Kant Per la pace perpetua

Appunti di Enrico Peyretti.

Progetto filosofico. 1795

Sintesi e breve commento per uso scolastico

LA FILOSOFIA DELLA PACE DI KANT (1795)

Ritrovato nel 2021, questo testo viene lasciato nella forma che ebbe nel 1988.
I riferimenti all’attualità sul problema pace sono superati solo in parte:
nelle questioni maggiori, i principi filosofici di Kant valgono oggi come allora.

Lo scopo di questo lavoro è modesto; aiutare i miei allievi di liceo nella lettura e comprensione attuale dell’opera di Kant Per la pace perpetua (progetto filosofico), del 1795. Spero che risulti anche di qualche utilità, non solo agli studenti, ma a chiunque cerca una cultura della pace nel presente e nelle sue radici storiche.
Si tratta di un riassunto, ma anche di uno sviluppo attualizzato, di una “traduzione” nei termini del nostro tempo, delle tesi di filosofia politica proposte da Kant a fondamento dell’istituzione — ancora non compiuta oggi — della pace cosmopolitica permanente. Il metodo di questo lavoronon é soltanto la spiegazione, la messa in rilievo dei passaggi e della struttura dello scritto di Kant (necessarie per superare le difficoltà che presenta una prima lettura); è anche un commento libero, una applicazione del principi kantiani alla nostra attuale situazione atomica.
Credo che un classico vada letto come tale, nel suo tempo, ma pure che il suo ultimo valore sia nel provocarci a riprendere la sua sostanza ideale e ripensarla, farla vivere, nel nostro tempo. Ciò è vero, mi pare, almeno per i grandi testi del pensiero morale, come è questo di Kant. Il rigore filologico e storico deve essere completo, ma non impedisce di far vivere quel pensiero nel nostro pensiero, a guidare la nostra azione nel presente. Un pensiero che vive attraversa anche le trasformazioni della vita.
Quindi, queste pagine, lungi dal sostituire la lettura diretta del Per la pace perpetua di Kant, vogliono, se ci riescono, accompagnarla ed aiutarla, e poi proseguirla col prendere la nostra responsabilità di pensare i fondamenti della pace.
Ho fatto riferimento a tre edizioni accessibili nella scuola:
l) I. KANT, Scritti di filosofia politica, Introduzione e note di Dario Faucci, traduzione di Gioele Solari e Giovanni Vidari, Ed. La Nuova Italia, Firenze 1975.
2) I. KANT, Per la pace perpetua, introduzione di Norberto Bobbio, a oura di Nikolao Merker, Editori Riuniti, Roma 1985. Farò riferimenti soprattutto all’ntroduzione che indicherò con Bobbio e il numero romano di pagina.
3) I. KANT, Per la pace perpetua, traduzione e cura di Alberto Bosi, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1995
La divisione del riassunto-commento in paragrafi numerati é mia, le altre partizioni sono dell’opera. Le parole ed espressioni proprie di Kant sono sempre tra virgolette.
Mi sono fermato prima delle due Appendici (I- Sulla discordanza tra morale e politica in ordine alla pace perpetua. II- Dell’accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico) perché, per la loro ampiezza, allungavano un lavoro già lungo (specialmente in ordine al primario scopo scolastico), e perché il tema del rapporto tra politica e morale rimanda ad altri scritti di Kant e allarga il discorso. Ma questo completamento è dà fare perché integra il progetto filosofico kantiano della pace.

PER LA PACE PERPETUA – PROGETTO FILOSOFICO
di IMMANUEL KANT (1795)

Sezione I – Articoli preliminari per la pace permanente tra gli stati.
Questi sei articoli contengono sei divieti morali rivolti ai governanti e riguardano sia comportamenti che facilitano la guerra, sia comportamenti che ostacolano la pace. Sono tutti “ispirati all’ idea che i sovrani debbono comportarsi moralmente, vale a dire in conformità della suprema massima secondo cui la persona umana non deve essere mai considerata come mezzo” (Bobbio, XX).

Art. 1 preliminare – Nessun accordo di pace è tale se è fatto riservandosi il diritto di far guerra.
1 – La volontà ipotetica, e non categorica, di pace non è volontà di pace.
2 – La pace non è l’armistizio, ma è “la fine di ogni ostilità”, implica la durata illimitata, “annulla (..) le cause di guerra futura”.
3 – La pace è rinuncia degli stati al diritto di guerra, alla sovranità intesa come insubordinazione ad una legge universale umana.
4 – Se si intende lo stato come potenza e la sicurezza come superiorità si ha un sistema di guerra e l’assenza strutturale di pace.

Art. 2 preliminare – Nessun popolo, con la sua terra e istituzioni (Stato) può essere oggetto di possesso o dominio da parte di un altro.
1- Una comunità politico-territoriale (Stato) è un popolo sovrano di se stesso, è una comunità di soggetti umani liberi, e non può essere oggetto di conquista, proprietà, commercio, dominio, come se fosse un patrimonio.
2 – Le truppe di un popolo non possono essere messe a disposizione di un altro (p.es. dell’alleato più potente) contro un nemico non comune, perché con ciò si usa e si abusa dei cittadini a capriccio, come se fossero cose, contro il principio categorico della morale.

