Pubblichiamo l’VIII e ultimo capitolo “La democrazia cosmopolitica. I crimini di sistema. Per una Costituzione della Terra” del volume di Luigi Ferrajoli, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Bari, 2021.
Luigi Ferrajoli, La democrazia globale. Per una Costituzione della Terra∗
1. Il paradigma costituzionale prefigurato dalla Carta dell’Onu e il suo paradossale declino nell’età della globalizzazione – Nell’odierno mondo globalizzato il futuro di ciascun paese dipende sempre meno dalla politica interna e sempre più da decisioni esterne, sia di carattere politico che di carattere economico. Le quattro dimensioni della democrazia costituzionale corrispondenti alle quattro classi di diritti fondamentali che ho più volte distinto1 – i diritti politici, i diritti civili, i diritti di libertà e i diritti sociali – sono perciò in crisi e rischiano di essere interamente travolte dalla dislocazione dei poteri che contano, sia politici che economici, fuori dei confini nazionali e dal loro sviluppo come poteri selvaggi in grado di attentare a tutti i diritti e a tutti i beni fondamentali. E’ d’altro canto inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro a catastrofi umanitarie, nucleari, economiche ed ecologiche. Di qui la necessità di uno sviluppo multi-livello, oltre che multi-dimensionale della democrazia costituzionale in grado di limitare i poteri globali oggi sregolati: la necessità della costruzione di un costituzionalismo sovranazionale in grado di colmare il vuoto di di-ritto pubblico prodotto dall’asimmetria tra il carattere globale degli odierni poteri extra-statali e il carattere ancora prevalentemente locale del costituzionalismo, della politica, del diritto e delle connesse funzioni di governo e di garanzia.
Non si tratta di un’ipotesi utopistica o avveniristica. Si tratta del dover essere giuridico della politica e del diritto medesimo, già formulato in quell’embrione di costituzione del mondo che è formato dalla Carta dell’Onu e dalle tante carte, dichiarazioni, convenzioni e patti internazionali sui diritti umani. A causa della miopia e dell’irresponsabilità della politica questa embrionale costituzione del mondo è rimasta finora inattuata. Ma la sua attuazione è resa possibile dal carattere formale del paradigma costituzionale, necessaria ed urgente dalla gravità delle sfide globali e giuridicamente obbligatoria dalla normatività dei principi di pace e di giustizia positivamente stabiliti e dai nessi di implicazione tra quelle aspettative nelle quali consistono i diritti fondamentali proclamati nelle tante carte internazionali e l’obbligo di introdurre le loro garanzie. All’indomani della seconda guerra mondiale, infatti, non furono solo rifondati, nei paesi liberati dai fascismi, i sistemi politici nazionali nelle forme della democrazia costituzionale. Fu anche rifondato il diritto internazionale, trasformato, dalla Carta dell’Onu e dalle tante carte sui diritti umani, da sistema pattizio di relazioni tra Stati sovrani, basato su trattati bi- o multi-laterali, in un ordinamento giuridico, grazie al fatto che tutti gli Stati membri sono in esso
∗ Questo testo è il capitolo ottavo del mio libro, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari 2021. 1 In Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 2007 e, da ultimo, in La costruzione cit.
soggetti a un medesimo diritto, cioè al divieto della guerra – vera norma costitutiva del diritto internazionale come ordinamento – e, inoltre, al rispetto dei diritti umani2. Di questo ordinamento si sta oggi verificando un processo decostituente, tanto vistoso quanto paradossale perché simultaneo alla globalizzazione, che più che mai ne richiederebbe la costituzionalizzazione. Quelle carte avrebbero richiesto – e tuttora impongono – norme di attuazione, dirette a introdurre le funzioni e le istituzioni di garanzia dei principi e dei diritti in esse stabiliti: garanzie della pace, tramite l’attuazione del capo VII della Carta dell’Onu e perciò l’istituzione del monopolio sovranazionale della forza, lo scioglimento degli eserciti nazionali e la messa al bando delle armi; garanzie dei diritti sociali, tramite adeguati finanziamenti di istituzioni globali di garanzia come l’Organizzazione mondiale della sanità e la Fao; garanzie dei beni comuni dell’ambiente naturali contro le loro terribili e crescenti devastazioni, tramite la creazione di demani sovranazionali e di rigidi limiti alle emissioni di gas inquinanti; garanzie giurisdizionali secondarie, a cominciare dal controllo di costituzionalità e di convenzionalità, contro le violazioni delle garanzie primarie da parte degli Stati. Fatta eccezione per la Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità, il cui statuto fu approvato a Roma il 17.7.1998 ma al quale non hanno aderito le maggiori potenze, poco o nulla è stato fatto. Si è anzi appannata la memoria dei “mai più” opposti nel quinquennio 1945-1949 agli orrori dei totalitarismi e delle guerre ed è tramontato il progetto, allora formulato, di una rifondazione costituzionale dell’ordine internazionale, proprio oggi che l’anomia dei poteri globali e la crescente interdipendenza mondiale hanno reso quel progetto più che mai necessario e vitale.
