IMMIGRATI, MA COME? IN TOSCANA E IN CAMPANIA

Storie dolorose di immigrati che operano nell’agricoltura e sono vittime del caporalato e delle agromafie

Brevi racconti di ordinario sfruttamento di immigrati che operano nell’agricoltura e sono vittime del caporalato e delle agromafie

Dopo iracconti che vengono dal Veneto, già usciti in questo sito, continuiamo a pubblicare le testimonianze registrate nel corso dell’indagine condotta dall’Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di Flai Cgil),edita a Roma nell’ottobre 2020, dalle Edizioni Ediesse Futura col titolo Agromafie e caporalato. Quinto Rapporto (coordinato daFrancesco Carchedi e Jean RenèBilongo).Sono racconti di sfruttamento, se non addirittura di schiavismo. Qui diamo conto dei casi registrati in Toscana e Campania. Seguiranno la Puglia e la Sicilia. Come già abbiamo scritto, li pubblichiamo perché il problema dell’immigrazione nella percezione pubblica deve cessare di essere un problema di numeri, di statistiche, di decreti repressivi o di respingimenti e naufragi di massa, ma deve diventare un problema di singole persone, di questo o di quella, di chi viene dal Mali o dal Senegal, con un nome che però non può rivelare, perché nella civiltà di cui ci gloriamo al nome corrisponde un diritto, a cominciare dal diritto ad esistere per finire al diritto al lavoro e alla dignità, mentre questi immigrati non hanno alcun diritto e perciò il loro nome deve restare nascosto, altrimenti sarebbero ricacciati nel nulla e sostituiti da altri senza nome. Si tratta di lavoratori agricoli che svolgono la loro attività nei campi o nelle serre in condizione di estrema precarietà, non solo economica ma anche sociale ed esistenziale. Economica perché le condizioni occupazionali sono molto dure, e sono ancora più dure perché l’orario di lavoro è molto ampio (in estate la media è di 10/12 ore giornaliere, ininverno di 8/10) e perché il salario oscilla dai 2 euro ai 5, a seconda dell’esperienza che il datore di lavoro attribuisce all’operaio. Sociale perché sono spesso emarginati, parlano poco la lingua italiana, hanno difficoltà di orientamento alla fruizione delle risorse territoriali e non sempre riescono ad avere la documentazione di soggiorno formalmente adeguata. Esistenziale perché, dato il basso salario e lo status giuridico fragile, vivono spesso con l’angoscia di essere intercettati ed espulsi dalle autorità. Queste tre dimensioni creano una condizione psicologica di accentuata vulnerabilità, una condizione di ricatto permanente, una docilizzazione voluta e da loro accettata per non perdere la possibilità di lavorare comunque.

Dalla Costa d’Avorio a Livorno
AMMALARSI DI SCHIAVITÙ

H.H. è un cittadino della Costa d’Avorio di 27 anni, arrivato a Lampedusa nel marzo 2014 e ospitato in un Centro di accoglienza nel territorio di Livorno. H.H, ha lavorato per circa due anni in una azienda agricola. A metà del 2019 si presenta allo Sportello SATIS per vittime di tratta e di sfruttamento lavorativo. Dichiara di avere il permesso umanitario in scadenza, a seguito dei “Decreti Salvini”, e manifesta la sua preoccupazione perché rischia di perdere il lavoro e diventare così irregolare. Racconta inoltre che il datore di lavoro non gli paga il salario da mesi, se non con acconti mensili di circa 300/400 euro. H.H. è creditore di circa 4/5.000 euro e le volte che ha chiesto il saldo è stato minacciato di denuncia dato che il suo permesso è in scadenza. Ha paura di non poter avere il salario maturato, e non poter di conseguenza inviare denaro alla famiglia.

