DOSSIER SULLE ARMI

La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all’anno. La proposta di 50 premi Nobel per la pace

La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all’anno. La proposta di 50 premi Nobel per la pace


Qualche giorno fa è stato pubblicato un appello sottoscritto da 50 premi Nobel, fra cui gli italiani Giorgio Parisi e Carlo Rubbia, e diversi Presidenti di Accademie delle scienze nazionali, fra cui Annibale Mottana, presidente dell’Accademia nazionale dei lincei, con una proposta semplice e concreta rivolta all’umanità intera. Fra i sostenitori della proposta anche il Dalai Lama, Nobel per la Pace. In un tempo in cui l’umanità deve affrontare delle sfide drammatiche come la necessità di debellare una pandemia virulenta mai conosciuta prima, l’esigenza di arrestare il riscaldamento globale e di confrontarsi con i guasti provocati dai cambiamenti climatici, dalla siccità estrema, dall’inquinamento crescente, è evidente che nessun Paese si salva da solo e che le scelte più dannose devono essere modificate. L’appello intende mettere i leaders politici e l’opinione pubblica mondiale di fronte ad un paradosso che non può più essere ignorato per la sua gravità e che nessuno può far finta di non vedere.
Osservano gli scienziati:

“La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all’anno. Inoltre, è in aumento in tutte le aree del mondo. I singoli governi sono sotto pressione e incrementano la spesa militare per stare al passo con gli altri Paesi. Il meccanismo della controreazione alimenta una corsa agli armamenti in crescita esponenziale, il che equivale a un colossale dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate a scopi migliori.
In passato, la corsa agli armamenti ha spesso condotto a un’unica conseguenza: lo scoppio di guerre sanguinose e devastanti. Noi vogliamo presentare una semplice proposta per l’umanità: che i governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite si impegnino ad avviare trattative per una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni.
La nostra proposta si basa su una logica elementare:
• Le nazioni nemiche ridurranno la spesa militare, e così facendo rafforzeranno la sicurezza dei rispettivi Paesi, pur conservando l’equilibrio delle forze e dei deterrenti.
• L’accordo siglato servirà a contenere le ostilità, riducendo il rischio di futuri conflitti.
• Enormi risorse verranno liberate e rese disponibili, il cosiddetto «dividendo della pace», pari a mille miliardi di dollari statunitensi entro il 2030.