Il risultato di questo processo decostituente è stato una tendenziale regressione allo stato di natura. Questo, del resto – lo stato naturale di guerra virtuale e permanente – fu il modello pre-Onu della società degli Stati sovrani quale fu descritta dalla filosofia politica, da Hobbes e Locke a Kant e a Hegel3. Con tre drammatiche
2 Ho prospettato la possibile costituzionalizzazione del diritto internazionale, in La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Laterza, Roma-Bari 1997, cap. III, pp. 39-59; in Principia iuris, vol. I, cap. XVI, pp. 481-653; in La democrazia attraverso i diritti. Il costituzionalismo garantista come modello teorico e come progetto politico, Laterza, Roma-Bari 2013, cap. V, pp. 181-255; in Per una Costituzione della Terra? in “Teoria politica”, 2020 e, da ultimo, in La costruzione cit.
3 T. Hobbes, Leviatano con testo inglese, Leviathan del 1651 a fronte e testo latino del 1668, a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, cap. XIII, § 12, pp. 209-211: “Ma, anche se non c’è mai stato un tempo in cui i singoli uomini erano in una condizione di guerra l’uno contro l’altro, tuttavia in ogni tempo i re e le persone con l’autorità sovrana si trovano, a causa della loro indipendenza, in uno stato di gelosia continua e nella condizione e posizione dei gladiatori, che stanno con le armi puntate e gli occhi fissati l’uno sull’altro, cioè con le fortificazioni, le guarnigioni e i cannoni dislocati sulle frontiere dei loro regni e con spie che sorvegliano di continuo i territori confinanti, e questa è una posizione di guerra”. Analogamente Locke: “Poiché tutti i principi e i magistrati di governi indipendenti per tutto il mondo sono in uno stato di natura, è chiaro che il mondo non fu mai né mai sarà privo di un certo numero di uomini in quello stato” (Due trattati sul governo. Secondo trattato (1690), tr. it. di L. Pareyson, Utet, Torino 1968, cap. II, § 14, p.248). La stessa tesi è ripresa da I. Kant, Per la pace perpetua (1795), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tr. it. di G. Solari e G. Vidari, Utet, Torino 1965, p. 301: “Per gli Stati che stanno tra loro
differenze rispetto alla società naturale dell’homo homini lupus: la prima è che l’odierna società selvaggia è una società artificiale, composta non più da lupi naturali ma da lupi artificiali – gli Stati e i mercati – sostanzialmente sottratti al controllo dei loro creatori e dotati di una forza distruttiva incomparabilmente maggiore di qualunque armamento del passato; la seconda è il carattere globale di questi effetti distruttivi, che colpiscono tutta l’umanità, e i nessi tra devastazioni della natura e crescita delle disuguaglianze, tra ingiustizia climatica e ingiustizia sociale, fra questione ambientale e questione sociale, fra giustizia entro le generazioni e giustizia fra le generazioni4; la terza è che, a differenza di tutte le altre catastrofi finora sperimentate – le guerre mondiali e gli orrori dei totalitarismi – la catastrofe ecologica e quella nucleare sono irreversibili, e forse non faremo a tempo a formulare nuovi “mai più”. C’è infatti il pericolo che si acquisti consapevolezza della necessità di un nuovo patto e di un cambiamento di rotta quando sarà troppo tardi.
I principali fattori di queste catastrofi sono per un verso la globalizzazione dei mercati in assenza di una sfera pubblica globale e, per altro verso, il riemergere dei nazionalismi – quelli che, nella loro versione populista, sono oggi chiamati “sovranismi” – rivelatisi, al di là della loro apparente opposizione, i più sicuri alleati dell’attuale ordine liberista. Sono proprio gli odierni populismi, infatti, che si oppongono, con la loro illusoria difesa delle ormai perdute sovranità nazionali, all’attuazione di quel progetto di costituzionalizzazione dell’ordine mondiale che fu prefigurato dalla Carta dell’Onu e dalle varie carte sui diritti umani e che, ovviamente, è contrario agli interessi dei grandi poteri economici e finanziari. I risultati sono l’asimmetria tra il carattere globale dell’economia e della finanza e il carattere ancora statale della politica e del diritto e perciò il ribaltamento del loro rapporto: non sono più i governi e i parlamenti che dettano regole all’economia, ma viceversa. Si capisce, infatti, come l’assenza di una sfera pubblica in grado di imporre ai mercati limiti, vincoli e controlli alla loro altezza ha determinato la sovranità tendenzialmente assoluta e invisibile dei poteri economici e finanziari, lasciati liberi
in rapporto reciproco non vi è altra maniera razionale per uscire dallo stato di natura senza leggi, che è stato di guerra, se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettersi a leggi pubbliche coattive e formare uno Stato di popoli (civitas gentium) che si estenda sempre più, fino ad abbracciare da ultimo tutti i popoli della terra”. Si ricordi infine l’analoga caratterizzazione come “stato di natura” delle relazioni tra Stati sovrani formulata da Hegel: “poiché il rapporto tra essi (Stati) ha per principio la loro sovranità, essi sono nello stato di natura gli uni di fronte agli altri… Quindi, il conflitto fra gli Stati, in quanto le volontà particolari non trovano un accomodamento, può essere deciso soltanto con la guerra” (Lineamenti di filosofia del diritto [1821], tr.it. di F. Messineo, Laterza, Bari 1954, §§ 333 e 334, pp. 280-281). 4 E’ questo nesso che caratterizza l’approccio alle questioni ecologiche e sociali dell’enciclica del 24.5.2015 di Papa Francesco, Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni Dehoniane, Bologna 2015, § 48, p. 36: “L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale. Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta”. Lo stesso approccio è proposto dal volume collettivo che, anche nel titolo, prende le mosse da tale enciclica, Niente di questo mondo ci risulta indifferente. Associazione Laudato si’. Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale, a cura di Daniela Padoan, Edizioni Interno4, Milano 2020.