L’operatore sociale che lo accoglie gli spiega che in caso di verifica del suo stato di sfruttamento potrebbe fruire di assistenza. H.H. racconta che lavora con un altro gruppo di lavoratori di nazionalità diversa presso un’azienda composta da più sedi operative e pertanto il suo lavoro viene svolto in parte in una sede, in parte in un’altra e in parte in un’altra ancora. H.H è spostato continuamente da una sede produttiva all’altra ma svolge il lavoro volentieri, poiché all’inizio aveva avuto assicurazione che la paga sarebbe ammontata a circa 800 euro mensili. Nel leggere le buste paga l’operatore si accorge che le giornate registrate sono molto di meno di quelle che H.H. dichiarava di aver mensilmente effettuato. I 3/400euro che prende corrispondono formalmente a circa un terzo delle giornate lavorate. L’operatore gli spiega che è stato truffato e ingannato dal datore di lavoro proprio perché le giornate non risultavano assegnate, mentre H.H. ha solo l’UNILAV con le giornate presunte che non superano le 7 settimanali. H.H. mostra segni di sofferenza, di stanchezza ed appare sotto peso. Dichiara infatti che mangia male e lavora 10 ore consecutive al giorno e la sera crolla sul letto quasi senza mangiare nulla. Racconta, a proposito, che durante il giorno vorrebbe ancheriposare poiché il lavoro è molto pesante, ma non gli viene concesso, né a lui né agli altri braccianti. H.H. dice che si sente soffocare, così anche i suoi colleghi. Viene minacciato di licenziamento per scarsa produttività, ma dice che è una pratica che il datore usa per spronare i braccianti a fare ancora di più di ciò che fanno. Questa circostanza appare importante, poiché evidenzia che la minaccia di licenziamento è collegabile ai problemi di salute connessi alla condizione di sfruttamento lavorativo. H.H. infatti, anche secondo parere medico (essendo stato sottoposto a visita medica), siè ammalato in ragione degli altissimi ritmi di lavoro che svolgeva e della conseguente fatica che ne derivava quotidianamente.

Il medico ha rilevato i seguenti disturbi: vertigini, dolori alla colonna vertebrale, problemi digestivi, dolori allo stomaco, piedi gonfi a causa delle eccessive ore in piedi, e senso continuo di spossatezza da fatica fisica. H.H. dichiara inoltre che non riesce più ad andare e tornare dal lavoro in bicicletta, come aveva fatto dal momento dell’assunzione. Gli viene consigliato di ricoverarsi per analisi più specialistiche. Resta in ospedale una settimana e il referto medico conferma quanto il medico di base aveva prognosticato: H.H. è stressato dal lavoro pesante che svolge e dalla cattiva nutrizione che può permettersi con una remunerazione così bassa. Gli hanno consigliato di riposarsi e di tornare dal datore di lavoro con il certificato dell’ospedale per ricevere il corrispettivo pagamento del periodo di malattia. Il datore si rifiuta di pagare la malattia e ancora minaccia H. H quando chiede il saldo salariale pregresso. A questa richiesta ildatore di lavoro invita H.H. ad andare a casa per una decina di giorni per riprendersi, cosicché al suo rientro in azienda avrebbe sistemato tutto.

H.H. resta a casa una decina di giorni, poi torna in azienda e viene licenziato per assenza ingiustificata e per continuato scarso rendimento sul lavoro. H.H. mostra all’operatore che lo segue una lettera firmata da lui stesso dove si legge che il licenziamento è stato una sua scelta volontaria, cioè è stato lui a dare le dimissioni. Ma questa lettera è datata almeno tre mesi prima che H.H. arrivasse allo Sportello SATIS, il che dimostra che è stata fatta firmare dal datore di lavoro come condizione preliminare per l’assunzione e pertanto in via preventiva nel caso si determinasse un conflitto, come effettivamente avvenuto. Il dato che emerge dalle dichiarazioni di H.H. è che lavorava sette giorni su sette in tutte e tre le aziende riconducibili allo stesso datore di lavoro, con una media oraria di 12 ore, e l’estate anche 14 al giorno. E senza nessun riposo. Inoltre, due volte a settimana H.H. doveva restare in azienda, insieme ad un altro connazionale, per fare le pulizie dei macchinari. In caso di ispezione H.H. e gli altri colleghi di lavoro dovevano uscire immediatamente dall’azienda oppure – se non ci riuscivano – dovevano all’unisono affermare che era il primo giorno di lavoro, e quindi erano in prova. H.H. ha inoltrato una denunzia per sfruttamento e riduzione in schiavitù.

(La breve storia di questo lavoratore è stata acquisita dalla Dott.ssa Serena Mordiniper la Segreteria Tratta Progetto SATIS – Regione Toscana -Sistema Antitratta e sfruttamento).

Da Dakar a Livorno
DEVE RESTITUIRE LA PAGA CHE RICEVE

Il sottoscritto K.K. nato a Dakar in Senegal, di anni 28 (…) dichiara di avere un contratto di lavoro in essere con la ditta (…) con sede a Livorno (…). Si tratta di un contratto a tempo determinato di 39 ore settimanali per 6,5 al giorno sottoscritto dal 2 gennaio 2018 al 31 dicembre 2018, in qualità di operaio di livello Comune Addetto Coltivazione Ulivi e Vigneti. Il Sottoscritto K.K. nel pieno delle proprie facoltà mentali è consapevole di quanto va a dichiarare e delle responsabilità penali che ne possono conseguire, assistito dal Mediatore del Progetto SATIS, Dott. D.S. che ha tradotto letteralmente le mie dichiarazioni in italiano.

