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Governo mondiale o democrazia internazionale?

Un articolo del 1993 pubblicato in un dossier della rivista Giano dal titolo “Per un’ONU dell’età globale” in vista di una rifondazione del diritto internazionale dopo la rimozione del muro di Berlino

Pubblichiamo un articolo del prof. Ferrajoli in cui, già nel 1993, si discutevano le prospettive di un costituzionalismo mondiale dopo la fine dell’età dei blocchi.

Ci sono due modi di intendere il futuro dell’Onu e di prospettare la futura integrazione giuridica della comunità internazionale: il primo è quello espresso dalla formula “governo mondiale”; il secondo è quello espresso dalla formula “democrazia internazionale”. Questi due modelli, benché entrambi basati su di una limitazione della sovranità degli Stati, non solo non coincidono, ma possono risultare per molti versi opposti. Il governo mondiale suppone un accentramento delle decisioni in tema di relazioni internazionali presso un vertice mondiale, non necessariamente democratico né necessariamente vincolato da limiti e garanzie. La democrazia internazionale corrisponde invece a un ordinamento basato sul carattere democratico-rappresentativo degli organi sovra-statali e, soprattutto, sulla loro esclusiva funzionalizzazione alla garanzia della pace e dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli.

Io credo che la mancata distinzione tra questi due modelli è fonte di molti equivoci e malintesi, sia a destra che a sinistra. Se per un verso le grandi Potenze perseguono oggi la costruzione di un governo mondiale contrabbandandolo come strumento di pace, per altro verso, nel timore di un governo mondiale di tipo puramente imperialistico, molte forze democratiche guardano con diffidenza all’intero diritto internazionale, svalutandone l’insostituibile valore strategico quale sistema di garanzie.

Di fatto, la situazione attuale della comunità internazionale assomiglia assai più a quella di un governo mondiale, controllato dalle cinque Potenze che siedono in permanenza nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e principalmente dagli Stati Uniti, che non a una democrazia internazionale. Ma questa situazione contraddice in maniera vistosa i principi di diritto dettati dalla Carta dell’Onu e dalle diverse dichiarazioni e convenzioni sui diritti umani e sulla pace, i quali esprimono semmai il progetto di una democrazia internazionale di diritto finalizzata alla pace e alla tutela dei diritti fondamentali.

L’obiettivo di qualsiasi movimento per la pace è allora la trasformazione dell’attuale governo mondiale di fatto in una democrazia internazionale, strutturata secondo il paradigma dello Stato costituzionale di diritto già disegnato dalla Carta dell’Onu e fondata, come scrive Fabio Marcelli nel suo intervento introduttivo a questa discussione, sui “principi della solidarietà e dell’autogoverno dal basso, in una prospettiva mondiale al tempo stesso globale e policentrica”. Ciò vuol dire puntare a partire dalle carenze di garanzie poste in evidenza dai fallimenti del passato sulla riabilitazione e sul rafforzamento delle dimensioni universalistiche dell’Onu quali sono espressi, essenzialmente, dai suoi due principali elementi normativi. Il primo di questi elementi è il divieto della guerra, solennemente sancito dal preambolo e dai primi due articoli della Carta dell’Onu, nonché dal suo capitolo VII, ove si prevede la regolazione giuridica del l’uso della forza quale mezzo coercitivo alternativo alla guerra. E questo divieto della guerra il principio costitutivo della giuridicità del nuovo ordinamento internazionale formatosi con la nascita delle Nazioni Unite, Prima dell’Onu questo divieto non esisteva, e perciò non esisteva neppure un ordinamento giuridico internazionale in senso proprio. Lo ius belli era al contrario un elemento essenziale della sovranità dello Stato, e le relazioni tra stati erano ancora quelle sregolate dello stato di natura descritte da Hobbes nel Leviatano, ove la sovranità statale viene configurata come l’equivalente della libertà selvaggia. È con il divieto di guerra introdotto dalla Carta dell’Onu che la comunità internazionale passa dallo stato di natura allo stato civile e si subordina al diritto, divenendo un “ordinamento giuridico” sia pure sommamente imperfetto per la carenza di garanzie idonee ad assicurarne l’effettività. Se è vero che il diritto è per sua natura uno strumento di pace, cioè una tecnica per la soluzione pacifica delle controversie e per la regolazione dell’uso della forza, diritto e guerra sono infatti una contraddizione in termini, mentre diritto e pace si implicano a vicenda: la pace è l’intima essenza del diritto, e la guerra la sua negazione o. quanto meno, il segno e l’effetto della sua assenza nei rapporti tra gli uomini e del loro carattere pregiuridico, sregolato e selvaggio.