di violare i diritti e i beni fondamentali delle persone. Quell’assenza, in breve, ha determinato un capovolgimento della gerarchia democratica dei poteri: non più il governo dell’economia da parte della politica, ma il governo della politica da parte dell’economia.
A dispetto dell’uguaglianza nei diritti proclamata in tante carte costituzionali e internazionali, le disuguaglianze nelle concrete condizioni di vita hanno così raggiunto in questi anni dimensioni che non hanno precedenti nella storia. I dati statistici sono spaventosi. I poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Si pensi solo al dato più impressionante, riportato dal rapporto Oxfam del 2017: le otto persone più ricche del pianeta hanno una ricchezza pari a quella della metà più povera della popolazione mondiale cioè di 3 miliardi e mezzo di persone. Ciò che è più allarmante è il fatto che il numero di questi multimiliardari si è enormemente ridotto in pochi anni: erano 62 nel 2016, 85 nel 2014, 388 nel 20105. Grazie alla crisi economica di cui hanno ampiamente beneficiato, la ricchezza di questi super-ricchi è aumentata nell’ultimo decennio del 44%, mentre quella della metà più povera del mondo è diminuita del 41%6. La mobilità sociale non si è bloccata, ma ha cambiato direzione: non è più dal basso verso l’alto, ma dal basso verso condizioni di reddito e di vita ancora più basse. E’ pur vero che in numeri assoluti la povertà globale è diminuita, anche grazie alla crescita economica della Cina. Ma sono enormemente cresciute la disuguaglianza all’interno dei singoli paesi e, soprattutto, la visibilità sia della povertà che della disuguaglianza. La comunicazione e l’informazione televisiva e digitale, ormai accessibili a tutti, mettono in scena quotidianamente il benessere e lo spreco dei paesi ricchi, rendendo la miseria, la fame e la disperazione delle persone povere e poverissime più che mai indecorose, esplosive e intollerabili.
Né sono diminuite le disparità politiche ed economiche tra i popoli. Al vecchio colonialismo, consistente nell’assoggettamento materiale e militare dei popoli più
35 D. De Masi, Il lavoro nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2018, p. 679.
36 Negli Stati Uniti, ha scritto Joseph E. Stiglitz, l’1% degli americani possiede il 41,8% della ricchezza del paese (nel 1978 ne deteneva il 25%) e lo 0,1% ne controlla il 22% (Invertire la rotta. Disuguaglianza e crescita economica [2016], tr. it. di F. Galimberti, Roma-Bari 2017, pp. 13-14). In Europa il 10% della popolazione possiede il 56% delle ricchezze nazionali e l’1% ne possiede il 23% (Oecd, Divided We Stand:Why Inequality Keeps Rising, Oecd Publishing, Paris 2011, p. 22). Sulle disuguaglianze globali si vedano T. Pogge, Povertà mondiale e diritti umani. Responsabilità e riforme cosmopolite (2008), tr. it. di D. Botti, Laterza, Roma-Bari 2010; B. Milanović, Chi ha e chi non ha. Storie di disuguaglianze (2011), tr. it. di M. Alacevich, Il Mulino, Bologna 2012; Id., Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media (2016), tr. it. di G. Tonoli, Luiss University Press, Roma 2017; A. Deaton, La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza (2013), tr. it. di P. Palminiello, Il Mulino, Bologna 2015; Th. Piketty, Disuguaglianze (1997, 7ª ed. 2014), tr. it. di R. Salvadori, Università Bocconi Editore, Milano 2018; A.B. Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare (2015), tr. it. di V.B. Sala, Raffaele Cortina, Milano 2015; M. Franzini, M. Pianta, Disuguaglianze. Quante sono e come combatterle, Laterza, Roma-Bari 2016. Si vedano inoltre, sul sito https://www.forumdiisuguaglianzediversita.org/proposte-per-la-giustizia-sociale/, le 15 proposte per la giustizia sociale elaborate dal Forum Disuguaglianze e Diversità promosso da Fabrizio Barca e presentate a Roma il 25.3.2019.
