COME L’ITALIA HA FOMENTATO LE GUERRE DELLA NATO

L’Alleanza atlantica si è arrogata il diritto di guerra con l’intervento in Jugoslavia nel 1999. In Italia c’è voluta anche una crisi di governo

Domenico Gallo

L’Alleanza atlantica si è arrogata il diritto di guerra con l’intervento in Jugoslavia nel 1999. In Italia c’è voluta anche una crisi di governo

Domenico Gallo

Pubblichiamo la prefazione di Domenico Gallo al libro “La NATO nei conflitti europei: ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi” (Biagio di Grazia & Delta 3 Edizioni, 2022) del Gen. Biagio di Grazia che ha servito nella NATO ed è stato addetto militare presso l’ambasciata italiana a Belgrado.

  1. Un mondo impazzito.

Nel volgere di sei mesi l’orizzonte di vita dei popoli europei è cambiato bruscamente. Il 24 febbraio 2022 si è fatto buio all’improvviso. Una guerra feroce e catastrofica è scoppiata sul confine orientale dell’Europa, travolgendo i destini di milioni di persone e riverberando i suoi effetti nefasti, a cominciare dall’Europa, in tutto il mondo. La guerra fra l’Ucraina (armata e diretta dalla NATO) e la Russia ha superato i 200 giorni e all’orizzonte non si intravede alcuna possibilità di porre termine ai combattimenti con un accordo di pace. La guerra, le tensioni geostrategiche e la conseguente corsa al riarmo stanno rendendo ancora più acuta la crisi ecologica prodotta dal riscaldamento del pianeta. Le timide misure per la riconversione dell’economia miranti alla riduzione delle emissioni da fonti fossili si stanno trasformando nel loro contrario con la programmata riapertura delle centrali a carbone. La siccità e la crisi energetica prodotta dalla guerra stanno provocando un’impennata dell’inflazione ed una penuria di beni essenziali, destinata ad incidere profondamente sulla vita di milioni di persone. Ci stiamo preparando ad un inverno di razionamenti, di freddo e di fame, come non avveniva dalla Seconda Guerra Mondiale. Dal 1945 gli orizzonti non sono mai stati così cupi. Durante la guerra fredda, anche nei periodi di maggiore tensione, sono sempre entrati in vigore dei meccanismi di raffreddamento, sono scattati dei freni d’emergenza, che adesso non ci sono più. In quel periodo la speranza della distensione non è mai venuta meno, è stata sostenuta da robusti movimenti popolari di massa ed ha consentito a paesi di frontiera come l’Austria, la Svezia e la Finlandia di prosperare mantenendosi indipendenti dai blocchi militari contrapposti. Adesso quei movimenti popolari che si battevano per espellere la guerra dall’orizzonte della politica non ci sono più, i sindacati tacciono, i diversi partiti politici europei fanno a gara ad indossare l’elmetto e a recitare litanie di fedeltà alla NATO e alla sua politica volta ad alimentare la guerra in Ucraina, fino alla vittoria (?). Quello che ci prospettano gli architetti dell’ordine mondiale è un futuro spaventoso, fatto di riarmo, di disastri climatici ed economici, di sfide continue nei confronti della Russia e della Cina, in fondo alle quali l’unica via d’uscita è una nuova guerra mondiale.

E’ questo il volto del nuovo ordine mondiale annunciato dal Presidente degli Stati Uniti, George Bush senior, nel settembre del 1990, preconizzando un nuovo ruolo degli Stati Uniti destinati a modellare l’ordine internazionale grazie alla loro superiorità economica, tecnologica e militare?

L’opinione pubblica internazionale  si è resa conto del deteriorarsi irrimediabile delle relazioni internazionali soltanto quando la TV ha mostrato i lampi delle prime esplosioni, ma l’orizzonte di guerra in cui siamo immersi ha avuto una lunga incubazione, è frutto di una politica a guida USA che ha cercato tenacemente la costruzione di un nemico: alla fine, dopo un processo durato oltre venti anni, il nemico si è materializzato e la parola è stata affidata alle bombe.