Il secondo elemento è la consacrazione dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli quali fonti di legittimazione non più solo politica ma anche giuridica degli ordinamenti statali. Anche questa è una limitazione delle sovranità statali, giacché la Dichiarazione universale del ’48 e poi gli altri patti e risoluzioni in tema di diritti sono ius cogens, cioè diritto immediatamente vincolante per gli stati membri. Una limitazione non solo negativa, come quella prodotta dal divieto di guerra, ma anche positiva: nel senso che gli stati membri sono in base ad essa vincolati alla tutela dei diritti fondamentali, ossia di bisogni e interessi primari degli uomini e dei popoli: il diritto alla vita, le libertà fondamentali di carattere politico e civile, l’habeas corpus e le immunità da torture e da trattamenti disumani e arbitrari, ma anche i diritti economici e sociali, il diritto all’autodeterminazione e quello allo sviluppo. Con due conseguenze. Innanzitutto che oggi il diritto internazionale non tutela più solo gli stati ma anche i popoli e le persone in carne ed ossa, i quali sono divenuti anch’essi, in aggiunta agli stati, soggetti di diritto internazionale. In secondo luogo che i diritti fondamentali hanno un fondamento non più solo nelle costituzioni dei singoli stati, ma anche in quelle carte costituzionali internazionali che sono la Carta dell’Onu e la Dichiarazione universale del ’48, sicché il diritto internazionale è divenuto fonte di regolazione, e criterio di legittimazione e delegittimazione non solo dei rapporti internazionali tra stati ma anche degli ordinamenti interni degli stati e dei rapporti tra gli stati e i loro cittadini.

Ebbene: in forza di questi due elementi normativi, tra loro connessi l’uno come condizione dell’altro, l’Onu è già oggi non solo un’istituzione giuridica internazionale ma anche, come ho detto, un ordinamento giuridico sovra-statale: qualcosa di simile, pur con la diversità di funzioni, a ciò che è lo Stato rispetto all’ordinamento giuridico statale, ove pure convivono norme di fonte statale e non statale; ma anche qualcosa di profondamente diverso dal governo mondiale di fatto che si sta oggi profilando. Purtroppo come ben sappiamo, e come la guerra del Golfo ha drammaticamente evidenziato questi due elementi restano ancora in gran parte sulla carta. Per quanto valido e vincolante, l’ordinamento internazionale è insomma privo di effettività. Ovviamente questo non basta a decretarne il fallimento. E proprio di qualunque ordinamento giuridico un grado più o meno elevato di ineffettività delle norme che regolano l’esercizio dei poteri e un corrispondente grado di illegittimità del loro concreto funzionamento. Basti pensare all’Italia, ove assistiamo da anni (Gladio, stragismo, tentativi di eversione costituzionale dall’alto, collusioni tra mafia e politica. Tangentopoli) a uno sfascio generale della legalità repubblicana. Del resto gli ordinamenti giuridici non nascono a tavolino dall’oggi al domani sulla semplice base di carte statutarie. Essi sono il prodotto di processi storici epocali. E se pensiamo alla lunga, travagliata e non luminosa storia degli Stati nazionali, dobbiamo ammettere che l’ordinamento internazionale è un ordinamento relativamente giovane, del quale sarebbe assurdo pronosticare il fallimento sulla base dei suoi tragici ma certo non definitivi insuccessi.