deboli, si è oggi sostituito un neo-colonialismo di tipo economico e finanziario, il saccheggio dei beni comuni e delle risorse del pianeta da parte dei paesi più ricchi e la subordinazione di tutti i popoli alla nuova sovranità, impersonale e privata, dei cosiddetti mercati. Ai vecchi colpi di stato militari si sono sostituite le disgregazioni delle soggettività collettive, la passivizzazione e la manipolazione del consenso degli elettori, mobilitati contro i diversi e i più deboli quali sono tipicamente i migranti, e la trasformazione delle democrazie rappresentative in quelle che Bovero, come ho già ricordato, ha chiamato “autocrazie elettive”. Al tempo stesso, alla fine della guerra fredda tra blocchi contrapposti ha fatto seguito, in questi ultimi trenta anni, il ritorno della guerra calda quale strumento di soluzione dei problemi internazionali. Allo sfruttamento del lavoro proprio del vecchio capitalismo, si sono aggiunte le aggressioni all’ambiente e le catastrofi ecologiche di cui sono vittime soprattutto le popolazioni più povere. La divaricazione deontica tra il “dover essere” disegnato dalle tante carte dei diritti e l’“essere” effettivo del diritto internazionale si è così enormemente allargata. Questa divaricazione tra normatività ed effettività, che è determinata da una vistosa lacuna di garanzie, è il riflesso della divaricazione tra problemi globali e politiche locali, tra la crescente interdipendenza planetaria e il carattere ancora prevalentemente statale del diritto e delle istituzioni pubbliche, sia di governo che di garanzia. Oggi i problemi politici e sociali più gravi sono sicuramente globali: l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento climatico; la dissipazione delle risorse energetiche disponibili; la produzione e la diffusione di armi che alimentano guerre e criminalità, oltre che di armamenti nucleari sempre più micidiali, in grado di distruggere più volte l’umanità; la crescita esponenziale delle disuguaglianze in un mondo sempre più integrato che vede convivere enormi ricchezze e terribili povertà e il conseguente sviluppo di violenze, terrorismi e fondamentalismi; la mancanza, per centinaia di milioni di esseri umani, dell’alimentazione di base, dei farmaci salva-vita e dell’acqua potabile; lo sfruttamento illimitato del lavoro per la concorrenza al ribasso tra lavoratori dei paesi ricchi e lavoratori in condizioni para-schiavistiche nei paesi poveri; le diverse forme – le mafie, il narcotraffico, i terrorismi – di una criminalità organizzata, anch’essa sempre più globalizzata; infine il dilagare a livello planetario delle pandemie, come quella ancora in atto del coronavirus. Ma questi problemi, dalla cui soluzione dipende il futuro dell’umanità, sono ignorati dagli Stati nazionali: per il loro carattere appunto globale, che ne richiederebbe una gestione globale e non locale, e per l’indisponibilità ad occuparsene della politica, ancorata al consenso popolare entro gli spazi ristretti delle circoscrizioni elettorali e nei tempi brevi delle elezioni o peggio brevissimi dei sondaggi. La democrazia odierna è affetta da localismo e da presentismo. Entra così in conflitto con la razionalità e con gli interessi di lungo periodo degli stessi paesi democratici, la cui difesa o la cui lesione dipendono sempre meno da decisioni statali interne e sempre più da decisioni esterne, sia di carattere politico che di carattere economico.
2. La necessità e l’urgenza di un costituzionalismo oltre lo Stato. Istituzioni e funzioni statali di governo e istituzioni e funzioni globali di garanzia. Un risveglio della ragione politica sollecitato dalla pandemia – E’ questa banale, elementare consapevolezza che oggi impone, realisticamente, la costruzione di una sfera pubblica e di un costituzionalismo rigido di livello sovranazionale, all’altezza delle sfide odierne della globalizzazione. Fino ad oggi il paradigma costituzionale si è realizzato, sia pure pur con molti limiti e lacune, soltanto negli Stati nazionali. Domandiamoci qundi: la crisi degli Stati determinata dalla dislocazione dei poteri che contano fuori dai confini nazionali è destinata a travolgere anche le nostre democrazie, oppure è possibile un’espansione del garantismo costituzionale al di là dello Stato?
La risposta a questa cruciale domanda dipende dalla concezione che abbiamo della costituzione, del popolo e della democrazia. E’ chiaro che l’idea organicistica e identitaria del popolo formulata da Carl Schmitt negli anni Trenta del secolo scorso come il necessario presupposto della costituzione esclude che sia possibile o comunque auspicabile una costituzione al di sopra degli Stati nazionali, per esempio europea o addirittura globale. In base ad essa la costituzione è l’espressione dell’“identità” e dell’“unità del popolo come totalità politica” e si fonda sul principio di omogeneità o di identità. E’ l’idea che è alla base dello scetticismo, in ordine a una possibile democrazia costituzionale di livello sovrastatale, condiviso da tutti gli odierni populismi ed espresso, sul piano teorico, dalla critica della cosiddetta fallacia della domestic analogy nella quale cadrebbero quanti la ipotizzano in assenza di taluni presupposti delle democrazie nazionali, come un demos sovra-nazionale, una società civile europea e ancor meno planetaria e partiti politici internazionali7.