Superato lo stupore per questo brusco cambiamento degli orizzonti internazionali, dobbiamo chiederci dove questo processo ha avuto inizio e quali sono le cause che lo hanno determinato, quando si è determinata la svolta nella storia che ci ha fatto imboccare il sentiero in discesa che ci ha portato ai drammatici avvenimenti di questi ultimi mesi.

A questi interrogativi, offre una risposta sensata e autorevole il generale Biagio di Grazia, avvalendosi della sua esperienza professionale maturata in Germania nel Comando della Forza di Reazione Rapida della NATO, e poi a Bruxelles, a Zagabria, a Sarajevo e infine a Belgrado, come addetto militare dell’ambasciata italiana.

L’autore è stato testimone privilegiato di quell’inspiegabile evento che è stata la campagna di bombardamento condotta dalla NATO per 78 giorni, diretta a disgregare quello che restava della ex Jugoslavia, “guerra umanitaria”, la cui memoria è stata velocemente rimossa e cancellata dall’immaginario collettivo.  Eppure è in quell’evento, come ci avverte il generale di Grazia nella prefazione, che vanno ricercati gli antecedenti di quello che sta succedendo oggi nel teatro di guerra dell’Ucraina.

Con l’intervento armato della NATO contro la Jugoslavia sono state poste le basi per un cambiamento della Storia, è stato introdotto un nuovo paradigma nella vita della Comunità internazionale, di cui adesso raccogliamo i frutti velenosi.

Per comprendere la portata di questo cambiamento della Storia bisogna risalire ad un altro evento che convenzionalmente viene considerato un momento di passaggio da un’epoca ad un’altra: il crollo del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

  1. Il crollo del muro: l’annuncio di una nuova epoca.

Fu una notte di festa straordinaria a Berlino quando i vopos si ritrassero ed una folla sterminata si precipitò a scavalcare quel muro che per 28 anni aveva diviso in due il cielo dei berlinesi; diviso le famiglie; separato i destini di chi si trovava al di là o al di qua del muro. Una barriera luttuosa non solo in senso metaforico, se si considera che furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest; una ferita sanguinosa inferta nel corpo vivo del popolo tedesco che, improvvisamente, spariva nel corso di una sola notte.

Il crollo del muro di Berlino fu lo sbocco di un processo di distensione dovuto allo straordinario rinnovamento delle relazioni internazionali introdotto dalla perestroika quando l’Unione Sovietica guidata da Gorbaciov depose le armi del confronto militare facendo franare la reciprocità violenta dell’equilibrio del terrore e restituendo la libertà di autodeterminazione ai popoli che teneva assoggettati al suo controllo. Il crollo del muro fu vissuto in tutto il mondo come l’epifenomeno che annunciava la fine di un’era, quella della guerra fredda che aveva ingessato l’ordine pubblico mondiale. L’epoca dei muri, del confronto brutale fondato sulla forza, della corsa agli armamenti, dell’equilibrio del terrore franava sotto i nostri occhi come sotto l’effetto del terremoto della storia. Al suo posto nasceva la speranza di una nuova epoca in cui si potesse avverare la profezia della Carta della Nazioni Unite, di un’umanità liberata per sempre dal flagello della guerra, dove le relazioni internazionali ed interne agli Stati fossero regolate dal diritto e dalla giustizia.  In quell’epoca furono stipulati accordi sul disarmo impensabili fino a qualche anno prima, furono delegittimate le alleanze militari contrapposte, fino al punto che si arrivò allo scioglimento del patto di Varsavia. In quell’epoca si riducevano in tutto il mondo le spese militari e i popoli confidavano di ricevere i dividendi della pace ristabilita. In questa breve stagione l’Onu, finalmente scongelata, cominciò a svolgere efficacemente il ruolo per il quale era stata istituita e riuscì a risolvere alcune delle più incancrenite situazioni di conflitto (come quelle della Namibia, della Cambogia, del Salvador) e il suo segretario generale Butros Ghali concepì un’ambiziosa Agenda per la pace. In altre parole, si respirava un clima di euforia che vedeva l’umanità finalmente sottratta al ricatto della violenza bellica e incamminata lungo quel binario, prefigurato dalla carta dell’ONU, che portava alla pace attraverso il diritto. Questa speranza di un futuro radioso e pacifico è stata smantellata rapidamente dagli architetti dell’ordine mondiale che hanno agito coerentemente per porre fine al clima di cooperazione pacifica generato dalla fine della guerra fredda.