La metà delle risorse sbloccate da questo accordo verrà convogliata in un fondo globale, sotto la vigilanza delle Nazioni Unite, per far fronte alle istanze più pressanti dell’umanità: pandemie, cambiamenti climatici e povertà estrema. L’altra metà resterà a disposizione dei singoli governi. Così facendo, tutti i Paesi potranno attingere a nuove e ingenti risorse, che in parte si potranno utilizzare per reindirizzare le notevoli capacità di ricerca dell’industria militare verso scopi pacifici nei settori di massima urgenza.
La storia dimostra che è possibile siglare accordi per limitare la proliferazione degli armamenti: grazie ai trattati Salt e Start, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno ridotto i loro arsenali nucleari del 90 percento dagli anni Ottanta ad oggi. I negoziati da noi proposti avranno una buona possibilità di successo, perché fondati su un ragionamento logico: ciascun attore sarà in grado di beneficiare dalla riduzione degli arsenali del nemico, e così pure l’intera umanità. In questo momento, il genere umano si ritrova ad affrontare pericoli e minacce che sarà possibile scongiurare solo tramite la collaborazione. Cerchiamo di collaborare tutti insieme, anziché combatterci”.
Il grafico del SIPRI allegato all’appello mostra che la spesa militare globale, dopo la continua progressione dovuta alla guerra fredda si era stabilizzata intorno ai settecento miliardi di dollari statunitensi all’anno nel periodo dal 1990 al 2000. Sono gli anni in cui, dopo la caduta del muro di Berlino (1989) e lo scioglimento del Patto di Varsavia (1990), venuta meno la guerra fredda, l’umanità si aspettava di raccogliere i dividendi della pace. Ma gli architetti dell’ordine mondiale erano di diverso avviso. La guerra “umanitaria” della NATO contro la Jugoslavia (1999) e l’aggressione e occupazione militare dell’Irak (2003), hanno fatto tramontare l’illusione, posta a fondamento del sistema di sicurezza collettivo dell’ONU, che la pace potesse essere garantita dal diritto ed hanno dato il via ad una nuova e più consistente corsa agli armamenti. Di conseguenza in venti anni la spesa militare globale è più che raddoppiata arrivando a sfiorare l’astronomica cifra di 2 trilioni di dollari all’anno. L’appello degli scienziati, proprio perché proviene da persone estremamente autorevoli è paragonabile all’esclamazione innocente del bambino della favola di Andersen: il Re è nudo. Ci svela una realtà che tutti (cortigiani e popolo) facciamo finta di non vedere. Di qui la proposta, estremamente ragionevole proprio perché fa i conti con la realtà.
La proposta-appello dei 50 premi Nobel per la pace ha avuto l’onore della prima pagina su importanti organi di informazione, ma – caso strano – non è filtrata nel campo dei suoi destinatari: il leaders ed i partiti politici. Ha avuto spazio nei media come qualsiasi notizia che può incuriosire l’opinione pubblica, come le vicende sentimentali di un cantante o di un attore famoso, niente che possa interrogare la politica. Infatti la politica non si è sentita minimamente interrogata. Questa notizia semplicemente è sparita dai radar della politica. Nessuno dei leaders politici italiani, adusi ad una presenza attiva nel teatrino politico italiano, in questi giorni particolarmente impegnati in un vacuo chiacchiericcio sul Quirinale, ha reputato di spendere una sola parola sulla proposta dei 50 premi Nobel, nemmeno per dire: non sono d’accordo. Forse perché in questo contesto storico politico l’orientamento è quello di incrementare non di ridurre le spese militari (la NATO pretende che la spesa militare dell’Italia debba passare dagli attuali 26 miliardi di euro a 36 miliardi annui) e la “libidine di servilismo” dei nostri politici impedisce persino di affrontare il tema.
Ma il tema resta, con la solidità di un macigno, e la Storia non fa sconti per nessuno.

Domenico Gallo

Questi i firmatari dell’Appello:.