Diametralmente opposta è la tesi che consegue alla concezione pluralista del popolo e a quella pattizia della costituzione e della democrazia, cioè all’idea del popolo come pluralità di persone accomunate, grazie al patto costituzionale, dall’uguaglianza nei diritti di libertà quali diritti alla tutela di tutte le differenti identità personali e nei diritti sociali quali diritti alla riduzione delle disuguaglianze economiche e materiali. Una costituzione, secondo questa concezione, è tanto più legittima, necessaria ed urgente quanto maggiori sono le differenze che essa ha il compito di garantire e le disuguaglianze che ha il compito di ridurre. E’ di qui che proviene il valore civile e democratico di un costituzionalismo globale. L’omogeneità culturale, infatti, non è affatto un valore. Sono valori, al contrario, l’eterogeneità,
7 Questa idea di un nesso assiologico tra Costituzione, Stato nazionale e popolo, che renderebbe impossibili o comunque prive di legittimazione, per mancanza di un demos europeo, una costituzione e una democrazia costituzionale europee, è riapparsa nel dibattito di qualche anno fa su una possibile costituzione dell’Europa. Mi limito a ricordare D. Grimm, Una Costituzione per l’Europa? (1994), trad. it. di F. Fiore, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro e J. Luther, Il futuro della Costituzione, Einaudi, Torino 1996, pp. 339-367, in particolare pp. 353-356. Contro questo ancoraggio della legittimità, della costituzione e della democrazia alla “gabbia (apparentemente salda) degli Stati nazionali” e all’esistenza di “un popolo europeo”, è intervenuto J. Habermas, Una Costituzione per l’Europa? Osservazioni su Dieter Grimm (1995), tr. it. di L. Ceppa, ivi, pp. 370-375.
l’eresia, il confronto, il dibattito e il conflitto delle idee, su cui si basano il pluralismo politico e la democrazia, lo spirito critico e il progresso scientifico e culturale. E’ d’altro canto sull’uguaglianza delle differenze personali e sulla riduzione delle disuguaglianze materiali garantite dall’universalismo dei diritti di libertà e dei diritti sociali che risiedono la sola unità popolare e la sola identità collettiva che meritano, in democrazia, di essere perseguite e valorizzate. Ed è questo tipo di unità che vale a fondare i legami sociali, il tessuto civile, le solidarietà collettive e il senso civico di appartenenza a una medesima comunità che formano il sostrato politico e culturale della democrazia, in assenza del quale la società è tenuta insieme soltanto dalla costrizione, dalla disciplina e dalla repressione.
Grazie al suo carattere formale, d’altro canto, il paradigma teorico del costituzionalismo democratico è applicabile, quale sistema di limiti e vincoli, a qualunque sistema di potere, pubblico o privato, nazionale o sovranazionale. Per questo, se prendiamo sul serio la Carta dell’Onu, la Dichiarazione dei diritti umani del 1948 e i Patti sui diritti civili e politici, economici, sociali e culturali del 1966, possiamo considerare questo insieme di carte come una costituzione embrionale del mondo, per di più fondata sul consenso prestato, da tutti i contraenti del patto, ai suoi trattati istitutivi. Ancor più delle costituzioni statali, approvate a maggioranza da assemblee costituenti, questi patti sono stati infatti approvati all’unanimità8. Hanno perciò, anche giuridicamente, la forma del contratto sociale in forma scritta: un contratto, si badi, che non è più solo un’ipotesi filosofica, ma è un fatto storico e una convenzione di diritto positivo, approvata da tutti coloro che l’hanno stipulata e sottoscritta. Ciò che manca – e che fa di questo insieme di trattati una costituzione del mondo soltanto embrionale – sono le garanzie e le relative funzioni e istituzioni, la cui costruzione è affidata alla politica e la cui assenza è responsabile della drammatica distanza tra il dover essere giuridico e l’essere effettivo del diritto internazionale. Si tratta di una mancanza illegittima, cioè di un’indebita lacuna strutturale, dato che anche i diritti fondamentali stabiliti in quei trattati sono aspettative negative o positive che implicano e impongono l’obbligo di introdurne, tramite idonee norme di attuazione, le garanzie e le relative funzioni e istituzioni di garanzia. Se infatti non vogliamo ridurre i diritti fondamentali stabiliti in tante carte internazionali a una vuota retorica, dobbiamo riconoscerne la normatività giuridica, e perciò leggere come dovuta la costruzione di una sfera pubblica sovrastatale, cioè delle garanzie correlative a tali diritti e all’altezza dei poteri politici ed economici sovra-nazionali.
8 “Si può dire infatti”, ha scritto Norberto Bobbio, “che oggi il problema del fondamento dei diritti dell’uomo ha avuto la sua soluzione nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo rappresenta la manifestazione dell’unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e questa prova è il consenso generale intorno alla sua validità. I giusnaturalisti avrebbero parlato di ‘consensus omnium gentium’ o ‘hu-mani generis’” (Presente e avvenire dei diritti dell’uomo [1968], in Id., L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. 18-19).