Art. 3 preliminare – Gli eserciti ed armamenti permanenti devono essere soppressi.
1 – Ciò vale, a maggior ragione, per gli armamenti crescenti e per quelli eccedenti la pura e semplice difesa del territorio (p.es. aerei dotati di un raggio di volo tale che li rende strutturalmente offensivi anche con le armi più convenzionali)
2 – La ragione sta nel fatto che gli eserciti ed armamenti permanenti sono già, con la loro sola esistenza, prima del loro uso, minaccia agli altri popoli, perciò violazione della pace, causa di insicurezza e quindi di inseguimento nella corsa senza fine agli armamenti.
3 – Le spese militari permanenti e crescenti rendono la pace armata più costosa, in denaro, dí una breve guerra e diventano, perciò, esse stesse, causa di guerre aggressive o di guerre provocate fra terzi come sbocco di mercato alle industrie militari.
4 – “Assoldare uomini per uccidere o per farli uccidere” è “usare uomini come macchine o strumenti dello Stato, il che non può conciliarsi col diritto dell’uomo sulla propria persona” e col principio categorico della morale.
5 – “Cosa ben diversa è l’esercitarsi alle armi volontario e periodico dei cittadini al fine di garantire sé e la patria dalle aggressioni esterne”. Cioè, la difesa legittima, in forma di autodifesa, spetta al popolo stesso e non va delegata ad una struttura separata.
6 – Accumulare e investire ricchezza in potenza militare costituisce “minaccia di guerra e renderebbe necessarie (per l’avversario) aggressioni preventive”.

Art. 4 preliminare – Non si deve costituire una forza finanziaria in vista dí un’azione da spiegare all’estero.
1 – Ciò costituisce una forza pericolosa perché equivale all’accumulo di ricchezza in potenza militare (vedi art.3, n. 6).
2 – Agevolarsi in tal modo la guerra, o comunque il dominio su altri popoli, è un grave ostacolo alla pace permanente, perché chi ha la forza diventa offensivo: per una tendenza insita nella natura umana, la forza, più che strumento di difesa, è strumento di offesa. Vedi anche, più oltre: “Il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione” (Secondo supplemento, n.2).
3 – Sono giustificati gli stati che si uniscono contro il pericolo degli stati più potenti.
4 – Kant pensa in questo articolo a stati chiusi in se stessi, cosa oggi superata dall’unificazione reale della vita planetaria. Nei termini attuali, il principio posto da Kant richiede di non lasciare estendere la forza finanziaria oltre le possibilità di suo controllo da parte della legge, come avviene nelle multinazionali che agiscono in condizioni di anarchia feudale. Tale controllo, sul piano planetario, va istituito mediante convenzioni internazionali e istituzioni sovranazionali e mediante lo sviluppo dell’opinione pubblica mondiale libera e critica.

Art. 5 preliminare – “Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”.
1 – Questo principio non giustifica neppure l’intervento fatto allo scopo di correggere o migliorare una situazione costituzionale o di governo interna ad un altro stato. C’è da chiedersi se questo principio debba valere oggi in modo cosi assoluto da non giustificare l’intervento in difesa di diritti umani violati sistematicamente. D’altra parte, sembra giustificabile tale intervento se attuato non da un singolo stato né da un gruppo di stati, ma dalla comunità internazionale e dalle sue istituzioni.
2 – Gli stati più forti – oggi i centri di impero, gli Usa e l’Urss – hanno ampiamente violato questo principio e si sono giustificati con l’esigenza a) di intervenire in aiuto (che si asserisce anche richiesto) a quel determinato stato, per correggere il suo cammino politico deviato da infiltrazioni del sistema alternativo; b) di mantenere l’equilibrio tra i due blocchi, visto come garanzia di pace.
3 – Le violazioni del principio di non ingerenza e la pretesa di giustificarle come garanzia di pace sono invece – dice Kant – offese dei diritti dei popoli e causa di insicurezza per tutti i popoli; sono perciò fatti di guerra.

Art. 6 preliminare – Durante la guerra stessa devono essere rispettate regole di autolimitazione, di umanità, di lealtà, che consentano di uscire dallo stato di guerra.
l – Gli stratagemmi tesi ad ingannare “disonorano” chi li mette in atto. Una lotta condotta senza onore non ha più giustificazione alcuna.
2 – “Una qualche fiducia nella disposizione d’animo del nemico deve sussistere anche nella guerra, perché altrimenti la pace diventa impossibile e la guerra si trasforma in guerra di sterminio”. Kant esprime così la necessità morale di seminare la pace addirittura dentro la guerra. Sarà soprattutto Gandhi che svilupperà questa esigenza con la sua esperienza pratica e riflessione teorica sui conflitti condotti senza uso di violenza (vedi p.es. “Le regole del comportamento conflittuale secondo Gandhi”, in Johan Galtung, Gandhi oggi, con introduzione di G. Pontara, Ed. Gruppo Abele, Torino 1987, alle pagg. 120-121 e contesto).
3 – “Una guerra di sterminio, in cui ha luogo la distruzione delle due parti ad un tempo e con esse di ogni diritto, non farebbe posto alla pace perpetua, se non nel grande cimitero dell’umanità. Una simile guerra pertanto, e con essa l’uso dei mezzi che vi conducono, dev’essere assolutamente vietata”. Kant parla, con anticipo di 150 anni, della guerra atomica e del divieto che la ragione impone anche solo al predisporne la possibilità. Non solo l’uso, ma il possesso e la fabbricazione di armi di sterminio sono vietate dalla ragione.
4 – Se la guerra è senza regole né limiti non termina con la fine dei combattimenti, ma continua anche in tempo di pace, stravolgendone e annullandone le finalità. Noi abbiamo conferma di queste parole di Kant nella guerra fredda, con minaccia di sterminio, seguita alla pace atomica del 1945.
5 – Il nostro tempo ha visto che la regola costitutiva della guerra è il non avere regole né limiti. Ciò che Kant considerava ancora un eccesso evitabile, oggi è chiaramente, per noi, la natura stessa della guerra. La guerra, pertanto, non può più essere contenuta: deve essere superata perché irrazionale. La ragione non vieta solo un tipo di guerra, ma la guerra in sé. I conflitti devono essere gestiti in modo non distruttivo.

Sezione II – Articoli definitivi per la costituzione civile cosmopolitica.