1. Hiroshi Amano (Nobel per la fisica)
2. Peter Agre (Nobel per la chimica)
3. David Baltimore (Nobel per la medicina)
4. Barry C. Barish (Nobel per la fisica)
5. Steven Chu (Nobel per la fisica)
6. Robert F. Curl Jr. (Nobel per la chimica)
7. Johann Deisenhofer (Nobel per la chimica)
8. Jacques Dubochet (Nobel per la chimica)
9. Gerhard Ertl (Nobel per la chimica)
10. Joachim Frank (Nobel per la chimica)
11. Sir Andre K. Geim (Nobel per la fisica)
12. Sheldon L. Glashow (Nobel per la fisica)
13. Carol Greider (Nobel per la medicina)
14. Harald zur Hausen (Nobel per la medicina)
15. Dudley R. Herschbach (Nobel per la chimica)
16. Avram Hershko (Nobel per la chimica)
17. Roald Hoffmann (Nobel per la chimica)
18. Robert Huber (Nobel per la chimica)
19. Louis J. Ignarro (Nobel per la medicina)
20. Brian Josephson (Nobel per la fisica)
21. Takaaki Kajita (Nobel per la fisica)
22. Tawakkol Karman (Nobel per la pace)
23. Brian K. Kobilka (Nobel per la chimica)
24. Roger D. Kornberg (Nobel per la chimica)
25. Yuan T. Lee (Nobel per la chimica)
26. John C. Mather (Nobel per la fisica)
27. Eric S. Maskin (Nobel per l’economia)
28. May-Britt Moser (Nobel per la medicina)
29. Edvard I. Moser (Nobel per la medicina)
30. Erwin Neher (Nobel per la medicina)
31. Sir Paul Nurse (Nobel per la medicina e presidente emerito della Royal Society)
32. Giorgio Parisi (Nobel per la fisica)
33. Jim Peebles (Nobel per la fisica)
34. Sir Roger Penrose (Nobel per la fisica)
35. Edmund S. Phelps (Nobel per l’economia)
36. John C. Polanyi (Nobel per la chimica)
37. H. David Politzer (Nobel per la fisica)
38. Sir Venki Ramakrishnan (Nobel per la chimica e presidente emerito della Royal Society)
39. Sir Peter Ratcliffe (Nobel per la medicina)
40. Sir Richard J. Roberts (Nobel per la medicina)
41. Michael Rosbash (Nobel per la medicina)
42. Carlo Rubbia (Nobel per la fisica)
43. Randy W. Schekman (Nobel per la medicina)
44. Gregg Semenza (Nobel per la medicina)
45. Robert J. Shiller (Nobel per l’economia)
46. Stephen Smale (Medaglia Fields per la matematica)
47. Sir Fraser Stoddart (Nobel per la chimica)
48. Horst L. Störmer (Nobel per la fisica)
49. Thomas C. Südhof (Nobel per la medicina)
50. Jack W. Szostak (Nobel per la medicina)
51. Olga Tokarczuk (Nobel per la letteratura)
52. Srinivasa S. R. Varadhan (Premio Abel per la matematica)
53. Sir John E. Walker (Nobel per la chimica)
54. Torsten Wiesel (Nobel per la medicina)
55. Roberto Antonelli (Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei)
56. Patrick Flandrin (Presidente dell’Académie des Sciences, Francia)
57. Mohamed H.A. Hassan (Presidente della World Academy of Sciences)
58. Annibale Mottana (Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei)
59. Anton Zeilinger (Presidente dell’Academy of Sciences, Austria)
60. Carlo Rovelli and Matteo Smerlak, organizzatori.

La spesa italiana

Commenta Tommaso Di Francesco sul quotidiano «il manifesto» del 15 dicembre:

Troppo semplicistico l’appello dei Nobel per la pace? Mica tanto. Facciamo pure noi i nostri conti in tasca. In Italia 26 miliardi di euro son spesi annualmente dal Ministero della Difesa, equivalenti a una media di oltre 70 milioni di euro al giorno – a fronte dei peggiori salari del Continente, delle spese sanitarie mancanti e dell’accanimento sul reddito di cittadinanza.
A questi si aggiunge per i prossimi anni un fondo di 30 miliardi di euro stanziati a fini militari dal Ministero dello Sviluppo economico e di altri 25 richiesti dal Recovery Fund. Nei prossimi anni, come richiesto dalla Nato e ribadito dagli Usa, occorre passare ad almeno 36 miliardi di euro annui, equivalenti a una media di circa 100 milioni di euro al giorno. Nel mondo ogni minuto si spendono circa 4 milioni di dollari a scopo militare. Nel 2020 la spesa militare mondiale ha quasi raggiunto i 2.000 miliardi di dollari, il più alto livello dal 1988 al netto dell’inflazione.
La spesa militare mondiale è trainata da quella statunitense, salita a circa 770 miliardi di dollari annui (stime del Sipri, 3 volte la spesa militare della Cina e 12 volte quella della Russia). La cifra rappresenta il budget del Pentagono, comprensivo di operazioni belliche. E con altre voci di carattere militare siamo al totale di oltre 1.000 miliardi annui.
Qualcuno subito dirà dell’ingenuità dell’appello dei premi Nobel: il 2% alla fine comunque legittimerebbe che l’altro 98% venga comunque utilizzato per la guerra. Ma attenzione, questo risparmio che, fatti i conti su 2 trilioni di dollari, vorrebbe dire mille miliardi di lire stornati per la pace e le necessità vitali dell’umanità, non corre alcun rischio – vorremmo essere smentiti – di essere approvato da nessun governo del mondo impegnato a chiacchiere nella «transizione ecologica» con gli arsenali pieni di armi, anche atomiche.
Giacché tutti sono attivi nella corsa al riarmo, perfino con il ricatto dell’occupazione – che pesa anche sul sindacato, perché un vero discorso sulla riconversione dell’industria bellica non è mai diventato pratica diffusa. Tutti, a partire dal governo Draghi che più volte ha annunciato un «riarmo» mentre avvia i traffici più oscuri di vendita di armamenti a regimi corrotti e dittatoriali, se non addirittura in guerra o che occupano altri Paesi.
Un governo Draghi impegnato con Macron e altri leader europei – pensate agli «ecologici» droni armati che suggellano il patto di governo verdi-socialdemocratici in Germania – non a ridurre la spesa per le armi ma «semplicemente» a raddoppiarla con la cosiddetta Difesa europea. Intesa non come alternativa alle spese gravose per l’Alleanza atlantica, ma come aggiunta doppia, come rinforzo della Nato che resta centrale – anche nell’attivare nuove crisi e guerre dopo quelle disastrose che l’hanno vista protagonista. Porga l’ascolto e risponda dunque Draghi all’appello dei 50 accademici e premi Nobel.