  1. Le speranze tradite.

Nei circoli occidentali la fine della guerra fredda venne interpretata come una vittoria e il ritiro dell’Unione Sovietica dalla competizione militare come il frutto di una sconfitta determinata dalla forza delle armi dell’Occidente. La lezione che gli architetti dell’ordine mondiale trassero dagli eventi del 1989 fu che dal mondo bipolare si potesse passare all’avvento di un mondo monopolare in cui un’unica superpotenza avrebbe garantito la pace e l’ordine pubblico internazionale. E fu proprio questa l’interpretazione ufficiale di quegli eventi che anche in Italia il ministro degli esteri dell’epoca, Gianni De Michelis, fornì alla camera il 20 marzo 1990. In quest’ottica la logica di potenza non subiva nessun ripensamento, anzi veniva esaltata, la NATO non perdeva la sua ragione di essere, malgrado lo scioglimento del patto di Varsavia, gli strumenti militari non correvano il rischio di essere condizionati dalla spinta globale al disarmo. In questo contesto intervenne il discorso del Presidente Bush che, nel settembre del 1990, reagendo all’invasione irachena del Kuwait annunciò la nascita di un “nuovo ordine mondiale”, basato, non sui principi della convivenza pacifica dettati dalla Carta dell’ONU, bensì sulla capacità della superpotenza americana, non più contrastata dall’Unione Sovietica, di assicurare in tutto il mondo un “ordine” confacente ai propri interessi. Il documento più significativo a questo proposito appare quello pubblicato dal New York Times l’8 Marzo 1992, Defense Planning Guidance for years 1994-1999, redatto da uno staff di funzionari del dipartimento di Stato e del ministero della difesa, presieduto dal sottosegretario alla difesa Paul D. Wolfowitz. Il documento parte dal riconoscimento che gli Stati Uniti, a seguito della scomparsa del blocco sovietico, hanno acquistato lo statuto di superpotenza unica: “tale statuto deve essere perpetuato attraverso un comportamento costruttivo ed una forza militare sufficiente per dissuadere qualunque nazione o qualunque gruppo di nazioni dallo sfidare la supremazia degli Stati Uniti”. Il rapporto si sofferma a lungo sull’esigenza di privilegiare la potenza militare come strumento per garantire la preponderante egemonia internazionale americana. La preoccupazione fondamentale di conservare agli Stati Uniti lo statuto di superpotenza unica non valeva soltanto per gli antichi o i potenziali avversari ma anche per gli alleati: “Noi dobbiamo agire – recita il documento – in vista di impedire l’emergere di un sistema di difesa esclusivamente europeo che potrebbe destabilizzare la NATO.”

La prima guerra del Golfo (16 gennaio-28 febbraio 1991), fu l’occasione per imporre un cambio di passo nelle relazioni internazionali e rilegittimare il ricorso alla violenza bellica come strumento di tutela degli interessi di alcune nazioni e di riaffermare il ruolo egemonico degli Stati Uniti, come unica potenza dotata di una indiscutibile superiorità militare e della volontà di usarla, senza remora alcuna, per perseguire i propri obiettivi.

Tuttavia, l’esperienza della prima guerra del Golfo presentava ancora un tasso di ambiguità perché la coalizione a guida USA aveva agito dopo aver ricevuto il consenso di quasi tutta la Comunità internazionale e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che aveva autorizzato l’uso della forza per ottenere la liberazione del Kuwait con la Risoluzione 678 del 29 novembre 1990. In quest’esperienza fu osservato che gli USA avevano utilizzato l’ONU come un negozio di abbigliamento giuridico per ammantare di legalità   il ricorso al linguaggio della guerra che, nel clima del dopo guerra fredda, veniva pur sempre considerato un tabù da una gran parte dell’opinione pubblica internazionale. Da più parti venne osservato che si trattava di una guerra di “sdoganamento” della guerra.