Dichiara che in realtà non lavora e non ha mai lavorato tutte le giornate e le ore come sono dichiarate e indicate nel contratto di lavoro sopracitato e nelle buste paghe che allego. In realtà lavora di media 20 giorni al mese per circa 10 ore al giorno (200 invece di 156 ore mensili). Dichiara anche che il datore di lavoro, proprietario della ditta (…) mi bonifica ogni mese la somma come da buste paga allegate, ma poi il sottoscritto K.K. è costretto a restituire buona parte dei soldi che il datore di lavoro mi bonifica. Dal 2 gennaio 2018 al 2 settembre 2019 in effetti ho ricevuto solo 2.000 euro complessivi, tutti gli altri soldi che risultano dalle buste paghe (vedi allegato) o non li ho mai ricevuti o li ho dovuti restituire in contanti al datore di lavoro della ditta in questione. Le buste paghe che allego sono riferite ai mesi di marzo 2018 (netto 509,00 €.), aprile 2018 (netto 528,00 €, ma non mi è stato mai bonificato pur avendo lavorato 12 giorni), maggio 2018 (netto 819,00 €), giugno 2019 (1.216,00 €), luglio 2019 (1.569,00 €).

In agosto 2018 ancora non mi è stata pagata la mensilità né bonificata. In totale ho restituito in contanti al datore di lavoro della ditta (…) la cifra di 2.113 € e a me sono rimasti in tutto la cifra di 2.000,00€ (e non ho ricevuto neanche il bonifico di aprile 2018). Sono stato costretto ad accettare queste condizioni perché il datore di lavoro della ditta (…)mi ha espressamente detto che questo era l’unico modo per lavorare con un contratto regolare e io ne avevo bisogno anche per avere il permesso di soggiorno (la lettera è datata Livorno e firmata da K.K.).

(La dichiarazione è stata raccolta dagli operatori della Cooperativa CAT di Firenze).

Cosa aggiungere a queste lettera? Una parte cospicua degli intervistati afferma che ciò che è accaduto a K.K. è una pratica molto diffusa, che si riscontra non solo nella Val di Cornia, ma anche in altre realtà agricole della Penisola. La dichiarazione fittizia delle giornate lavorate in eccesso o in difetto che opera il datore di lavoro – giocando in modo spregiudicato sull’intervallo di tempo che trascorre tra l’assunzione del lavoratore (con l’UNILAV) e l’obbligatorietà della registrazione delle giornate trimestrali (con il DMAG) – è motivo di truffe ed inganni. E non solo verso il bracciante, e già siamo davanti ad un grave reato nei suoi confronti, ma anche verso la componente imprenditoriale che non si presta a queste pratiche e pertanto ne subisce la concorrenza sleale poiché i suoi costi d’impresa saranno maggiori (e ciò si ripercuoterà direttamente sui prezzi di vendita dei prodotti). E ancora (non secondariamente): un reato verso la fiscalità generale, poiché si tratta di evasione fiscale e quindi di un reato perpetrato contro l’intera società (e le istituzioni che la costituiscono).

Contro K.K. c’è stato un furto di circa 2.000 euro. I sindacalisti intervistati hanno affermato che questa è un’altra pratica comune, poiché il datore di lavoro quando mette in atto queste condotte ne è pienamente cosciente. Non ledetermina casualmente. Ma sono intenzionali, sono strategie ben studiate. Nei rari casi (e K.K. sembrerebbe uno di questi) in cui i lavoratori stranieri inoltrano una denuncia contro l’imprenditore è perché si verifica una situazione considerata dagli stessi lavoratori molto grave. Quando l’imprenditore riceve la denuncia neanche risponde, poiché sa bene che passerà del tempo prima che la stessa faccia il suo corso burocratico e che probabilmente verrà convocato dal giudice del lavoro. L’imprenditore ha tutto il tempo per tentare una conciliazione sindacale offrendo una quota in denaro all’operaio per chiudere l’interocontenzioso. Una quota che si può negoziare al ribasso.