“Non vendete armi ai sauditi”

Antonio Mazzeo commenta a sua volta la vendita di armi ai Sauditi:

Governi, ONG e giuristi internazionali invocano l’embargo sui trasferimenti di sistemi d’arma alle forze armate saudite per i crimini di guerra compiuti in Yemen. E allora cosa fa il gruppo italiano leader nella produzione di caccia, elicotteri, missili e cannoni? Invia la propria ultima invenzione a Riyad per rafforzare i legami culturali, tecnologici, scientifici e accademici con l’onnipotente famiglia dei sovrani d’Arabia.

A fine novembre una folta delegazione della Fondazione Med-Or, istituzione creata la scorsa primavera dall’holding Leonardo S.p.A. per “promuovere gli scambi e i rapporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso (Med) e del Medio ed Estremo Oriente (Or)”, si è recata in visita ufficiale in Arabia Saudita per incontrare ministri e rappresentanti di enti statali.
A guidare la pattuglia della fondazione della maggiore industria bellica italiana, il suo presidente, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. Momento clou il vertice con il ministro dell’Educazione del Regno, Hamad bin Mohammed Al Al-Sheikh, laurea e master in Economia alla Stanford University, California.
“Nel corso dell’incontro tra il ministro Al Al-Sheikh e la delegazione italiana, le due parti sono andate oltre la partnership tra le università saudite e il centro (Med-Or) in vista di un rafforzamento dei campi scientifici e di ricerca e delle rispettive opportunità di formazione e trasferimento internazionale di esperienze e sperimentazioni, oltre al rafforzamento delle borse di studio che il centro offre agli studenti di talento dell’Arabia Saudita per poter svolgere i master in Italia”, riporta la nota del Ministero dell’Educazione di Riyad.
“Nel corso del meeting è stata anche discussa la possibilità di stabilire un istituto di studi arabi presso la Fondazione Med-Or, il primo di questo tipo in Italia dove esiste l’interesse a lanciare differenti iniziative di formazione e ricerca culturale e scientifica.
L’istituto potrebbe rappresentare un’entità nuova e unica e un ponte per idee, programmi e progetti che prosperino in cooperazione con le istituzioni accademiche, oltre a diventare una stazione per favorire la completa integrazione tra le industrie e i centri di ricerca”.
Obiettivi ambiziosi e complessi, maturati non certo in ambito politico-diplomatico e istituzionale tra Italia e Arabia Saudita, ma nell’alveo delle consolidate relazioni di affari tra il petroregime e il management di Leonardo e delle società di sistemi e tecnologie militari controllate, con tanto di tessitura dell’ex ministro della guerra ai migranti e alle migrazioni e la benedizione – a distanza – di noti accademici italiani.
Poco più di un mese fa a recarsi a Riyad era stato l’amministratore delegato di Leonardo, nonché presidente onorario di AIAD, la Federazione delle aziende italiane del settore aerospaziale e militare, Alessandro Profumo. L’uomo che guida l’holding armiera, pure membro del comitato strategico della Fondazione Med-Or, ha partecipato come relatore al forum internazionale Invest in Humanity promosso dal Future Investment Initiative Institute, fondazione no profit di “promozione sociale” voluta dal principe Mohammad bin Salman al Saud, membro della famiglia reale e ministro della Difesa d’Arabia, e nel cui board fa bella mostra di sé l’ex primo ministro Matteo Renzi.
E proprio con Renzi l’on. Marco Minniti ha ricoperto l’incarico di sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega alla Sicurezza della Repubblica.
Occasione imperdibile, quella del forum per investire nell’umanità, per i vertici di Leonardo & C.. Dopo le miliardarie commesse dello scorso decennio (la fornitura all’Aeronautica militare saudita di 72 cacciabombardieri Eurofighter Typhoon prodotti dall’industria italiana e dai gruppi aerospaziali europei Eads e Bae Systems), in tempi più recenti Leonardo ha venduto all’Arabia Saudita sistemi avanzati elettro-ottici e per il controllo del traffico aereo fissi e trasportabili; sistemi di comunicazione e centri di controllo; velivoli a pilotaggio remoto; elicotteri da trasporto. E in dirittura d’arrivo, secondo alcuni analisti internazionali, ci sarebbero adesso i trasferimenti ai sauditi di elicotteri pesanti, sistemi missilistici (attraverso la partecipata MDBA), nuovi droni, convertiplani e caccia-addestratori.
Con occhi più attenti, quello a cui punta la nuova creatura “culturale-scientifica” di Leonardo è di replicare in Italia un modello consolidato e di successo made in Israele: l’elaborazione e la condivisione di visioni strategiche e industriali-produttive da parte di attori politici, apparati militari e d’intelligence, industrie belliche, centri di ricerca scientifica e università, ovviamente in totale autonomia rispetto alle tradizionali sedi di decisione istituzionale.
“Leonardo Med-Or è nata per unire competenze e capacità dell’industria con il mondo accademico per lo sviluppo del partenariato geo-economico e socio-culturale”, si legge nello statuto della fondazione di Minniti e Profumo. Tra le attività in cantiere, oltre alle collaborazioni con alcuni paesi chiave in campo militare-industriale-accademico (vedi già Arabia Saudita e Marocco), Med-Or punta alla promozione di “programmi e formazione nei settori della safety e della security, dell’aerospazio e della difesa”, grazie soprattutto a “partenariati con le istituzioni accademiche e di ricerca nazionali”.
E non è certo un caso che pochi giorni dopo il vertice a Riyad con il ministro dell’Istruzione Hamad bin Mohammed Al Al-Sheikh, il 2 dicembre si è tenuta a Roma la riunione di insediamento del Comitato Scientifico della Fondazione Med-Or, presenti anche i componenti del Consiglio di amministrazione.
I componenti del Comitato Scientifico della Fondazione di Leonardo sono rettori, docenti e ricercatori delle maggiori università italiane. Un vero peccato che un gruppo di fini intellettuali dalle alte qualità, si cimenti con affari che fomentano le guerre.

Gli affari militari dei dominanti vanno a gonfie vele

di Salvatore Palidda

Le vendite di armi continuano a crescere anche in piena pandemia. Il 2020 è stato il sesto anno consecutivo di aumento delle vendite di armamenti.