Questo processo di rilegittimazione della guerra come strumento ordinario della politica di potenza (dell’Occidente), e di delegittimazione dell’ordine giuridico fondato sulla Carta dell’ONU, per realizzarsi compiutamente aveva bisogno di compiere un balzo in avanti. L’occasione propizia fu offerta dal conflitto che portò alla dissoluzione della ex Jugoslavia.

  1. Il retroterra del conflitto

Il generale di Grazia delinea in alcuni capitoli di questo libro gli elementi fondamentali della storia della Jugoslavia ed i passaggi che hanno determinato il crollo della Federazione, la guerra in Bosnia, conclusa con il Trattato di Dayton, e la successiva crisi del Kosovo, mettendo in evidenza la responsabilità degli opposti nazionalismi e l’interazione con gli interventi delle Cancellerie occidentali e della NATO.

Il retroterra dell’attacco della NATO alla Jugoslavia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la NATO dopo la fine della guerra fredda e che venne ufficialmente proclamato a Washington il 24 aprile dello stesso anno,  proprio mentre veniva sperimentato in vivo.

Pochi ricordano che nell’estate del 1993, durante una delle fasi più oscure del conflitto in Bosnia si verificò un durissimo braccio di ferro fra la NATO (che minacciava di intervenire in Bosnia con bombardamenti contro le forze Serbo-bosniache) e l’UNPROFOR (i caschi blu dell’ONU) che si opponeva con tutte le sue forze ad azioni di bombardamento autonomamente decise dalla NATO. Il braccio di ferro si concluse con la stipula di un memorandum d’intesa, siglato nell’agosto dall’ammiraglio americano Jeremy Borda (Comandante delle operazioni NATO) e dal gen. Francese Jean Cot (Comandante delle forze UNPROFOR) con quale fu stabilito il principio che la NATO non poteva bombardare senza il consenso della missione dell’ONU, sebbene astrattamente autorizzata all’intervento dalle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che avevano stabilito alcune misure interdittive della guerra e coercitive per i belligeranti. E quando la NATO finalmente intervenne nella fase finale della guerra in Bosnia, nella notte fra il 29 ed il 30 agosto del 1995, ciò accadde soltanto per effetto di una legittima (ma inopportuna) richiesta di intervento dell’ONU, che faceva seguito allo sconcerto ed all’indignazione provocata dalla strage del mercato di Sarajevo occorsa il giorno precedente (28 agosto), della quale non fu mai possibile conoscere i responsabili.

Furono proprio le vicende della guerra di Bosnia e la possibilità – e per un limitato verso anche l’esigenza – che la NATO giocasse un ruolo nel contesto delle garanzie della sicurezza internazionale a far sì che venisse messa a punto nell’ambito della NATO una strategia operativa di intervento per la gestione delle crisi, svincolata dai limiti, dai principi e dalle procedure dell’ONU. In questo contesto, per la decisa posizione assunta all’Italia, durante il Governo Dini (1995), fu stabilito che la NATO non aveva legittimità a ricorrere a misure comportanti l’uso della forza senza la preventiva autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, come del resto prevede la Carta delle Nazioni Unite. Addirittura in questo periodo il ministro degli esteri del Governo Dini, Susanna Agnelli, diede platealmente uno schiaffo agli Stati Uniti, vietando – per qualche tempo – che fossero dislocati ad Aviano i cacciabombardieri invisibili Stealth, (che saranno i principali protagonisti della guerra del 99), fino a quando l’Italia non fu inclusa nel Gruppo di Contatto, da cui l’amministrazione americana voleva tenerla fuori. Questa posizione assunta dal Governo Dini fu ereditata dal Governo Prodi e lo stesso Dini, come ministro degli esteri la mantenne in piedi, come posizione ufficiale della Farnesina, in dichiarazioni pubbliche e comunicati stampa, fino al settembre del 1998.

Nel frattempo la crisi della convivenza interetnica fra serbi ed albanesi nel Kosovo si aggravò in quanto qualcuno decise di soffiare sul fuoco del conflitto armato, appoggiando una banda armata (l’UCK) che aveva avuto oscure origini e che fino a quel momento non aveva giocato un ruolo effettivo.