Se non ha senso abbandonarsi a sterili pessimismi, dobbiamo tuttavia riconoscere che le continue violazioni delle regole fondamentali dell’Onu e del suo stesso ruolo di pace hanno messo allo scoperto la fragilità dei principi, provocata dalla carenza delle garanzie. Ed impone perciò alla riflessione giuridica e politologica l’elaborazione di efficaci garanzie, idonee a riempire le lacune dell’ordinamento internazionale. Ciò che manca al diritto internazionale non sono infatti le norme

sostanziali, di cui abbondano la Carta dell’Onu, la Dichiarazione universale del ’48 e le molte altre convenzioni e risoluzioni. Ciò che manca è un adeguato sistema di garanzie capace di assicurarne l’effettività. Si tratta, secondo un’espressione di Spinoza, di “leges imperfectae” perché prive di sanzioni e delle procedure per applicarle. È per questo che la divaricazione tra normatività ed effettività, che negli ordinamenti statali si mantiene entro limiti relativamente accettabili, nell’ordinamento internazionale è massima, per la prevalenza che sempre, a causa della già rilevata mancanza di garanzie, tende ad assumere la forza sul diritto.

Sono dunque queste garanzie che devono essere elaborate e Sotto questo aspetto, condivido pienamente l’impianto dell’intervento di Fabio Marcelli, il quale ha indicato per ultime, tra gli obbiettivi di riforma, le pur necessarie trasformazioni in senso democratico degli organi di governo dell’Onu. Queste trasformazioni, come dirò, sono certamente auspicabili, ma anche in tempi brevi irrealistiche. E sarebbe un errore strategico nella prospettiva della non di un governo mondiale ma di una democrazia internazionale se volendo inseguire queste improbabili riforme tralasciassimo di impegnarci a sostegno delle riforme possibili, e sicuramente più importanti, dirette a garantire le norme già esistenti della Carta dell’Onu e della Dichiarazione universale, poste a tutela della pace e dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli. Occorre, in altre parole, partire dal diritto vigente, evidenziarne le lacune e le violazioni e puntare al loro superamento quale della stessa salvaguardia della credibilità e della legittimità dell’Onu.

In questa prospettiva, il primo ordine di garanzie che va rafforzato riguarda la pace. Se è vero che la pace è la norma fondamentale e la ragion d’essere dell’Onu, qualunque guerra andrebbe configurata come “crimine di diritto internazionale” e rigidamente ripudiata quale mezzo di soluzione delle controversie internazionali. Ma il ripudio della guerra, per essere effettivo, va accompagnato da concrete garanzie di tipo preventivo: la messa al bando degli strumenti della guerra, attraverso convenzioni internazionali che impongano un graduale ma generalizzato disarmo e conferiscano alle armi, la cui unica destinazione è l’uccisione di esseri umani, almeno lo stesso statuto conferito alle sostanze stupefacenti: quello di “beni illeciti”, producibili solo sotto il controllo dell’Onu e per le funzioni di polizia dell’Onu medesima.

Non basta infatti, per superare il virtuale bellum omnium internazionale. l’istituzione di una polizia sovrastatale che tendenzialmente detenga il monopolio della forza armata. Questa è indubbiamente una strada obbligata, espressamente imposta dal capo VII, finora inattuato, della Carta dell’Onu. Ma accanto ad essa, la strada maestra per garantire la pace è il disarmo degli Stati membri. La pace, infatti, sarà garantita non solo e non tanto armando l’Onu, ma soprattutto disarmando gli Stati; se non altro perché le forze attualmente detenute dagli Stati bastano da sole a distruggere molte volte il pianeta, e nessuna forza sovranazionale è da sola sufficiente a domarle; mentre è chiaro che la forza sovranazionale sufficiente a funzioni di polizia potrà essere tanto minore quanto minori saranno gli armamenti di cui disporranno gli Stati. Se il disarmo generalizzato è una prospettiva di lunghissimo periodo, è