Secondo l’ultimo rapporto SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute di Stoccolma) reso noto il 6 dicembre 2021 le vendite di armi e servizi militari delle 100 maggiori aziende del settore ammontano a 531 miliardi di dollari nel 2020, con un incremento dell’1,3% in termini reali rispetto all’anno precedente.
Nel 2020, le vendite di armi delle prime 100 aziende di armi sono superiori del 17% rispetto al 2015, il primo anno in cui il SIPRI ha incluso i dati sulle aziende cinesi. L’industria delle armi resiste alla pandemia di Covid-19 e alla recessione economica (3,1% di calo nel primo anno della pandemia).
«I giganti del settore sono stati ampiamente protetti dalla domanda pubblica sostenuta di beni e servizi militari» (Alexandra Marksteiner, ricercatrice nel programma Spese militari e produzione di armi presso il SIPRI). «In gran parte del mondo, le spese militari sono aumentate e alcuni governi hanno persino accelerato i pagamenti all’industria degli armamenti per limitare l’impatto della crisi del Covid-19».
Le aziende statunitensi continuano a dominare la classifica
Gli Stati Uniti hanno ancora il maggior numero di aziende nella Top 100. Le vendite combinate di armi di 41 aziende americane ammontano a 285 miliardi di dollari nel 2020 – un aumento dell’1,9% rispetto al 2019 – e rappresentano il 54% del totale delle Top 100 delle vendite. A partire dal 2018, le prime cinque maggiori aziende nella classifica hanno tutte sede negli Stati Uniti.
Il SIPRI non precisa che gli USA e tutti i suoi alleati (innanzitutto paesi NATO ma anche Giappone e Israele) coprono più dell’80% del mercato mondiale degli armamenti.
Aziende cinesi, seconda quota nella Top 100 delle vendite di armi
Le vendite combinate di armi delle prime cinque aziende cinesi sono di circa 66,8 miliardi di dollari nel 2020, l’1,5% in più rispetto al 2019. Le aziende cinesi rappresentano il 13% del totale, e nel 2020 si sono piazzate subito dopo le aziende statunitensi e davanti a quelle del Regno Unito nella TOP 100.
«Negli ultimi anni, le compagnie di armi cinesi hanno beneficiato dei programmi di modernizzazione militare del Paese e si sono concentrate sulla fusione civile-militare» ha affermato il dottor Nan Tian, ricercatore presso il SIPRI. «Sono diventati fra i produttori di tecnologia militare più avanzati al mondo. NORINCO, ad esempio, ha co-sviluppato il sistema di navigazione satellitare militare-civile BeiDou e ha intensificato le sue attività nelle nuove tecnologie».
Risultati contrastanti fra le compagnie di armamenti europee
Le 26 compagnie europee di armamenti nella Top 100 rappresentano il 21% delle vendite totali di armi, ovvero 109 miliardi di dollari. Le sette società britanniche riportano un totale di $ 37,5 miliardi di vendite di armi nel 2020, in crescita del 6,2% rispetto al 2019. Le vendite di armi di BAE Systems – l’unica azienda europea nella Top 10 – sono aumentate del 6,6% a $ 24 miliardi.
«I ricavi delle vendite di armi delle sei società francesi nella Top 100 sono diminuiti del 7,7%».
«Questo calo significativo è in gran parte dovuto a una forte diminuzione anno su anno del numero di consegne di aerei da combattimento Rafale da parte di Dassault. Le vendite di armi di Safran sono aumentate, trainate dall’aumento delle vendite di sistemi di navigazione e puntamento».
Le vendite di armi delle quattro aziende tedesche nella Top 100 hanno raggiunto $ 8,9 miliardi nel 2020, con un aumento dell’1,3% rispetto al 2019. Queste aziende rappresentano l’1,7% delle vendite totali di armi Top 100. Rheinmetall, il più grande produttore di armi della Germania, ha registrato un Aumento delle vendite del 5,2%. Il costruttore navale ThyssenKrupp, invece, ha registrato un calo del 3,7%.
Le vendite di armi russe calano per il terzo anno consecutivo
Le vendite combinate di armi delle nove società russe classificate nella Top 100 sono scese da 28,2 miliardi di dollari nel 2019 a 26,4 miliardi di dollari nel 2020, con un calo del 6,5%. Ciò segna la continuazione della tendenza al ribasso osservata dal 2017, quando i ricavi dalla vendita di armi di queste nove prime 100 società russe hanno raggiunto il picco. Le aziende russe rappresentano il 5% delle vendite totali di armi nella Top 100. Alcuni dei maggiori cali nella Top 100 sono registrati dalle società russe. Ciò coincide con la fine del Piano statale degli armamenti 2011-2020 e i ritardi nei tempi di consegna dovuti alla pandemia. Almaz-Antey e United Shipbuilding Corporation hanno visto diminuire le loro vendite di armi rispettivamente del 31% e dell’11%. Al contrario, United Aircraft Corporation ha aumentato le vendite di armi del 16%. L’altro elemento essenziale dell’industria bellica russa è la diversificazione delle linee di prodotto. Le aziende russe stanno attualmente attuando una politica del governo per aumentare la proporzione delle vendite civili al 30% delle loro vendite totali entro il 2025 e al 50% entro il 2030.
Altri importanti sviluppi nella Top 100
• Le vendite aggregate di armi delle prime 100 società con sede al di fuori di Stati Uniti, Cina, Russia ed Europa ammontano a 43,1 miliardi di dollari nel 2020, con un aumento del 3,4% dal 2019.
• Le vendite di armi delle tre prime 100 società israeliane ammontano a 10,4 miliardi di dollari, ovvero il 2,0% del totale.
• Le vendite aggregate di armi delle cinque società giapponesi in classifica ammontano a 9,9 miliardi di dollari nel 2020, ovvero l’1,9% del totale.
• Nella classifica sono state incluse quattro società sudcoreane. Le loro vendite combinate di armi ammontano a $ 6,5 miliardi nel 2020, con un aumento annuo del 4,6%.
• Le vendite combinate di armi delle tre aziende indiane Top 100 sono aumentate dell’1,7%. Nel 2020, il governo indiano ha annunciato un divieto graduale all’importazione di alcuni tipi di equipaggiamento militare al fine di rafforzare l’autosufficienza nella produzione di armi.