E’ il 1° marzo 1998 la data che segnò l’inizio della guerriglia dell’UCK, con l’uccisione di due poliziotti serbi a Drenica, a cui fece seguito una reazione inconsulta che provocò la morte di 20 albanesi. Nella primavera del 1998 si accesero i fuochi di sporadiche azioni di guerriglia a cui fecero seguito drastiche azioni di repressione.

A questo punto la NATO, sotto la spinta dell’amministrazione americana, decise di intervenire “politicamente” nel conflitto lanciando, con un comunicato del Consiglio atlantico del 28 maggio, un duro monito a Belgrado, in cui lasciava intravedere la possibilità di un intervento militare. Questa posizione, in realtà, più che favorire un self restraint da parte dell’apparato militare jugoslavo, non poteva che incoraggiare l’UCK sulla strada della guerriglia che, seppure perdente sul terreno, in prospettiva diventava vincente, potendo giocare un ruolo di detonatore per l’intervento militare occidentale. I furiosi combattimenti che ne sono seguiti durante l’estate del 98 e la durissima repressione scatenata dalle forze di sicurezza serbe (peraltro ingigantita dalla stampa internazionale con la fabbricazione di notizie false) hanno sollecitato lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale, creando l’humus politico favorevole per l’intervento della NATO. C’era, però, un problema da risolvere.

La carta delle Nazioni Unite non consente che gruppi di Stati possano ricorrere all’uso della forza per regolare le crisi internazionali e, conseguentemente, la NATO non aveva alcuna legittimità per effettuare un intervento militare per regolare la crisi del Kosovo, aggredendo una delle parti in conflitto ed alleandosi con l’altra.

Nel corso della primavera, dell’estate e del mese di settembre del 1998,  si sviluppò un dibattito sulla possibilità che la NATO intervenisse militarmente nel Kosovo, anche in assenza di una formale autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza. Tale dibattito nascondeva un conflitto politico durissimo fra Stati Uniti e Gran Bretagna (che sostenevano la tesi della legittimità del ricorso alla forza) e l’Italia che continuava ad opporsi. Tale posizione, peraltro, non era affatto scontata all’interno del Governo italiano, in quanto il Ministro della Difesa Beniamino Andreatta, propugnava l’allineamento totale dell’Italia alle esigenze degli Stati Uniti, secondo la tradizionale politica di “fedeltà atlantica”, tuttavia gli equilibri politici di maggioranza escludevano che il Governo Prodi potesse assumere una posizione differente senza rischiare una crisi.

E’ sorta a questo punto per l’Alleato americano l’esigenza di provocare un mutamento di Governo in Italia per ottenere una maggioranza più omogenea alle esigenze belliche della NATO. Poiché non si poteva correre il rischio di nuove elezioni, il cui esito non sarebbe stato prevedibile, è sorta l’esigenza di trovare una maggioranza di ricambio che potesse fare accrescere il tasso di “fedeltà atlantica” dell’Italia, sostituendo Rifondazione comunista con forze più omogenee alla NATO. A questo punto è stato attivato il più autorevole dei terminali della CIA nel sistema politico italiano, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, l’uomo di Gladio. Cossiga, fino all’inizio del 1998 aveva svolto un ruolo di tutore del centro destra e sembrava che volesse contendere a Berlusconi la leadership della destra. Nella primavera del 1998 Cossiga fece una brusca inversione ed, utilizzando la sua influenza politica occulta ma reale sul sistema politico italiano, riuscì a staccare una frazione di deputati e senatori dal centro destra, fondando l’Udeur, con il dichiarato scopo di far nascere una nuova maggioranza politica che sostituisse quella basata sull’alleanza dell’Ulivo più Rifondazione e guidata da Prodi.

Quasi tutti hanno commentato l’operazione Udeur guidata da Cossiga come una manifestazione del peggiore costume trasformistico italiano. Ed invece tale operazione, che si avvaleva della tendenza al trasformismo esistente nel sistema politico italiano, aveva uno specifico significato ed un preciso obiettivo di natura internazionale: quello di provocare un mutamento della posizione internazionale dell’Italia e di ottenere la legittimazione della NATO al ricorso alla guerra, come strumento della politica di potenza americana.

