degli affetti.
In questi giorni che, nelle strade sorde e deserte, lungo i nastri di asfalto non calpestati, il mondo di ieri è uscito di scena e l’orizzonte si è fatto prepotentemente vicino, a noi carichi del millenario capitale di intelligenza teorica e di esperienza, il compito di volgere attenzione alla accelerazione dei processi di sviluppo, alle ricadute che le pratiche zootecniche, l’inquinamento delle acque, dei territori e della atmosfera hanno sui mutamenti climatici e la mutazione dei ceppi virali.
A noi il compito di iniziare con occhi nuovi a vedere “il volto dell’altro” (Levinas), l’intera specie umana e offrire al futuro nuovi modi di abitare la terra, abitare la vita e abitare la storia.
Anna Sabatini Scalmati

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