invece un’intollerabile lacuna, che occorrerebbe riempire immediatamente, la mancanza di convenzioni internazionali che proibiscano la produzione, il commercio e la detenzione di armi il cui uso è già oggi vietato dal diritto internazionale in materia di guerra: come le armi chimiche, le armi batteriologiche, le bombe a frammentazione, i proiettili esplosivi, le armi incendiarie e in generale quelle che possono causare “sofferenze non necessarie” e delle quali è stato fatto uso massiccio nella guerra del Golfo. E infatti assurdo che la comunità internazionale disponga di un diritto bellico che vieta l’uso di simili armi ma non di convenzioni che ne proibiscano la produzione e il commercio: sarebbe come se della droga fosse proibito solo l’uso ma non anche la produzione o lo smercio. In attesa del disarmo, sarebbero poi ben possibili convenzioni dirette a mettere sotto un effettivo controllo dell’Onu la produzione, il commercio e la detenzione di tutte le armi, onde evitarne quanto meno la vendita a regimi dittatoriali.

Si tratterebbe di due prime e significative tappe nella prospettiva del disarmo generale. Ne risulterebbe, tra l’altro, un risparmio di risorse che potrebbero essere destinate a promuovere lo sviluppo economico dei paesi poveri e a ridurre quel divario tra Nord e Sud che rappresenta oggi il più grave fattore di ingiustizia e di disuguaglianza e la principale minaccia alla pace. Se si considera che la spesa mondiale in armamenti è di circa mille miliardi di dollari l’anno, e che questa cifra è quasi equivalente all’intero debito del terzo mondo, si comprende che se gli Stati semplicemente dimezzassero la produzione di armi, il denaro risparmiato sarebbe sufficiente ad estinguere in due anni l’intero debito estero dei paesi sottosviluppati.

Sul piano istituzionale, una riforma realistica dell’Onu finalizzata alla prospettiva di una democrazia internazionale più che a quella di un governo politico mondiale, e insieme all’attuazione del diritto internazionale esistente più che a improbabili mutamenti nei rapporti di potere in seno agli organi dell’Onu dovrebbe oggi puntare, soprattutto, al rafforzamento delle tecniche e degli organi di garanzia della pace e dei diritti degli uomini e dei popoli nei riguardi loro stessi governi e della comunità internazionale. L’odierna impunità delle violazioni di tali diritti, e perfino del “crimini contro l’umanità”, è infatti l’altra faccia ampiamente documentata dalle recenti sessioni del Tribunale permanente dei popoli sull’impunità in America Latina dell’ineffettività del diritto internazionale; così come il loro accertamento e la loro punizione ne rappresenterebbero la principale garanzia. Si tratta anche qui di colmare una vistosa lacuna dell’ordinamento internazionale attraverso una riforma dell’attuale giurisdizione della Corte internazionale di giustizia idonea a rendere effettivamente giustiziabili le violazioni del diritto e dei diritti da parte degli Stati.

Una simile riforma dovrebbe comportare quattro innovazioni nello statuto della Corte. Innanzitutto l’estensione della sua competenza non solo a tutte le controversie tra Stati ma anche ai giudizi di responsabilità in materia di guerre, di minacce alla pace e di violazioni dei diritti fondamentali. In secondo luogo l’affermazione del carattere obbligatorio della sua giurisdizione, oggi subordinata, secondo lo schema dei giudizi arbitrali, alla preventiva accettazione da parte degli Stati. In terzo luogo il riconoscimento della legittimazione ad agire di fronte alla Corte, oggi limitata soltanto agli Stati, anche alle singole persone, che sono poi i titolari dei diritti fondamentali violati di solito dagli Stati, o quanto meno alle centinaia di organizzazioni non governative istituite a tutela dei diritti dell’uomo. In quarto luogo, l’introduzione della responsabilità personale dei governanti per i crimini di diritto internazionale dai crimini di guerra al crimine della guerra e ai crimini di lesa umanità che dovrebbero finalmente essere codificati, conformemente al principio di legalità penale, in un codice penale internazionale.