Operazione perfettamente riuscita.

Perso il condizionamento di Rifondazione comunista, indeboliti i Verdi, indebolita la posizione autonomistica di Dini, il 12 ottobre 1998 il Governo Prodi, sebbene sfiduciato, compì l’atto politicamente più rilevante dalla sua nascita, e più gravido di conseguenze per il futuro, accettando l’adesione dell’Italia all’activation order.

In sede politica la svolta dell’Italia sulla liceità del ricorso all’uso della forza da parte della NATO era stata propugnata dall’allora segretario del partito dei DS – l’on. Massimo D’Alema – e dal Sottosegretario alla Difesa, Massimo Brutti, i quali si erano affrettati a dichiarare che la concessione dell’uso delle basi italiane (nella imminente guerra contro la Jugoslavia) costituiva un “atto dovuto” ed un effetto “automatico” della partecipazione italiana alla NATO.

Era ormai alle porte un Governo D’Alema, che nacque il 21 ottobre 1998 con la benedizione di Cossiga e con l’uomo giusto, Carlo Scognamiglio, al posto giusto, il Ministero della Difesa.

Sul Foglio del 4 ottobre 2000 proprio Carlo Scognamiglio, polemizzando con James Rubin, l’ex portavoce di Madeleine Albright, si lasciò sfuggire:

A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politici-militari che si delineavano in Kosovo…Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe mai potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” In che cosa consisteva questo accordo? “Due parti. La prima era il rispetto dell’impegno per l’euro (.) la seconda era il vincolo di lealtà alla NATO:l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la NATO avrebbe deciso di fare.” Questo è esattamente ciò che l’Italia ha fatto.

  1. Le modalità dell’intervento NATO e la partecipazione italiana.

Il messaggero del Male, coperto dal manto nero intessuto di buio e di morte, si è fermato stamattina alla mia porta, poco prima delle otto.” Così la scrittrice serba Tijana Djerkovic descrive il suo risveglio, la mattina del 24 marzo 1999, con la notizia che nella notte sono iniziati i bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia (Il cielo sopra Belgrado, Besa editrice, 2018).

Nel 1999 dopo oltre 50 anni di pace in un paese europeo è ritornata la guerra; di nuovo, come una volta, le città sono state lacerate dal suono delle sirene, di nuovo nella notte i cieli sono stati solcati dai traccianti della contraerea e i vetri delle finestre infranti dai boati delle esplosioni. Ancora una volta le madri hanno aspettato con terrore la notte scrutando il cielo. I bombardamenti si sono susseguiti ininterrottamente per 78 giorni.  Qualche anno dopo il Ministro della Difesa dell’epoca, ci ha informato che: “All’operazione hanno partecipato oltre 900 velivoli appartenenti alle nazioni della NATO. I velivoli NATO hanno effettuato oltre 37.000 sortite, di cui 14.000 di attacco. Sono stati lanciati 23.000 fra missili e bombe” (Carlo Scognamiglio Pasini, La guerra del Kosovo, Rizzoli 2002).