C’è in proposito un equivoco che occorre superare. Quando si parla di governance internazionale si pensa di solito alle istituzioni di governo, investite di funzioni politiche di scelta e di innovazione e perciò tanto più legittime quanto più rappresentative e quindi vicine ai corpi elettorali. Ma non sono queste le istituzioni necessarie alla garanzia internazionale dei diritti e alla sopravvivenza dell’ordine internazionale. Ciò che a tal fine è necessario non è tanto un governo mondiale, basato sull’improbabile principio una testa/un voto, quanto piuttosto l’introduzione di funzioni e di istituzioni globali di garanzia della pace e dei diritti umani, legittimate, ripeto, non già dalla loro rappresentatività politica, ma dall’applicazione sostanziale del diritto esistente, cioè dalla tutela e dalla soddisfazione dei principi di pace e di giustizia già stipulati nelle leggi e nelle carte internazionali: da un lato quelle che ho chiamato funzioni e istituzioni amministrative di garanzia primaria, deputate alla tutela della pace e dei diritti di libertà e alla soddisfazione dei diritti sociali, dall’altro le funzioni e le istituzioni giurisdizionali di garanzia secondaria, deputate all’ac-certamento e alla riparazione delle violazioni delle garanzie primarie. Come si dirà nelle pagine che seguono, talune di queste istituzioni globali di garanzia primaria, come la Fao e l’Organizzazione mondiale della sanità, esistono da tempo, ma sono del tutto inadeguate a quelle che dovrebbero essere le loro funzioni di garanzia. Si tratta di dotarle dei mezzi e dei poteri necessari alle funzioni di erogazione delle prestazioni alimentari e sanitarie. Un’innovazione costituzionale assai originale ed efficace, in grado di assicurare a tali funzioni le risorse necessarie e, insieme, di garantirne l’indipendenza, sarebbe l’applicazione anche a livello globale dei vincoli di bilancio previsti dalla Costituzione brasiliana: la previsione di quote annuali anche minime del prodotto interno mondiale, prelevate da una fiscalità globale e destinate al loro finanziamento. Altre istituzioni – in tema di garanzia dell’ambiente, dell’istruzione, dell’abitazione, della sicurezza e di altri diritti vitali – dovrebbero invece essere istituite. Altre ancora – il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio – dovrebbero essere trasformate, sulla base dei loro stessi statuti, in istituzioni globali e indipendenti di garanzia. Quanto alle funzioni e alle istituzioni di garanzia secondaria, non si è andati oltre l’istituzione della Corte internazionale di giustizia, competente a dirimere le controversie tra gli Stati membri dell’Onu che ne abbiano accettato la giurisdizione, e quella già ricordata della debole Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità; laddove una costituzionalizzazione del diritto internazionale richiederebbe soprattutto l’istituzione di una Corte costituzionale globale, in grado di censurare come invalide le leggi e i trattati in contrasto con le carte internazionali dei diritti. Si tratta, in tutti i casi, di funzioni e di istituzioni non di governo ma di garanzia, siccome tali contro-maggioritarie perché legittimate dalla tutela, anche contro le contingenti maggioranze, dei diritti fondamentali di tutti.
La forma giuridica di questo complesso costituzionalismo globale è chiaramente il federalismo quale costituzionalismo multilivello basato sul carattere prevalentemente federato delle istituzioni di governo e in larga parte federale delle istituzioni di garanzia, nonché su chiare separazioni tra le une e le altre. Entro un ordinamento internazionale di tipo federale, le funzioni di governo, legittimate dalla
rappresentanza politica, saranno infatti tanto più rappresentative e responsabili quanto più di competenza degli Stati federati, mentre sono soprattutto le funzioni globali di garanzia e le relative istituzioni che devono essere create in attuazione delle tante carte internazionali dei diritti umani. Alcune di queste, deputate alla garanzia primaria di diritti e beni fondamentali realizzabile solo a livello globale – la tutela dell’ecosistema, la pace, i minimi vitali, la gestione delle pandemie, la giurisdizione in tema di crimini di Stato contro l’umanità – devono essere interamente di competenza delle istituzioni federali globali. Altre, sia primarie che secondarie, vanno invece sviluppate a tutti i livelli sulla base del principio di sussidiarietà, in forza del quale l’intervento delle funzioni di livello superiore è dovuto ove difettino o non siano adeguate o lo richiedano le istituzioni di garanzia di livello inferiore. Sul piano teorico, dunque, la costruzione di una sfera pubblica sovranazionale – rispettosa dell’autonomia e della rappresentatività politica delle funzioni statali di governo (federate) e composta principalmente di funzioni e istituzioni sovrastatali di garanzia (federali) – è assai meno problematica di quanto di solito si ritenga. Sia il pregiudizio ideologico schmittiano dell’unità e dell’omogeneità di un popolo quale presupposto di una costituzione, che l’idea dei critici della domestic analogy secondo cui il paradigma costituzionale supporrebbe una società civile inesistente a livello globale, vanno infatti ribaltati nel loro contrario: limiti e vincoli costituzionali all’insieme dei poteri sono tanto più necessari quanti più differenti e disuguali sono le persone i cui diritti essi hanno il compito di garantire e quanto più terribili e disastrose sono le aggressioni a quanti, di quei diritti violati, sono i titolari. Così come il paradigma costituzionale e la limitazione sia interna che esterna delle sovranità statali sono nati nel secolo scorso dalle tragedie dei totalitarismi e delle guerre, nello stesso modo la costruzione di un’adeguata sfera pubblica globale quale sistema di limiti, di vincoli e separazioni da imporre ai poteri politici ed economici altrimenti selvaggi è oggi resa necessaria ed urgente dalle tragedie in atto e da quelle ancor più catastrofiche che incombono sul nostro futuro.
