GUERRA ASSOLUTA E MUTAZIONE ANTROPOLOGICA

La guerra “difensiva” non può che essere assoluta, fino alla vittoria finale sul Male, fino alla sua finale distruzione. L’umanesimo del dominio

Umberto Baldocchi

La guerra “difensiva” non può che essere assoluta, fino alla vittoria finale sul Male, fino alla sua finale distruzione. L’umanesimo del dominio

Umberto Baldocchi

Guerra di Ucraina e guerra di Israele: c’è un filo che possa legare Gaza e Kiev? Un filo che le lega c’è. Certo ci sono due democrazie sotto attacco. Ma vi è anche altro. Quelle due guerre si configurano entrambe come esempi di guerra “assoluta”. Intendendo per tale una guerra dai confini e dalle modalità indefinite/indefinibili e dalla durata imprevedibile, o meglio, assolutamente imprevedibile. La competizione delle opposte forze militari come unico sistema per ottenere la “giustizia” e per imporre la “legge della ragione”. Ormai pensiamo che se esiste un Impero del Male assoluto – cosa che non si dice apertamente ma si pensa – la guerra “difensiva” non può che essere assoluta, cioè non può fermarsi di fronte a niente, sino alla vittoria finale sul Male, fino alla sua finale  debellatio. La “giustezza” della causa poi scrimina tutto, o quasi tutto. Anche gli eventuali massacri di civili, se dovessero essere questi “effetti collaterali” inevitabili. Ucraina e Israele: due guerre originate – ma questo ormai chi lo ricorda più? – non da aperte pretese imperiali, ma da controversie internazionali, nate dai conflitti tra una minoranza e la maggioranza nazionale.  Controversie che oggi paiono risolvibili soltanto con la guerra, dato che essa sola (nell’impotenza della “diplomazia” e nella paralisi dell’ONU) può assicurare la tutela della parte che è nel giusto. E garantire la salvezza dell’’ Impero del Bene. E poco importa che lo stesso mezzo – l’uso delle controversie etniche per scatenare le guerre – sia quello già impiegato da Hitler per “difendere” le ragioni della Germania in Austria, le minoranze tedesche in Cecoslovacchia, e poi a Danzica. In questo caso l’analogia non vale.

Ma la guerra assoluta è anche una guerra liquida, dai confini incerti, ubiquitaria, che si può svolgere in contemporanea a Gaza, ma può estendere le sue propaggini a Bruxelles, ad Arras, a Parigi, dovunque possa agire un “lupo solitario” che uccide usando il nome di Allah, oppure può assumere forme ibride, col danneggiamento di un oleodotto nel Mar Baltico di un impianto elettrico o di una chiesa in Ucraina. A volte è persino anonima o fortemente impersonale: il drone o il razzo non sempre è chiaro da chi e da dove sia stato lanciato.  Talvolta l’uccisione di un capo può essere vera o simulata. L’aereo abbattuto aveva a bordo Evgenj Prigogin, il fondatore della brigata Wagner, oppure no.  La verità storica non solo è irraggiungibile. È ormai irrilevante e priva di effetti. Inutile. Non è più solo l’estremista fondamentalista che non accetta più la realtà come verità e quindi come limite al suo ragionamento, anche l’altra parte, diciamo la parte delle “democrazie combattenti”, che si comporta nello stesso modo.  Tanto, ognuna delle parti ha una sua “fede” che è irremovibile di fronte a ogni anche opposta evidenza. La guerra pare estendere dovunque le minacce alla vita: possiamo anche blindare i confini o innalzare nuovi muri. Ma non è più sufficiente. Ognuno di noi deve temere qualcosa per sé e per i propri cari.  Ma da dove può nascere tutta questa storicamente inedita situazione?

C’è qualcosa di molto profondo e inquietante in questa accettazione “assoluta” della legge della forza e di uno stato di guerra permanente – magari, si dice, a “bassa intensità”! – che vale anche per il mondo democratico, per coloro che accettando la prospettiva estrema della guerra hanno sempre circondato di cautele e limiti il ricorso alla violenza collettiva dello Stato, formalizzando le regole dello “jus in bello”. Che ad esempio limitano il ricorso all’assedio, oltre che al terrore indiscriminato. E’ vero che poi, all’interno dei conflitti, quei limiti sono stati oltrepassati – vedi i bombardamenti alleati di alcune città tedesche nel secondo conflitto mondiale, già prima del ricorso alle atomiche – , ma da quegli episodi si sono prese le distanze.