“Lo stato di pace deve essere istituito, perché la mancanza di ostilità non significa ancora sicurezza”. Se la sicurezza “non è garantita da un vicino ad un altro (il che può solo aver luogo in uno stato legale) questo può trattare come nemico quello a cui tale garanzia abbia richiesto invano”.
Kant dice dunque che la sicurezza viene dall’altro, non dalla mia forza superiore alla sua, non dalla mia minaccia a lui. La mia sicurezza consiste nella tua sicurezza. La sicurezza comune è data dalla legge accettata da tutti, dall’istituzione. Ciò vale anche per la pace tra gli Stati. La costituzione civile (che è l’uscita dallo stato di natura come stato di guerra) deve aggiungere al diritto pubblico (degli uomini che formano uno Stato) e al diritto internazionale (degli Stati in rapporto tra loro), il diritto cosmopolitico, nel quale uomini e Stati si considerano “cittadini di uno Stato universale” (Faucci, 96).
Dei tre articoli definitivi, il primo riguarda il diritto pubblico interno, il secondo il diritto internazionale, il terzo il diritto cosmopolitico. Il primo prescrive la costituzione repubblicana, il terzo disconosce il diritto di conquista: questi articoli sono presupposto, condizione di efficacia, limite del secondo. .”Solo tenendo conto di tutti e tre gli articoli definitivi, di cui il secondo è costitutivo, il primo e il terzo sono integrativi, ci si rende conto della straordinaria forza suggestiva che la teoria kantiana della pace perpetua ha esercitato in tutti i tempi e ancora esercita nel nostro per la complessità dell’articolazione interna che procede di pari passo con la semplicità essenziale dell’intera costruzione” (Bobbio, XVII).

Art. l definitivo – La costituzione di ogni Stato dev’essere rappresentativa.

1 – Veramente Kant chiama “repubblicana” tale tipo di costituzione, non nel senso opposto a “monarchica”, ma opposto sia a “dispotica” sia a “democratica”. Kant chiama repubblica (res-publica) “la forma di governo che, applicando il principio della separazione dei poteri, in modo particolare del potere esecutivo dal potere legislativo, evita il vizio più grave dello stato dispotico in cui la volontà pubblica (espressa dalla legge) è sostituita dalla volontà privata del sovrano” (Bobbio, XIV). Kant intende la costituzione “democratica” in senso simile a quella “dispotica”, perché in essa “tutti deliberano sopra uno ed eventualmente anche contro uno (che non è d’accordo con loro) e quindi tutti deliberano anche se non sono tutti” e “ognuno vuol essere sovrano”. Questa critica del principio di maggioranza numerica è a sua volta criticabile, ma non è rilevante per il discorso sulla pace.

2 – E’ invece rilevante il principio che Kant propone sotto il presente articolo, per cui solo il popolo, e non il sovrano, può decidere la guerra, perché è il popolo che “ne fa le spese”. Quindi, solo la costituzione rappresentativa è pacifica, perché il necessario assenso del popolo trattiene dalla guerra più probabilmente che non il potere autocratico. Infatti, sul popolo “ricadono tutte le calamità della guerra” mentre “il sovrano non è membro dello Stato, ma ne è il proprietario e nulla ha da rimettere, a causa della guerra, dei suoi banchetti, delle sue cacce, delle sue case da diporto, delle sue feste di corte, ecc., e può quindi dichiarare la guerra come una specie di partita di piacere, per cause insignificanti”.

Art. 2 definitivo – “Il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati”.

1 – Gli Stati sono (al tempo di Kant come oggi) nello stato di natura, senza leggi. Ognuno minaccia l’altro. “Perciò ognuno di essi, per la propria sicurezza, può e deve esigere dall’altro di entrare eon lui in una costituzione analoga alla civile, nella quale si può garantire ad ognuno il suo diritto”.

2 – Gli Stati sono oggi come dei selvaggi, che preferiscono “una folle libertà a una libertà ragionevole”. I popoli civili “dovrebbero affrettarsi ad uscire al più presto possibile da uno stato così degradante”.

3 – Ma ogni Stato ripone la sua “maestà” (noi diremmo: sovranità, indipendenza) “nel non sottoporsi a coazione legele esterna di sorta”. Gli Europei sono selvaggi superiori solo in astuzia agli indigeni d’America, perché, mentre questi distruggono i vinti, gli Europei li “sanno sfruttare” per procurarsi “quantità di strumenti per guerre ancora più vaste”

4 – La malvagità umana è velata nella politica interna degli Stati ed è rivelata nella politica estera. Il diritto incatena la malvagità, è a servizio del principio morale, mentre le guerra è malvagità scatenata. Ciononostante, nessuno Stato si dichiara per una politica di guerra, tutti fanno appello al diritto e adducono giustificazioni autorevoli, anche se guerra e diritto sono in contraddizione. Questo fatto è per Kant molto importante, è il fondamento di una speranza razionale riguardo alla storia umana: “Questo omaggio, che ogni Stato rende (almeno a parole) all’idea del diritto, dimostra che si riscontra nell’uomo una disposizione morale più forte, anche se presentemente assopita, destinata a prendere un giorno il sopravvento sopra il principio del male che è in lui (..) e a fargli sperare che ciò avvenga anche negli altri”.