Informazioni sul database dell’industria degli armamenti SIPRI

Il database dell’industria delle armi SIPRI è stato istituito nel 1989. La versione attuale contiene dati dal 2002. Nel comunicato stampa citato le società russe sono trattate separatamente da quelle europee. Cinque società cinesi sono state incluse nel database a partire dal 2015. Altre società cinesi potrebbero avere vendite di armi abbastanza alte da entrare nella Top 100, ma non ci sono dati sufficienti per includerle oggettivamente nella classifica.
Le “vendite di armi” sono definite come entrate derivanti dalla vendita di beni e servizi militari a clienti militari, sia nazionali che esteri. Salvo diversa indicazione, tutte le variazioni dei valori sono espresse in termini reali e tutte le cifre sono fornite in dollari statunitensi costanti (2020). I confronti tra il 2019 e il 2020 si basano sull’elenco delle società classificate nel 2020 (ovvero il confronto annuale è fra lo stesso insieme di società). I confronti a più lungo termine si basano su insiemi di società quotate nel rispettivo anno (cioè il confronto è su diversi elenchi di società).
Il database dell’industria degli armamenti SIPRI, che presenta un set di dati più dettagliato per gli anni dal 2002 al 2020, è disponibile sul sito Web: https://www.sipri.org/databases/armsindustry
Il SIPRI è un istituto di ricerca internazionale indipendente sui conflitti, gli armamenti e il loro controllo e il disarmo. Fondata nel 1966, SIPRI fornisce dati, analisi e raccomandazioni basati su fonti aperte a decisori politici, ricercatori, media e a qualsiasi pubblico interessato. SIPRI è regolarmente classificato fra i think tank più rinomati al mondo.
www.sipri.org

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