L’operaio – dicono i sindacalisti – quasi sempre accetta la quota proposta, magari leggermente più alta di quella avanzata in prima istanza. Un datore di lavoro disonesto e amorale può avere 10 o 15 casi come quello di K.K., e con tutti prova ad arrivare ad una conciliazione. Su 10 o 15 può rimetterci per qualcuna, ma per le altre è un vero e proprio ricavo: non ha pagato i salari dovuti, né gli oneri fiscali correlati e tantomeno l’intero importo denunciato dal lavoratore.

Dal Ghana in Campania
SENZA NOME
Primo bracciante,B.

Come ti chiami? Non lo posso dire. Da dove vieni? Diciamo dal Ghana (ride, perché non è ghanese). Quanti anni hai? Ho 25 anni, compiuti il mese scorso (settembre 2019). Perché non dici il tuo nome, resta tra me e te, questo colloquio rimane anonimo. Non lo posso dire a nessuno. C’è una ragione precisa? Perché se si viene a sapere che sono stato al sindacato a parlare della mia situazione lavorativa verrò licenziato immediatamente. Posso chiamarti B. Si, certo. Ma cosa vuoi sapere? Quali sono le condizioni di svolgimento del tuo lavoro. Ma voi sindacalisti sapete meglio di noi braccianti quali sono le condizioni che viviamo. Sapete bene che abbiamo tutti molta paura di perdere il lavoro e che siamo molto sfruttati. Dobbiamo solo lavorare. Sapete anche che quando vengono gli Ispettori del lavoro in azienda o la Polizia del Comune di Battipaglia o di Eboli non riescono a trovare mai nulla o solo piccole cose.

Anche perché i datori sanno quando ci sarà l’Ispezione e così lo veniamo a sapere anche noi perché ci dicono di mettere i guanti, le mascherine anti-polvere, le scarpe adatte per lavorare nei campi … dei cappelli rigidi per la testa e le pettorine pulite. Abbiamo tutti gli indumenti della sicurezza, ma quando gli Ispettori vanno via tutto ritorna come prima. Se gli Ispettori ci chiedono qualcosa dobbiamo dire che tutto è regolare, che lavoriamo 6 ore e mezza e che la paga giornaliera è di 52,0 euro al giorno per 22 giorni al mese. Invece lavoriamoquasi 30 giorni su 30 per più di otto ore al giorno e quando il tempo è buono anche 10, in particolare tra aprile e settembre. La paga non supera mai i900 euro, di cui circa 500 o 600 in busta paga, alcuni mesi anche di meno. Per il salario in busta paga viene fatto il bonifico, l’altra parte è pagata in contanti. Siamo costretti a subire questa situazione per continuare a lavorare e inviare denaro alla famiglia, ai genitori, alla moglie e ai bambini per tutto.

Di queste cose non parliamo mai con nessuno, solo un po’ tra connazionali e qualche volta qua al sindacato. Ci lamentiamo, ma non possiamo fare niente. Anche i sindacalisti possono fare poco, lo abbiamo capito. Ma sono gli unici che ci ascoltano, e laddove è possibile ci supportano. Molti pensano che non ci accorgiamo di come siamo trattati. Ma non è vero. Lo sappiamo bene, ma non possiamo manifestarlo apertamente. Questa è la verità. Nessuno può dire il contrario. Questa è la situazione del nostro lavoro e la situazione che bene o male viviamo come braccianti. Siamo obbligati al silenzio. E’ un silenzio doloroso ma è per noi necessario per vincere la paura di essere licenziati. Di restare senza lavorare. Stiamo zitti perché con il contratto possiamo avere il permesso di soggiorno.

Senza contratto saremmo irregolari. Siamo sempre ossessionati dal rinnovo del contratto di lavoro, perché permette di stare in regola. E’ ciò che ci condiziona maggiormente, ed è la cosa che più ci umilia. Più della fatica ci umilia dover chiedere il permesso di soggiorno presentando il contratto di lavoro e per averlo si accettano tutte le ingiustizie. Sono quasi 10 anni che sono qua a Campolongo, vicino Eboli, sul mare. Abito con altri connazionali, siamo in quattro in due stanze e una cucina. Va molto bene, è una casa piccola ma buona. Paghiamo quasi 100 euro a persona. Anche gli altri connazionali con cui divido la casa vivono una situazione come la mia. Una busta paga con una parte dei soldi, l’altra pagata in contanti. E non sempre tutti quelli che ci aspettiamo per le giornate che lavoriamo.