5 – “ln assenza di un tribunale degli Stati, questi tutelano il loro diritto con la guerra. Ma questa “anche se fortunata, cioè vittoriosa, non decide la questione di diritto”. Essa non può decidere di chi è il diritto, non può fare giustizia, può solo conferire il diritto a chi ha la forza, anche se non ha ragione. Perciò, di sua natura, la guerra non può mai essere giusta. Può al massimo essere “fortunata”.
Possiamo sviluppare brevemente queste considerazioni. Anche se uno stato usasse la guerra per difendere un vero diritto, questa guerra non sarebbe giusta, perché in essa può benissimo affermarsi il torto, può vincere la parte avversa che ha aggredito ingiustamente. Il diritto stabilito dalla guerra, ha solo il nome di diritto, e solo per caso può coincidere con un vero diritto. Esso, come dice Kant poco oltre, “non significa nulla”. Non il confronto di forze materiali, ma il confronto di ragioni, può accertare ciò che è giusto. È ciò che viene cercato attraverso le molte garanzie del diritto processuale. Si dirà che il dibattimento processuale può concludersi con una sentenza ingiusta (per errore o malafede). Tuttavia, ciò è possibile solo con una distorsione del funzionamento proprio del libero e corretto processo. Il quale è fatto per produrre giustizia e può produrla. La guerra, invece, per sua natura, è capace solo di provare, attraverso distruzioni e omicidi in massa, qual è la parte più forte, il che non c’entra nulla con la giustizia. La guerra è ancor meno giusta del tirare a sorte (peraltro inammissibile quando si tratta di ristabilire un diritto offeso), dove almeno tutte le parti hanno le stesse probabilità. Solo identificando fatto e diritto, forza e ragione, è possibile attribuire al risultato della guerra valore di sentenza di giustizia. La guerra è meno giustificabile del superstizioso “giudizio di Dio”, nel quale almeno si suppone una volontà libera e giusta che interviene a decidere. Nella guerra, invece, conta, sì, qualcosa il valore e il coraggio, la coscienza del proprio diritto, ma decide tutto la ricchezza di mezzi, la spregiudicatezza, il caso. Tanto varrebbe fare un’asta: chi paga di più compra la vittoria e impone la sua pace. Tante vite sarebbero risparmiate. Non sarebbe però evitato il trionfo del caso e della forza esteriore sulla ragione e sul diritto intrinseco all’uomo. Quel trionfo è, insieme alla distruttività, il nucleo malefico della guerra.

6 – “Il trattato di pace può ben porre fine alla guerra attuale, ma non allo stato di guerra, cioè alla possibilità di trovar pretesti per una nuova guerra”. Dunque, dalla guerra non nasce mai la pace, ma solo altra guerra. La guerra non è solo un fatto, ma un sistema che si mantiene e si perpetua fin quando non lo si interrompe in quanto sistema.

7 – Di questo “stato permanente di guerra” si possono dare due giudizi: a) un giudizio legale: non è ingiusto, perché ogni Stato “è giudice in causa propria” e non ha il dovere giuridico di sottomettersi “ad una costituzione legele più estesa”: In altre parole, da un punto di vista esclusivamente giuridico, tale stato di guerra è regolare, perché è la legge di una condizione senza legge; è la pura legge della forza.
b) un giudizio di ragione: “La ragione, dal suo trono di suprema potenza morale legislatrice, condanna in modo assoluto la guerra come procedimento giuridico, mentre eleva a dovere immediato lo stato di pace, che tuttavia non può essere creato o assicurato senza una convenzione dei popoli”. È dunque la pace permanente il segno dell’entrata degli uomini nell’età della ragione, l’età propriamente umana.

8 – Perciò è necessaria “una lega di natura speciale, che si può chiamare lega della pace, da distinguersi dal patto di pace in ciò: che quest’ultimo si propone di porre termine semplicemente a una guerra, quella invece a tutte le guerre e per sempre”.
È ciò che la comunità internazionale ha tentato prima con la Società delle Nazioni nel 1920, fallita tra le due guerre mondiali, e tenta, dal 1945, con l’Organizzazione delle Nazioni Unite, ormai radicata nella realtà storica. Ma i limiti costitutivi di questa istituzione, pur preziosa, sono proprio quelli che Kant chiaramente indicava nelle parole che seguono immediatamente: “Questa lega non ha per scopo di far acquistare una qualche potenza ad uno Stato”. Invece, l’Onu non riesce ad essere un’effettiva lega della pace perché il suo statuto privilegia le potenze vincitrici dell’ultima guerra mondiale (che hanno diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza), cioè pretende di fondare il diritto di pace sopra il diritto di guerra!

9 – Kant afferma che nella Lega della pace gli Stati non si sottomettono a leggi coattive, non riconoscono “alcun potere legislativo supremo”, cioè non perdono la sovranità, non costituiscono uno Stato di Stati. Costituiscono una “libera federazione”, che è soltanto un “surrogato dell’unione in società civile”. E tuttavia almeno questa “libera federazione” è razionalmente necessaria affinché il diritto internazionale acquisti “un qualche significato”.

10 – Infatti, il diritto internazionale può essere intono in tre modi: 1) diritto alla guerra: “diritto di determinare ciò che è giusto non secondo leggi esterne universalmente valide, che limitano la libertà di ciascuno, ma secondo massime unilaterali, per mezzo della forza”. In questo senso, il diritto internazionale “non significa propriamente nulla”.
2) diritto cosmopolitico, Stato di popoli, con leggi coattive, unica maniera razionale per uscire dallo stato di guerra. “Per gli Stati (..) non vi è altra maniera razionale per uscire dallo stato naturale senza leggi, che è stato di guerra, se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettersi a leggi pubbliche coattive e formare uno Stato di popoli, che si estenda sempre più, fino ad abbracciare da ultimo tutti i popoli della terra”.
3) diritto internazionale federativo, come ripiego, “perché non tutto debba andar perduto”, rispetto al diritto cosmopolitico che gli Stati attuali “non vogliono”. Il brano citato appena sopra (al n.2) prosegue così: “Ma poiché essi [gli Stati], secondo la loro idea del diritto internazionale, non vogliono affatto questo e rigettano in ipotesi ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell’idea positiva di una repubblica universale, perché tutto non debba andar perduto, fanno ricorso al surrogato negativo di una lega permanente e sempre più estesa, che ponga al riparo dalla guerra e arresti il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto, ma col continuo pericolo della sua rottura”. Questo “torrente” sono gli Stati sovrani che impediscono la repubblica universale. Essi devono arginare se stessi.
Dunque, unica proposta razionale è la repubblica universale effettiva, cioè uno Stato rappresentativo mondiale, noi diremmo una democrazia universale di tutti gli esseri umani e di tutti i popoli. Solo perché il meglio è impedito e per evitare il peggio, Kant propone una Lega di Stati che restano sovrani, impegnati tra loro alla pace permanente. Ma è ben consapevole della debolezza teorica e pratica di questa proposta intermedia tra il sistema di guerra e il sistema di pace.