Una di questa tragedie è la pandemia del coronavirus esplosa nel 2020. Al pari di tutte le altre emergenza globali, essa ha rivelato tutta la fragilità del genere umano e, insieme, la sua totale interdipendenza e il suo comune destino. Nonostante le conquiste tecnologiche e la crescita delle nostre economie, continuiamo – tutti, semplicemente in quanto esseri umani – ad essere esposti alle catastrofi, quasi tutte provocate da noi stessi con il nostro rapporto malsano e irresponsabile con la natura. Ne è venuta un’ulteriore, drammatica conferma della necessità di dar vita a una sfera pubblica planetaria e a un costituzionalismo globale. A causa del tremendo bilancio quotidiano di morti in tutto il mondo, questa tragedia ha reso più visibile e intollerabile di qualunque altra emergenza globale la mancanza di adeguate istituzioni globali di garanzia e più urgente e condivisa la necessità di colmare questa lacuna in attuazione delle tante carte dei diritti umani. Può quindi provocare un risveglio della ragione. Per la prima volta nella storia, si è prodotta la percezione comune a tutti gli abitanti del pianeta di un pericolo comune, che solo in comune può essere affrontato con successo. Facendo di ciascuno di noi un possibile tramite e una possibile vittima del contagio, la pandemia ha coinvolto tutti e ciascuno in una generale
corresponsabilità in ordine ai suoi possibili esiti, quello della salvezza o quello della malattia e della morte di se stessi e degli altri. Ha mostrato che solo la sua gestione pubblica e globale avrebbe potuto garantire, oltre all’uguaglianza nel diritto alla salute di tutti gli esseri umani, l’efficacia delle misure adottate, la quale dipende dalla loro omogeneità e dal loro coordinamento, essendo sufficiente che taluni paesi adottino misure inadeguate o intempestive per provocare la riapertura del contagio in tutti gli altri. Ha infine riabilitato il ruolo della politica come cura e promozione dell’interesse generale che lega l’interesse di ciascuno all’interesse di tutti, al di là dei confini e delle differenze nazionali, religiose o culturali. 3. Costituzionalizzare la globalizzazione, globalizzare il garantismo costituzionale. L’inveramento del costituzionalismo per effetto della sua espansione universale. Per una fiscalità globale – Si capisce l’enorme portata innovatrice dell’espansione del paradigma costituzionale qui prospettata. Il costituzionalismo odierno è un costituzionalismo di diritto pubblico, declinato come sistema di limiti e vincoli a garanzia dei soli diritti fondamentali e ancorato – quale “Stato di diritto” – alle forme dello Stato nazionale
Il costituzionalismo oltre lo Stato qui ipotizzato consiste nel superamento di questo modello ristretto del paradigma costituzionale attraverso tre espansioni prospettate: in direzione di un costituzionalismo di diritto privato, in aggiunta all’odierno costituzionalismo di diritto pubblico; in direzione di un costituzionalismo dei beni fondamentali, in aggiunta all’odierno costituzionalismo dei diritti fondamentali; in direzione di un costituzionalismo globale, in aggiunta all’odierno costituzionalismo statale, tramite la costruzione di funzioni e di istituzioni sovra-statali di garanzia all’altezza dei poteri economici e politici globali9. Queste espansioni sono tutte dettate dalla logica stessa del costituzionalismo, la cui storia è la storia di un progressivo allargamento della sfera dei diritti costituzionalmente stabiliti e dei poteri da questi limitati: dai diritti di libertà nelle prime dichiarazioni e nelle costituzioni ottocentesche, al diritto di sciopero e ai diritti sociali nelle costituzioni
9 E’ il progetto disegnato da I. Kant, Per la pace perpetua cit. e, prima ancora, in Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in Id., Scritti politici cit., Tesi settima, pp. 131-134 e in Sopra il detto comune cit., III, p. 280. Il progetto riprende e sviluppa la riflessione di J-J. Rousseau, Estratto dal progetto di pace perpetua dell’Abbé de Saint-Pierre (1761) in Id., Opere, a cura di P. Rossi, Firenze, Sansoni 1972, pp. 137-154; Id., Giudizio sul progetto di pace perpetua (1782), ivi, pp. 154-160, a commento del saggio di C.I. Castel, Abate di Saint-Pierre, Les Mémoires pour rendre la paix perpetuelle en Europe, scritte durante il congresso di Utrecht del 1712. Sul progetto kantiano di una costituzione cosmopolita cfr., da ultimo, C. Corradetti, Kant e la Costituzione cosmopolitica. Tre saggi, Mimesis, Milano 2016. Una prefigurazione dell’ordinamento internazionale come ordinamento “universale”, sul modello della civitas maxima di Christian Wolff, fu operata da H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto (1920), a cura di A. Carrino, Milano, Giuffrè, 1989 il cui cap. IX, pp. 355-402, è intitolato “Il diritto internazionale come civitas maxima”.