Nell’appendice del libro c’è anche un rapporto dettagliato del contributo del nostro Paese. L’Italia, senza saperlo e senza che ne venisse informato il Parlamento, ha partecipato ai bombardamenti con l’impiego di 50 velivoli dell’aeronautica militare che hanno impiegato “115 missili Harm, 517 bombe GB MK82, 39 bombe a guida IR Opher, 79 bombe a guida laser GBU 16.” Peccato che un rapporto così dettagliato abbia omesso di indicare quanti morti sono stati provocati dalle nostre bombe umanitarie e quanti da quelle dei nostri alleati. L’elenco degli obiettivi colpiti dall’aviazione della NATO (scuole, ospedali, alberghi, stazioni termali e sciistiche, industrie meccaniche, chimiche, agricole, impianti petroliferi, acquedotti, ponti, centrali elettriche, strutture di telecomunicazione, etc.) dimostra  – come osserva l’autore in questo libro – che l’azione militare non aveva per oggetto il Kosovo, ma la Jugoslavia, non aveva per oggetto un determinato regime politico, ma un intero popolo. I risultati dell’azione militare si sono tradotti in una punizione collettiva ai danni del popolo serbo. Con la guerra nei Balcani si è realizzata una sperimentazione in vivo del nuovo concetto strategico che la NATO ha proclamato ufficialmente a Washington il 24 aprile 1999 e del pensiero strategico che, a partire dal 1990 ha orientato la politica degli Stati Uniti. Queste scelte strategiche sono state supportate con entusiasmo dal primo ministro inglese, Tony Blair, che rivendicò la legittimità dell’intervento armato – un’azione che fuoriusciva da ogni schema legale – invocando una superiore ragione etica, che non poteva essere giudicata dal diritto. In realtà sul piano politico – come osserva giustamente il generale di Grazia – la guerra non realizzò alcun obiettivo umanitario. Mettendo in ginocchio la Jugoslavia, la NATO agì per staccare il Kosovo dalla Jugoslavia e consegnarlo nella mani di una banda di guerriglieri islamici (l’UCK)  che, penetrati nel Kosovo dopo l’accordo di pace sancito dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1244 (10/06/1999), misero in atto massicce vendette contro la popolazione serba, che le forze internazionali della Kfor riuscirono con grande fatica e solo in parte ad arginare.

 

  1. Una svolta nella Storia.

La sera del 24 marzo 1999, quando si sono levati in volo i bombardieri della NATO e sono partiti i primi missili cruise dalle navi militari americane schierate nell’Adriatico, si è consumato un evento che ha segnato una drammatica rottura dell’ordine internazionale, come delineato dalla Carta delle Nazioni Unite. Un gruppo di potenze, unite sotto la “leadership” degli Stati Uniti, attraverso una avventura bellica, ha aperto una nuova avventura nelle relazioni internazionali, rivendicando, manu militari, il “diritto” della c.d. “ingerenza umanitaria”. In realtà il diritto di regolare unilateralmente le situazioni di crisi internazionale attraverso la coercizione fondata sulla geometrica potenza delle armi occidentali.

Quando il pomeriggio del 24 marzo il Parlamento italiano è stato informato dal Governo che l’azione della NATO era iniziata, i bombardieri erano già in volo, la macchina da guerra si era messa in moto secondo un progetto predisposto da USA e GB e reso operativo da tempo, e la politica non avrebbe potuto fare niente per arrestarla: ormai si era consumato un evento politicamente irreversibile.

Il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli a suo tempo osservò che si trattava di un vero colpo di stato internazionale, volto a sostituire la Nato all’Onu come garante dell’ordine internazionale, descrivendone gli aspetti inaccettabili di illegalità: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive i “mezzi pacifici” volti “a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali”: a cominciare dal negoziato ad oltranza, che non è stato neppure tentato non potendosi considerare tale l’ultimatum di Rambouillet, proposto sotto la minaccia dei bombardamenti in violazione dell’articolo 52 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che vieta e dichiara nullo ogni trattato concluso sotto costrizione. In terzo luogo la violazione del Trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla Carta dell’Onu. In quarto luogo quella dello statuto della Corte penale internazionale approvato a Roma nel luglio scorso, che prevede l’aggressione tra i delitti di competenza della corte. Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili, i quali hanno provocato come “danni collaterali” non imprevedibili migliaia di vittime innocenti e – almeno in un caso, il bombardamento della tv serba – l’uccisione intenzionale e rivendicata dalla Nato di undici giornalisti (n.d.r. in realtà 16 persone)”.