11 – Kant è pure preoccupato del pericolo che il superamento del diritto di guerra dei singoli Stati porti ad una “monarchia universale” dispotica. Egli espone questa preoccupazione sotto questo articolo (subito dopo la distinzione tra lega della pace e patto di pace, v. sopra n.8), ma la esplicita maggiormente nel Primo supplemento (Garanzia della pace perpetua) al n.2 (diritto internazionale), dove arriva a dire che la ragione giudica lo “stato di guerra” pur sempre migliore di una tirannia universale, quale ogni Stato aspira ad imporre, se possibile, sull’intero mondo per stabilire una pace fondata sul proprio dominio, che sarebbe una falsa pace.
Ma proprio il senso complessivo di quel Primo supplemento (come vedremo) è la fiducia nel progresso culturale e morale degli uomini e conferma il primato razionale qui affermato chiaramente da Kant della repubblica universale, rappresentativa e non dispotica, sulla soluzione di ripiego della Lega di Stati. Ugualmente, la subordinazione razionale della “federazione” alla “comunità cosmopolitica” appare chiara nella parte finale dello scritto “Sul detto comune: ‘Ciò può esser giusto in teoria, ma non vale per la prassi’ “. Bobbio (p.XIII) richiama questa parte unicamente per la preoccupazione che Kant vi ripete riguardo al rischio di un dispotismo universale, rischio che Kant ragionevolmente confida possa essere superato.
Dispiace che la lucida introduzione di Bobbio all’edizione curata da Merker lasci nell’ombra e sembri anzi escludere dal pensiero progettuale di Kant “un’unica società civile universale” (p.X e anche IX e XII).
D’altra parte, Bobbio critica questa presunta rinuncia di Kant al progetto maggiore e osserva: “Quale ostacolo può nascere, almeno in linea di principio, a che questo accordo abbracci tutti gli Stati esistenti, e che lo Stato universale sia il prodotto non di una conquista ma di un patto federativo, com’era quello avvenuto fra le tredici colonie degli Stati Uniti d’America, ratificato dai singoli Stati?” (p.XIII).

12 – In una nota al termine di questo art. 2, Kant eleva una nobile, composta, indignata protesta morale e religiosa contro i festeggiamenti per una vittoria in guerra. E’ questo un motivo classico del pensiero pacifico, da Erasmo a Tommaso Moro a Voltaire, che Kant riprende in modo personale e intenso. Egli dice che dovrebbe essere prescritto “un giorno di espiazione per invocare dal Cielo, in nome dello Stato, perdono per il grande oltraggio di cui il genere umano si rende ancor sempre colpevole di non voler sottomettersi a una costituzione legale nei rapporti con gli altri popoli, tanto da preferire, nell’orgoglio della sua indipendenza, di ricorrere al mezzo barbaro della guerra (col quale però non si consegue ciò che si cerca, cioè il diritto di ogni Stato)”. Ritroviamo in queste parole temi già incontrati. Notiamo solo che il “grande oltraggio” non consiste solo nell’aver fatto una guerra, ma nel non voler sottomettersi ad una costituzione legale universale dei popoli.
Dunque la guerra, anche se vinta, non è mai motivo di festa, tanto meno di ringraziamento a Dio, anche se si fosse trattato di una guerra di difesa, perché la guerra non è in grado di conseguire il diritto (vedi già qui sopra, al n.5), e perché festeggiare una vittoria rivela anche “la soddisfazione di aver distrutto la vita e la felicità di tanti uomini”.
Oggi (giugno 1988) si ha notizia che il ministro della Difesa italiano proporrebbe di ristabilire la festa nazionale del 4 novembre, nel 70° anniversario della luttuosa vittoria (600.000 morti soltanto fra gli italiani) nella prima guerra mondiale. La quale guerra poteva e doveva essere evitata perché era possibile ottenere con trattative l’unificazione dei territori (e giustamente solo di questi) abitati da popolazioni italiane.
Contro un progetto tanto stolto, Kant parla ancora oggi, dopo quasi duecento anni, con voce più netta di quella di Benedetto Croce, pur contraria ai festeggiamenti per la vittoria del 1918, proposta fra i temi dell’ esame di maturità di quest’anno, con scelta opportuna. Croce infatti seppe scrivere anche che la guerra è “tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assestamento tellurico” e che le faccende politiche “appartengono a quei Leviatani che si chiamano gli Stati, a quei colossali esseri viventi dalle viscere di bronzo, ai quali noi abbiamo il dovere di servire ed obbedire, ed essi da parte loro hanno buone e profonde ragioni di guardarsi in cagnesco, di addentarsi, di sbranarsi, di divorarsi, visto che solo così si è mossa finora, e così sostanzialmente si muoverà sempre, la storia del mondo”. Croce: la rinuncia al progetto razionale di Kant.

Art.3 definitivo -“Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità”.

1 – Ciò significa che ogni uomo ha diritto di visita in ogni Stato, cui corrisponde un dovere giuridico di ospitalità. Fondamento di quel diritto è il “diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere”. Ciò è tanto più vero oggi che il mondo si è fatto villaggio e la sfericità della terra sta lentamente diventando coscienza dell’unicità e dei limiti del sistema naturale e politico entro il quale vive l’umanità.
Questo principio é affermato negli artt. 13 e 14 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948 (10 dicembre) e sta acquistando ai nostri giorni una urgente attualità. Ma esso sembra posto, anche in quella Dichiarazione, dal ristretto punto di vista degli Stati e non nell’ottica cosmopolitica, come fa Kant, specialmente col fondarlo sul “diritto comune al possesso della superficie della terra”.