Dopo il crollo dei muri e la fine dell’equilibrio del terrore, i tempi sembrano oggi maturi per simili riforme. Un’istanza di tutela contro i crimini internazionali è stata recentemente espressa dalla decisione, adottata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con la risoluzione 808, di istituire un tribunale penale internazionale per i crimini commessi da tutte le parti del conflitto nella ex Jugoslavia. Si tratta evidentemente di una assai discutibile, dato che comporta l’istituzione di un tribunale speciale ex post rispetto ai crimini che sarà chiamato a giudicare. Ma essa segnala la consapevolezza del carattere ormai indifferibile, per il futuro, di un’effettiva e credibile giurisdizione internazionale; un primo passo, forse, nella direzione della sua istituzione quale funzione permanente, assistita da tutte le garanzie penali e processuali richieste come condizioni di legittimità di un organo giudiziario.

Ovviamente, in una prospettiva di lungo termine, anche la rifondazione democratica degli organi di governo dell’Onu rappresenta un obiettivo indispensabile di riforma. Dobbiamo tuttavia riconoscere che questa è la riforma più difficile e più improbabile. Al massimo, ciò che è prevedibile è oggi un allargamento del Consiglio di sicurezza ad altre “grandi Potenze”, come la Germania o il Giappone, a conferma della volontà di governo del mondo da parte dei paesi più ricchi. Ma è inverosimile che l’attuale gestione dell’Onu come strumento delle grandi Potenze, e in particolare degli Stati Uniti, venga nei tempi brevi abbandonata. Anche sotto questo aspetto si conferma la priorità, rispetto alla riforma degli organi di governo, di quella della Corte internazionale di giustizia: storicamente, la nascita del paradigma dello Stato di diritto quale limitazione e controllo sul potere ha preceduto, anche nella formazione dello Stato moderno, quella della democrazia politica.

Per quanto lontana, la prospettiva di una riforma democratica dell’Onu basata sul principio di uguaglianza passa ovviamente attraverso la soppressione della posizione di privilegio oggi detenuta nel Consiglio di sicurezza dalle cinque Potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e l’instaurazione di un sistema egualitario di relazioni tra i popoli. Mi sembrano in proposito tutte apprezzabili le indicazioni formulate in tale direzione da Fabio Marcelli: l’eliminazione del Consiglio di sicurezza o quanto meno della figura di membro permanente con diritto di veto in esso riservata alle grandi Potenze; il rafforzamento dei poteri dell’Assemblea generale; un nuovo spazio e un maggior coinvolgimento nella vita dell’Onu delle organizzazioni non governative, nonché di movimenti di liberazione; l’istituzione infine di una seconda Assemblea generale rappresentativa dei popoli ed eletta a suffragio universale, o quanto meno dai parlamenti nazionali secondo quote proporzionali alle popolazioni, da affiancarsi all’attuale assemblea generale degli Stati

D’altra parte, se è vero che l’obiettivo principale non è la formazione di un governo mondiale sia pure democratico, ma la costruzione di una democrazia internazionale, la struttura dell’ordinamento internazionale non dovrà comunque ricalcare quella centralistica e verticale degli Stati nazionali, e fondarsi invece con un capovolgimento della tradizionale gerarchia delle fonti sul primato delle fonti periferiche rispetto a quelle centrali, eccezion fatta per le carte dei diritti che dovranno comunque essere rigidamente sopraordinate a qualsiasi altra fonte di produzione, sia nazionale che internazionale.

Si tratta insomma di realizzare un ordine internazionale di tipo non verticale ma orizzontale, nel quale le autonomie dei popoli siano massimamente garantite e agli organi di governo dell’Onu siano affidate esclusivamente le funzioni rese oggi indispensabili dall’attuale interdipendenza del mondo: il ricorso alla forza contro le minacce di guerra e le violazioni dei diritti fondamentali accertate dalla Corte di giustizia; la tutela dell’ambiente: le politiche di sviluppo e la redistribuzione delle risorse a tutela dei diritti sociali di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Ma si tratta pur sempre di prospettive di lungo periodo, che per quanto realisticamente ancorate alle promesse no mantenute dell’attuale diritto internazionale, richiederanno l’impegno comune di tutte le forze democratiche del mondo.

Da GIANO N. 13 – gennaio – aprile 1993

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