Dall’Ucraina a Salerno.
PERÒ AMA L’ITALIA

F.ha lasciato l’Ucraina dieci anni fa, nel 2009. E’ entrato in Italia irregolarmente per raggiungere la moglie, che già lavorava ad Aversa arrangiandosi presso diverse famiglie facendo le pulizie ad ore. Poi, dopo circa otto anni, finalmente con l’assistenza dello sportello di NeroenonSolo! riesce a regolarizzarsi attraverso il ricongiungimento familiare. F. quindi è stato costretto ad uscire dall’Italia per poi rientrare con un regolare visto ed ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari. Lo scorso anno (2018) converte il permesso da motivi di famiglia a lavoro subordinato.

Negli ultimi quattro anni ha vissuto, insieme con la moglie, in un umido e malsano container infestato dagli insetti presso l’azienda del suo datore di lavoro. Lavorava infatti a nero come custode del deposito di uno stabilimento agricolo ubicato in una area agricola salernitana con un contratto stipulato a nome della moglie per un numero di ore fittizio. Aveva concordato con il padrone che la sua mansione sarebbe stata quella di sorvegliare il deposito, controllando chi entrava ed usciva, e che a fine giornata non fosse mancato nulla. In realtà, all’arrivo dei camion, veniva chiamato a qualsiasi ora del giorno e della notte dal figlio del titolare dell’azienda, anche con minacce ed invettive, per scaricare la merce dai camion che arrivavano in deposito e aiutare coloro che lo dovevano riempire di prodotti agricoli. Faceva tutto questo poiché temeva di perdere il privilegio di alloggiare nel container in azienda, che per lui e la moglie era un modo per arrotondare il basso salario percepito. Anche la moglie era coinvoltaa cucinare per gli altri operai dell’azienda e tenere puliti anche gli spazi adibiti alla produzione (e anche agli uffici dell’amministrazione). Il salario per entrambi non superava i 1.000 euro mensili, e i pagamenti non avvenivano mai regolarmente.

Alla fine del mese per entrambi il pagamento avveniva in contanti, al nero, senza nessuna ricevuta o qualsivoglia tracciabilità. Tale salario non comprendeva mai il lavoro notturno svolto da F. e dalla moglie per pulire i locali aziendali, non venivano altresì calcolate le notti, le domeniche e le altre festività. Niente di niente. F. era stanco, e racconta che si sentiva continuamente sotto pressione. Una notte d’inverno, mentre scaricava la merce da un camion F. è stato colto improvvisamente da un infarto. Lo hanno dovuto operare d’urgenza all’ospedale di Salerno ed è stato costretto a lasciare sia il lavoro che il container dove alloggiava con la moglie. Ciò è avvenuto immediatamente subito dopo essere uscito dall’ospedale e senza nemmeno ricevere una buona uscita per l’attività svolta sino a quel momento.

Tutto è avvenuto di fretta sotto le minacce del datore di lavoro e del figlio. F. ha avuto appena il tempo per recuperare le sue poche cose. Ora, a sessantuno anni, è disoccupato, e il cuore non gli consente di affaticarsi più di tanto. Si arrangia con qualche giornata di lavoro in campagna. Convive con la moglie in un basso affittato per 100,0 euro al mese. Anche lei ha dovuto lasciare il posto che aveva come addetta alle pulizie e porta avanti la famiglia lavorando come bracciante agricola in una azienda situata in un’altra località del salernitano rispetto alla precedente. Raccoglie frutta: mele, mandarini e altro, a seconda della stagione, arrampicandosi sulla scala alla bell’età di cinquantasette anni.

Dai pochi soldi che racimolano insieme, ogni mese mettono via una parte e la mandano in Ucraina, per aiutare i nipotini ad andare a scuola. Sia F. che la moglienon ci pensano proprio a tornare a casa. La loro vita è in Italia, e nonostante tutto hanno scelto di vivere nel Paese che li ha accolti e che tutto sommato dicono di apprezzare. Si sentono parte della comunità e per questo non vogliono denunciare alla polizia quello che gli è accaduto, tanto meno i datori di lavoro che li hanno letteralmente sfruttati. Quando attraversiamo il paese, dicono sempre, vogliamo camminare a testa alta. Questa morale, questa correttezza di fondo, questo rispetto che i migranti nutrono per il nostro Paese è proprio quella che datori di lavoro amorali tendono a torcere a loro favore, abusando così della condizione di oggettiva vulnerabilità che contraddistingue i migranti.

(La storia di B. è stata raccolta da Anselmo Botte e da Francesco Carchedinella sede della Flai Cgil di Battipaglia, mentre la storia di F. è stata raccolta da Valentina Caliendo e Luca Fratepietrodell’Arci di Salerno)

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