2 – “Il diritto alla superficie, spettante in comune all’uman genere” e i mezzi di trasporto avvicinano tra loro le comunità umane separate sulla terra, specialmente coi rapporti commerciali. “In questo modo parti del mondo lontane entrano in pacifici rapporti tra loro , e questi rapporti diventano col tempo formalmente giuridici e avvicinano sempre più il genere umano a una costituzione cosmopolitica”.

3 – Il diritto di visita esclude il diritto di cattura (praticato da Barbareschi e Beduini, dice Kant) ed esclude pure il diritto di conquista, che invece si sono arrogati “gli Stati commerciali del nostro continente”, tanto che “si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che per essi significa conquistarli)”, in America, in Africa, in India. Cina e Giappone, “avendo fatto esperienza di tali ospiti”, hanno “saggiamente provveduto” a prendere misure per limitare i contatti con gli Europei. Le violenze europee sui popoli non dànno veri vantaggi economici, ma solo militari per fare guerre in Europa, “e questo fanno gli Stati che ostentano una grande religiosità: e mentre commettono ingiustizie con la stessa facilità con cui berrebbero un bicchier d’acqua, vogliono passare per esempi rari in fatto di osservanza del diritto”. Queste parole di una delle più alte menti dell’Europa dovranno essere ricordate quando, nei prossimi anni, il nostro continente celebrerà con orgoglio la conquista (detta “scoperta”) dell’America e cercherà nel commercio e nella ricchezza la propria unificazione.

4 – Eppure, “in fatto di associazione dei popoli della terra”, siamo progrediti al punto che “la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti”. Da Kant ad oggi ciò è tanto più vero.
“Cosi l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma il necessario coronamento del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e quindi per l’attuazione della pace perpetua, alla quale solo a questa condizione possiamo sperare di approssimarci continuamente”.
Diritto costituzionale interno degli Stati e diritto internazionale si devono completare nel diritto cosmopolitico, comune a tutta l’umanità e condizione necessaria per la pace permanente.
In questa, che è la conclusione sostanziale del “progetto filosofico” di pace, Kant ribadisce dunque la necessità razionale, perché vi sia pace, della costituzione di un effettivo ordine politico planetario, nel quale l’unità civile dei popoli rispetti e realizzi i diritti propri di ogni popolo.
In questa prospettiva filosofico-giuridica bisogna indicare la Carta di Algeri, proclamata da un consesso internazionale il 4 luglio 1976 (nel bicentenario della Dichiarazione d’indipendenza delle colonie inglesi in America) come carta dei diritti dei popoli, a completamento delle carte dei diritti dell’uomo del 1789, del 1948, e delle costitluzioni democratiche fondate sul rispetto di questi diritti degli individui. Sulla Carta di Algeri uscirà, entro il 1988, un libro di François Rigaux presso le Edizioni Cultura dellaPace.

Primo supplemento. Garanzia della pace perpetua.

In questo supplemento, Kant vuol mostrare come la natura (o destino, o Provvidenza) aiuta la ragione pratica nel suo dovere della pace perpetua.