Il fatto è che, nel mondo “democratico” lato sensu, nelle menti di tutti ha iniziato a prevalere quell’ “umanesimo del dominio” assolutamente antropocentrico, che non è invenzione di oggi, che ha percorso la storia del nostro mondo anche europeo, ma che è però oggi supportato dalla tecno-scienza e dai poteri telematici, e frutto ultimo di una “secolarizzazione” che veicola la pretesa di una conoscenza totalitaria della realtà, la pretesa di un dominio totale su di essa.

Certo dall’altra parte del mondo, quella che rifiuta, anche qui lato sensu,  la democrazia e  i diritti in nome di una anti-secolarizzazione, che tiene in vita fondamentalismi religiosi e ideologici e rianima idee imperial-nazionalistiche che ritenevamo ormai appartenere al passato, non proviene certo una richiesta di dialogo.

Pare allora normale che questi due mondi possano  parlarsi solo col linguaggio muto, della forza e della violenza.  Certo totalitarismi e fondamentalismi non sono confezionati per discutere. Ma altro dovrebbe essere il modo di agire delle democrazie. I metodi di azione delle democrazie non possono essere gli stessi dell’antidemocrazia.

Se però ci si muove non più entro un “umanesimo del dominio”, e ovviamente si decide di tener conto degli interessi dei popoli, non delle ambizioni e dei progetti dei dittatori e degli autocrati, la via di uscita dalla guerra assoluta esiste ed è comunque praticabile, senza cedere a irenismi ed ingenuità o, peggio, a strumentalizzazioni partitiche.  Facile, lo sappiamo, schierarsi per la “pace”, solo per attaccare una parte politica. Facile anche fare la stessa operazione con la guerra. Anzi forse più facile. Quanti dittatori e dittatorelli hanno puntellato il loro potere fasullo sul consenso interno generato da una guerra contro un vicino più debole?

Torniamo però all’umanesimo del dominio. Ho tratto il concetto di “umanesimo del dominio” da un vecchio libro di Padre Ernesto Balducci (1922-1992) che mi è capitato tra le mani, “Francesco di Assisi”, pubblicato nel 1989, per le Edizioni Cultura della Pace, Firenze. Un libro che, coincidenza interessante, spiega proprio come è stata combattuta ottocento anni fa, in pieno Medioevo, un’idea di guerra assoluta. Un’idea combattuta, non certo sconfitta.

Il libro analizza in termini di rivoluzione antropologica il mutamento avviato dalla azione di San Francesco. Un’azione, per Balducci, istruttiva ed esemplare anche per l’oggi, anzi per “l’uomo del futuro”. I richiami francescani alla fratellanza cristiana, alla povertà, al rispetto del creato ed alla pace sono da lui letti come esiti di una mutazione che delegittima ogni umanesimo del dominio, a partire da quello estremo che è la guerra ed a finire con quello più modesto e apparentemente innocuo che è il dominio-manipolazione della natura che ci circonda.

Che cosa altro sono oggi se non effetti di questo abnorme umanesimo, un umanesimo trans-umano o oltre-umano, il disastro ecologico, la violenza sull’ambiente, il disordine internazionale, l’impossibilità della politica, la paura del futuro, la società dai rischi crescenti, la Babele mondiale, in un periodo in cui le tecnologie disponibili dovrebbero rendere possibile risolvere i più diversi problemi?

Padre Balducci scrive che “siamo dentro una parabola in rapida curva discendente.  Se è morto il dio dei metafisici è morto anche il “dio della storia”. Il futuro è affidato all’uomo e l’uomo della civiltà dei consumi, già perché consuma, lo abbrevia, nega di fatto l’esistenza delle generazioni future” (Ernesto Balducci, p. 138).

La guerra poi non può essere considerata assurdamente ancora come un tempo, un mostruoso “giudizio di Dio” in cui la violenza serve a stabilire la ragione ed il torto, in cui ciò che è più forte coincide con ciò che è più giusto – in barba a quanto scrive il libro della Sapienza –  e quindi la vittoria militare, il prevalete delle armi,   stabilisce la “giustizia” e instaura la pace.