“Infine – proseguiva Ferrajoli – la guerra ha riedificato il muro, abbattuto dieci anni fa, che separava l’Europa dal blocco dell’Est, alimentando il nazionalismo e l’antioccidentalismo non solo in Serbia ma anche in Russia e in Cina e uccidendo la credibilità dell’occidente e dei suoi valori democratici. Giacché l’Occidente fa oggi esattamente ciò che ha sempre rimproverato al comunismo sovietico: l’imposizione con la violenza dei propri valori. Ieri l’imposizione con la forza del socialismo, oggi l’imposizione con la forza della democrazia e del rispetto dei diritti umani: vorrebbe dire, a rigore, portare la guerra in ogni angolo del pianeta, inclusi molti paesi occidentali.(.) Dobbiamo allora domandarci se stiamo assistendo a un’esplosione di follia o a una pur folle ma calcolata strategia: l’affermazione delle ragioni della forza su quelle del diritto e la squalificazione dell’Onu e del diritto internazionale, in vista di un nuovo ordine (e disordine) mondiale basato sul dominio non solo economico ma militare delle potenze occidentali. (..) La sola condizione per uscire dal disastro, anche culturale e politico da essa provocato, è che essa sia stigmatizzata e ricordata come una tragica e gravissima colpa. La guerra non riuscirà ad essere un atto costituente di un nuovo ordine/disordine mondiale e il colpo di stato con essa tentato fallirà soltanto se si prenderà atto che essa ha segnato una disfatta morale, giuridica e politica dell’Occidente, riparabile solo con un rinnovato mai più alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.” (il Manifesto, 12 giugno 1999).

  1. Un nuovo disordine mondiale.

Purtroppo, nessuno in Occidente ha preso atto della disfatta morale e giuridica rappresentata dalla guerra di aggressione della NATO contro la Jugoslavia, quindi quest’esperienza ha assunto i caratteri di un vero e proprio atto costituente dell’ordine mondiale, che ha messo definitivamente fuori gioco l’ONU ed ha affidato alla forza delle armi la regolazione delle crisi internazionali e la gestione dell’ordine pubblico internazionale. Se si aboliscono le leggi che regolano la convivenza pacifica fra i popoli, se il criterio della convivenza deve essere la legge della giungla, cioè il criterio che quelli che sono più forti prevalgono sui più deboli, allora si pongono le basi per l’innalzamento di nuovi muri e la nascita di nuovi conflitti. Il primo effetto sarà la ripresa della corsa agli armamenti e la sostituzione della cooperazione con il confronto e lo scontro politico-militare. Infatti, proprio nel 1999, in concomitanza non casuale con la guerra contro la Jugoslavia, si verificano due eventi che determineranno il nuovo corso delle relazioni internazionali, che ci ha portato alle drammatiche vicende attuali. La NATO cambia la sua natura di Alleanza meramente difensiva e sottoposta alle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, formalizzando, nel Summit tenuto a Washington il 23/25 aprile 1999, il nuovo ruolo assunto nei Balcani. Il Summit vara il “nuovo concetto strategico” che consente alla NATO di compiere operazioni al di fuori dell’art. 5 (che sancisce il ricorso alla forza solo come risposta ad un attacco armato nell’esercizio del diritto di difesa collettivo di cui all’art. 51 della Carta ONU). Il secondo evento è la scelta di costruire un nuovo nemico sostituendo la Federazione Russa (e in prospettiva la Cina, la cui ambasciata fu bombardata a Belgrado)  al posto della scomparsa Unione Sovietica. La promessa solenne fatta a Gorbacev in occasione dell’unificazione della Germania di non spostare gli armamenti della NATO ad est dell’Elba viene stracciata senza ritegno alcuno. E’ in quel momento che inizia il processo di allargamento ad est della NATO, che il 12 marzo 1999 sancisce l’ingresso di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Allargamento che è proseguito fino ad inglobare i paesi ex sovietici e gli ex neutrali, attivando una nuova cortina di ferro che circonda la Russia dall’Artico al mar Nero. Ed è stata proprio la pretesa della NATO di penetrare anche nel territorio della Ucraina, assieme al conflitto etnico fomentato contro la componente russofona della popolazione, la causa principale che ha determinato lo scoppio della guerra, iniziato con l’aggressione della Russia contro l’Ucraina il 24 febbraio del corrente anno.  Adesso questo nuovo Ordine/disordine mondiale ci ha portato ad un passo dalla guerra nucleare, che porrebbe fine alla vita dell’Umanità sulla Terra, e ci tiene immersi in una estenuante guerra d’attrito che gli USA hanno intenzione di alimentare fino ad ottenere la disgregazione del “nemico”. E tuttavia è stato osservato che pretendere la disgregazione di una potenza nucleare è un po’ come giocare a scacchi con la morte.

Domenico Gallo

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