1 – Risulta anzitutto (da questo come da altri scritti di Kant richiamati in nota da Faucci a p.124) una dialettica della guerra. Essa è un male con alcune funzioni positive: ha spinto gli uomini a dividersi e a popolare tutte le regioni della terra; costringe i governanti a “trattare umanamente i sudditi perché siano fedeli in guerra” (sintesi di Faucci); ha una funzione stimolatrice come “frusta del genere umano” (parole di Kant). Certo, possiamo osservare che queste forzate giustificazioni parziali della guerra somigliano a tante risposte sul problema del male, delle quali si può dire semplicemente che affermano: non si rintraccia il male puro, assoluto, perché sempre in mezzo ad esso persiste qualche elemento positivo, di bene. Con ciò, queste risposte rispondono più sul bene che sul male.
Più utile è l’idea di Kant – come osserva Bobbio – che il mezzo principale del progresso storico umano è “l’antagonismo, ovvero la ‘insocievole socievolezza’ (Kant) che spinge l’uomo sia ad associarsi sia a dissociarsi, e con ciò a rimettere continuamente in questione l’assetto sociale che egli si è dato e a cercare assetti sempre più adatti alla soddisfazione delle proprie inclinazioni” (Bobbio, XVIII). Eppure, tale antagonismo proprio della vita sociale umana non è la guerra. Può essere conflitto sociale, politico, ma diventa guerra solo quando è oondotto con mezzi tesi alla distruzione (fisica, o morale, o giuridica) dell’avversario. Il conflitto gestito con mezzi non distruttivi, come il conflitto politico entro le regole democratiche, è cosa del tutto diversa dalla guerra. Quella “insocievole socievolezza” affermata da Kant come positiva è questo genere di conlitto, non è la guerra. La funzione positiva di quell’antagonismo, dunque, non é una funzione positiva della guerra.
Ma, per Kant, la guerra è soprattutto un male. “Folle libertà”, “stato degradante”, “grande oltraggio”, “mezzo barbaro”, “cattivo gioco”, sono questi alcuni del modi con oui Kant chiama la guerra. Si può vederne qualche effetto positivo, ma essa è “una via suppletiva, traversa, rispetto a quella della ragione” (sintesi di Faucci), é una “organizzazione provvisoria della natura” (Kant).
Il “coraggio guerresco” ha “qualcosa di nobile” ed è stato elogiato “perfino” da certi filosofi “non solo in caso di guerra (come è giusto) ma anche in quanto spinge alla guerra, e spesso a intraprenderla solo per farne mostra”. Ma chi ha esaltato così la guerra ha dimenticato, dice Kant, quel detto greco “La guerra è un male, perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo”.
Il bilancio è dunque negativo: la guerra fa più male che bene. Non è dunque vero, come accade di leggere, che Kant giustifichi la guerra (se non nel senso in cui si dice: non tutto il male vien per nuocere!).
Sintetizza esattamente il Faucci: “La provvidenza della guerra sta nello svegliare l’intelligenza dell’uomo per trovare accorgimenti di difesa e di offesa, ma questo affinamento culmina nella ricerca del modo di abolirla” (introduzione, p.XLI). Oggi che, nell’era atomica, la guerra ha raggiunto il massimo di distruttività, il massimo di possibilità fisica e di impossibilità morale, ed ha cosi esaurito ogni sua razionalità ed ogni senso positivo, posiamo dire che tutto il coraggio e l’intelligenza che l’uomo ha profuso fino ad oggi nell’arte della guerra devono essere impiegati, con impegno se possibile ancora maggiore, nel dovere storico di superare per sempre l’istituzione-guerra. Quello che è stato il senso dell’arte della guerra prosegue oggi, per le sue stesse esigenze intrinseche, nella scienza e sapienza della pace, intesa come abolizione della guerra.
Se ieri la guerra, nonostante tutto, difendeva e promuoveva qualcosa di umano – ma già esigeva dalle coscienze più vigili, come quella di Kant, di essere superata ed abolita – oggi la difesa dell’umanità e di tutti i suoi valori non può essere altro che difesa dalla guerra e da chi é rimasto dentro la cultura di guerra (come i tolemaici dopo la rivoluzione copernicana, ma tanto più pericolosamente di loro).
La guerra, infatti, non difende più nulla, ma tutto perde. Neppure la guerra difensiva è oggi ancora giustificabile, per il semplice fatto che non è più difensiva. La guerra oggi possibile (ogni guerra parziale, ansi ogni guerra fredda, può diventare in poohi istanti, anche solo per errore teonico, guerra di sterminio totale) non permette più di distinguere mezzi di difesa da mezzi di offesa, aggredito da aggressore, vincitore da vinto. “L’unica mossa vincente è non giocare” (dal film Wargames).
La difesa del diritto offeso, che ieri poteva con qualche senso essere affidata alla guerra, deve oggi essere affidata unicamente alla ragione, alla parola, alla coscienza, alle istituzioni cosmopolitiche, alla difesa sansa guerra (detta in Italia difesa popolare nonviolenta, sulla quale sta sviluppandosi una cultura storica e strategica), agli interessi unitari del genere umano, virente sull’unica terra.
Tutto ciò non è solo un giusto progresso morale, è anche una necessità vitale. Non é l’utopia di un sognatore, è realistica necessitià. Non vale dire: le difese alternative sono deboli. La guerra difende meno di tutto, perché é il massimo male, il maggior pericolo, il peggior nemico.
Se le altre vie sono piccoli sentieri, facciamo delle strade praticabili. Quando una strada si chiude non resta che tracciarne altre. La guerra è una strada chiusa e l’uomo è un inventore di strade, da sempre. Il momento attuale è una grande opportunità per l’evoluzione umana. La prospettiva del dopo-guerra come era storica senza ritorno sta forse facendosi un po’ di spazio anche nell’azione dei governanti più responsabili. Ma è ancora troppo forte la resistenza della vecchia disastrosa illusione che le armi (la guerra minacciata, se non combattuta; ma che ninaccia è mai quella di chi punta un’arma senza essere determinato ad usarla?) difendano la pace e il diritto.

2 – Kant esamina poi come la natura aiuti ad attuare il dovere che la ragione impone a) entro lo stato; b) tra i diversi stati c) nell’unità dei popoli.
La natura presta la sua garanzia “per assicurare che ciò che l’uomo dovrebbe fare secondo la legge della libertà, e che non fa, egli lo farà costretto dalla natura, senza che per altro sia compromessa questa libertà morale”.

a) Diritto pubblico interno. O le discordie interne o la guerra esterna costringono un popolo a sottoporsi alle leggi, per resistere come potenza. Ora, la costituzione rappresentativa è la sola “che si si adatti perfettamente al diritto degli uomini”, ma è pure “la più difficile (..) tanto che molti affermano che dovrebbe essere uno stato di angeli”, visto che gli uomini hanno tendenze egoiste. Però la natura aiuta la volontà razionale, perché costringe gli uomini egoisti a “comporre assieme le forze umane, in modo che l’una arresti l’altra nei suoi effetti disastrosi”, se non vogliono essere distrutti come società. Quindi, “il problema della costituzione di uno Stato é risolvibile, per quanto l’espressione possa sembrare dura, anche da un popolo di diavoli, purché siano dotati di intelligenza”.
È ciò che noi oggi possiamo dire del passaggio dall’età della guerra all’età della pace: non occorre attendere di arrivare ad un livello di moralità superiore, basta una normale intelligenza della realtà attuale delle cose e la volontà di vivere. Se anche l’avversario forse un “popolo di diavoli” (come spesso lo vede l’ideologia di guerra) sarebbero pur sempre diavoli intelligenti, coi quali la pace è possibile perché da tutti preferibile alla distruzione.
A meno che l’ essere “diavolo” non sia proprio il non voler vivere, il preferire la distruzione altrui e propria, pur avendo intelligenza. Ma la natura umana può essere così diabolica? No certo, sembra dire Kant. Noi, dopo il nazismo e il terrore atomico, abbiano qualche trenore di più nel rispondere. Siamo tentati dalla risposta affermativa. Eppure, anche a noi è possibile pensare che l’uomo non sia senza risorse contro la propria distruttività (cfr Erich Fremm, Anatomia della distruttività umana . Mondadori, Milano 1979). La domanda è di quelle a cui si risponde in pratica, e non solo in teoria.
La cultura della pace non è un moralismo, ma una ricerca razionale por la sopravvivenza dell’umanità. Certo, essa richiede un grande impegno morale ed è, in definitiva, amore per il mondo e per gli uomini. Ma, ci dice Kant col suo paradosso dei diavoli, questo impegno nasce da quell’intelligenza della situazione, che è possibile a tutti.
Proprio il pericolo massimo può dare la massima opportunità di mutamento pacifico delle relazioni umane politiche. Cosi la natura, o la Provvidenza, possono volgere il male in bene e la guerra può essere davvero (nei mali che ha inflitto fino ad oggi e nella catastrofe che minaccia) una benefica “frusta dell’umanità”.