In realtà, per riprendere ancora il testo di Balducci, “la pace non sta nello spartire da un lato la ragione e dall’altra il torto, vuol dire superare le ragioni unilaterali che alimentano il conflitto e accogliere la ragione comune su cui basare la fraterna convivenza” (Ernesto Balducci p, 85). Ed ancora più chiaramente, “la condizione prima di una vera cultura della pace: l’abolizione della categoria di nemico” (Ernesto Balducci p. 76).

Parole apparentemente facili da pronunciare, ma difficili da realizzare. In realtà Padre Balducci non si nasconde queste difficoltà, ma insiste sulla mutazione antropologica profondissima oggi imposta dalla storia e già delineata da Francesco.

Francesco d’ Assisi non inaugurò certo un’epoca nuova, l’età dello spirito, come qualcuno davvero credeva. Ma aprì una possibilità, una strada che altri poi avrebbero potuto percorrere ed in effetti percorsero. E quella strada ha condotto ai (pochi) periodi di pace effettiva vissuta da allora.

Anche all’epoca di Francesco la guerra era un elemento onnipresente, ubiquitario, nessun uomo libero viaggiava disarmato a parte i frati minori), il Papa di Roma allora  battezzava come “crociata” ogni guerra utile al suo potere politico, non solo se si trattava di combattere gli Albigesi.  C’era anche allora un Impero del Male da combattere, il mondo islamico.  Si dichiarava la pace, non c’era bisogno di dichiarare una guerra.

Che la figura di Francesco di Assisi si associ ad un mutamento antropologico è una asserzione fondata sulla percezione dei grandi padri della cultura italiana, a partire da Dante e da Machiavelli, che non ebbero mai dubbi su questo e che videro acutamente soprattutto nel nuovo concetto di “povertà” la radice del mutamento.   Una povertà che non era ascetismo astratto, né una protesta sociale o risentimento umano contro la ricchezza.

Dante, che imposta il suo discorso sul rapporto tra Francesco e Madonna Povertà, vide in Francesco addirittura un nuovo “sole”.

“Da questa costa, là dov’ella frange/più sua rattezza, nacque al mondo un sole, come fa questo talvolta di Gange” (Paradiso XI, vv. 49-51).  “Quasi sol oriens in mundo” aveva scritto nella Legenda Prima, Tommaso da Celano, uno dei primi biografi di Francesco.

Niccolò Machiavelli, non certo un sostenitore della pace, né un amico della Chiesa cattolica, qualche secolo dopo scrisse:

“La nostra religione, se non fussi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico, sarebbe al tutto spenta. Perché questi, con la povertà e con lo esempio della vita di Cristo, la ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta. E furono sì potenti gli ordini loro nuovi che ei sono cagione che la disonestà de prelati e de capi della religione non la rovinino” (N. Machiavelli Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Libro III cap. 1).

Il centro del mutamento fu dunque la povertà.  E perché la povertà ebbe questo ruolo antropologicamente   dirompente? Così lo spiegava in termini semplicissimi Francesco:

“Messere, se avessimo dei beni, dovremmo disporre anche di armi per difenderci. È dalla ricchezza   che provengono questioni e liti, e così viene impedito in molte maniere tanto l’amore di Dio quanto l’amore del prossimo.  Per questo non vogliamo possedere alcun bene materiale a questo mondo” (Leggenda dei tre compagni, 35)

Povertà significava volontà di pace e di fratellanza. L’opposto della volontà di dominio, l’opposto della brama di acquistare e possedere ricchezze (la lupa dell’inferno dantesco) che aveva pervertito la Chiesa o che era stata una delle piaghe che avevano ferito la Chiesa. La povertà spostava infine il baricentro dell’agire umano dal mondo dell’avere a quello dell’essere.

Ingenuità sarebbe certo credere che questo metodo possa pervadere il mondo e cambiarne le vicende. Francesco sperimentò tanti fallimenti ed ancora oggi siamo lontanissimi da questa pace.

Ma follia sarebbe il pensare che l’idea di una rivoluzione antropologica orientata in questa direzione possa essere una utopia o un sogno, invece che una necessità di un mondo in cui il potere umano, in qualsiasi ambito lo si consideri, che si tratti di distruzioni belliche, o distruzioni ambientali, ha bisogno soprattutto di recuperare una cultura del limite e del dialogo.

Umberto Baldocchi

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