b) Diritto internazionale. Questo è diritto di guerra (v. sopra n.10 sotto l’art. 2 definitivo), ma pur sempre preferibile ad una tirannia universale (v. sopra n.11 sotto lo stesso articolo). Gli Stati potenti vorrebbero imporre il loro dominio, ma la natura lo impedisce per mezzo delle diversità dei popoli. Tale diversità produce, sì, odio e guerre, ma, col progresso morale, porta anche ad una pace fatta non di livellamento sotto il dipotismo ma di conflitti vitali.
Qui ci si può valere, leggendo Kant, della diatinzione, già accennata, tra guerra e conflitto, acquisita dalla attuale cultura della pace. È guerra (in senso esteso, sia pubblica che privata) la gestione violenta, distruttiva, dei conflitti, che mira ad eliminare (o fisicamente o moralmente) l’avversario. Il conflitto fa parte della vita ed è necessario al suo svolgersi e svilupparsi, perciò non deve essere rimosso o represso, né sedato superficialmente in una pace apparente. Il conflitto può essere gestito in modo distruttivo, ed è la guerra, oppure in modo costruttivo, ed è il conflitto nonviolento, occasione di maggiore verità per tutti i contendenti (vedi, p.es. lo regole del comportamento conflittuale tratto dalle esperienze gandhiane in Johan Galtung, Gandhi oggi, Ed: Gruppo Abele, Torino 1987, pagg.120-121 e contesto). La soluzione del conflitto nonviolento non é mai la vittoria dell’uno sull’altro, ma di entrambi su una situazione meno valida. Non è un vincere ma un con-vincer-si.

c) Diritto cosmopolitico. La natura aiuta a fare la pace anohe mediante “l’attrattiva del reciproco tornaconto”, mediante “lo spirito commerciale che non può accordarsi con le guerra”, e mediante la stessa “forza del denaro”.

3 – La conclusione del Primo supplemento ha un’importanza che va al di là di questa sezione dell’opera. Kant dice che anche le tendenze egoistiche dell’uomo richiedono la pace. Ciò non permette di prevedere con conoscenza certa la pace permanente, ma fonda la possibilità di questa e dunque impone il dovere morale di impegnarsi a realizzarla, dal momento che non è impossibile. “In questo modo la natura, col meccanismo stesso delle tendenze umane, garantisce la pace perpetua, con una sicurezza che certo non è sufficiente a farne presagire (teoricamente) l’avvento, ma che però basta al fine pratico di farci un dovere di adoperarci a questo scopo (che non è sempliemente chimerico)”.

Seecondo supplemento. Articolo segreto per la pace perpetua.

1- Qui Kant si diverte, fa dell’ironia sul machiavellismo e la falsa dignità dei politici. Secondo l’uso diplomatico, è bene che ci sia anche nell’istituzione della pace questo “unico”artcolo segreto:
“Le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica devono essere prese in considerazione dagli Stati armati per la guerra”.
L’articolo deve restare segreto perché le autorità statali non perdano il loro prestigio nel chiedere insegnamenti ai sudditi pensanti. È sufficiente che lo Stato li lasci “parlare liberamente e pubblicamente” sulla guerra e la pace. Queste parole richiamano tutto lo scritto breve di Kant Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (1784), nel quale, tra i nemici dell’illuminismo, compare anche “l’ufficiale (che) dice: Non ragionate, ma fate esercitazioni militari”.

2 – Il magistrato, quando non è anche filosofo, e quindi applica le leggi vigenti senza cercare se abbiano bisogno di essere migliorate, considera la propria funzione superiore a quella dei filosofi “solo perché si accompagna col potere”. Ma la filosofia è “ancella” della teologia, come della giurisprudonza e della medicina, non nel senso che “ne regge lo strascico”, ma perché “porta la finccola avanti alle sue graziose
signore” (qui Kant richiama il suo saggio Sul conflitto delle facoltà, 1797, di cui a p. X1X dell’introduzione di Faucci).
Kant non attende, come Platone, che i governanti filosofeggino né che i filosofi governino. Questa eventualità non è neppure da desiderare perché “il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione”. Difficilmente potrebbe essere espressa più seccamente l’ambiguità della politica intesa come gestione del potere, e la sua pericolosità per quanto l’uomo ha di più presioso. Un annlogo giudizio sulla politica, ma insistente sulla sua “troppa” grandezza, Kant ha
dato in una nota verso il termine del 1° articolo definitivo: la definisce “un ufficio troppo superiore alle forze umane, cioè quello di amministrare il tesoro più prezioso che Dio ha in terra, vale a dire il diritto degli uomini”; sicché il sovrano “deve senpre temere di avere in qualche parte offeso questo tesoro che è la pupilla di Dio”.

3 – Sul rapporto tra politica e cultura, Kant afferma soltanto che è “indispensabile” che i governanti non riducano al silenzio i filosofi, ma ascoltino i loro pareri. Tanto più che questa categoria “per sua natura è immune da spirito fazioso ed è incapace di cospirare”. Con ciò Kant vuole tranquillizzare i sovrani assoluti del suo tempo. Ha proprio ragione in questo giudizio, o pecca di ottimismo? Noi vediamo oggi tanta gente di cultura piegarsi al vento dell’opportunismo e usare la cultura stessa come strumento di carriera e di potere. E non è una novità. In realtà, i
“filosofi” di cui parla Kant sono solo quelli che, come egli ha fatto, indicano strade ragionevoli e doverose per la vita dell’umanità e non per qualche loro utile particolare.

di Enrico Peyretti, 1988

Be the first to comment “Kant Per la pace perpetua”