del secolo scorso, fino ai nuovi diritti alla pace, all’ambiente, all’informazione, all’acqua potabile e all’alimentazione oggi rivendicati e non ancora tutti costituzionalizzati. Si è trattato di una storia sociale e politica, prima che teorica, dato che nessuno di questi diritti è caduto dall’alto, ma tutti sono stati conquistati da movimenti rivoluzionari: le grandi rivoluzioni liberali americana e francese, poi i moti ottocenteschi in Europa per gli statuti, poi le lotte operaie e sociali per la conquista dei diritti dei lavoratori, poi la lotta di liberazione antifascista da cui sono nate le odierne costituzioni rigide, infine le lotte femministe, ecologiste e pacifiste di questi ultimi decenni. Ma l’espansione del paradigma costituzionale a livello globale non è solo un allargamento. E’ anche, e soprattutto, un inveramento del costituzionalismo. Esiste infatti una contraddizione insolubile tra il costituzionalismo e la difesa delle sovranità statali e tra l’universalismo di tali diritti fondamentali, riferito a tutti gli esseri umani, e lo spazio statale delle loro garanzie delimitato di fatto dalla cittadinanza. E’ perciò un salto di qualità del costituzionalismo che oggi viene imposto dalle attuali, micidiali minacce al futuro dell’umanità, in attuazione e in accordo con il carattere universale dei diritti fondamentali stabiliti in tante carte non solo costituzionali ma anche internazionali. Globalizzare il costituzionalismo equivale infatti a inverarne l’universalismo, e perciò a garantire l’uguaglianza nei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani, quale loro autentico fattore di coesione e di pacifica convivenza. Il paradigma costituzionale inverato dalla sua universalizzazione è pertanto incompatibile sia con la cittadinanza, che è l’ultimo accidente di nascita che differenzia le persone nei diritti e dovrebbe essere sostituita dalla residenza quale presupposto dei diritti politici, sia con la sovranità, che in democrazia non appartiene a nessun potere costituito, ma soltanto al popolo, e perciò può essere identificata con la somma di quei frammenti di sovranità che sono i diritti fondamentali di cui tutti – i milioni, anzi i miliardi di persone che formano i popoli – sono titolari. Solo un costituzionalismo globale, che non conosca confini e che annulli quei fattori di divisione del genere umano che sono le diverse sovranità e le diverse cittadinanze, può insomma attuare l’universalismo dei diritti fondamentali e trasformare gli Stati e i mercati, da valori intrinseci e fini a se stessi, in strumenti di garanzia di tali diritti e degli altri principi di giustizia costituzionalmente stabiliti. Solo tale allargamento del garantismo costituzionale potrà restaurare la gerarchia e la geografia democratica dei poteri sconvolte dalla loro confusione e dal sostanziale capovolgimento del governo politico dell’economia nel governo economico della politica. E’ difficile prevedere se tale allargamento del costituzionalismo e della democrazia riuscirà a svilupparsi, o se continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi. Due cose sono tuttavia certe. Ne ho già fatto cenno, ma è bene insistere su di esse.
La prima tesi certa è che questo allargamento è possibile. La sua prima condizione è il rifiuto dell’idea, ripetuta in questi anni da tutti i governanti e da quanti li sostengono, che “non esistono alternative” agli assetti di potere e alle politiche attuali. E’ questa una tesi palesemente ideologica, di legittimazione di quanto accade e di quanto non accade. L’alternativa esiste, ed è l’introduzione non solo possibile,
ma anche obbligatoria – perché imposta dall’implicazione espressa dal nostro esagono deontico tra quelle aspettative negative o positive nelle quali consistono i diritti fondamentali e i divieti e gli obblighi che ne sono le garanzie – di idonee funzioni e istituzioni di garanzia a sostegno del progetto, già disegnato dalla Carta dell’Onu e dalle tante carte sovra-nazionali dei diritti umani, di un diritto internazionale modellato sul paradigma costituzionale. Sono queste funzioni e queste istituzioni di garanzia, soprattutto primarie, che dovrebbero essere espressamente previste e concretamente costruite, onde venga superata quella loro vistosa lacuna che sta screditando come mere declamazioni ideologiche i diritti fondamentali da quelle carte stabiliti. Tutte le costituzioni e le convenzioni in tema di diritti, del resto, hanno la medesima aria di famiglia. Si spiega così il dialogo giurisprudenziale sempre più frequente ed intenso tra le Corti costituzionali. Ma si giustifica altresì l’ipotesi di una Costituzione della Terra che, come è avvenuto per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, raccolga e rielabori in un unico testo, rigidamente sopra-ordinato a tutte le altre fonti, sia statali che internazionali, le “tradizioni costituzionali comuni” a tutte queste carte10. Sicuramente i veri problemi posti da questa prospettiva non sono di carattere teorico o tecnico, ma solo di carattere politico, legati alla miope indisponibilità dei poteri più forti – le superpotenze militari, le grandi imprese multinazionali e i mercati finanziari – a sottostare al diritto e ai diritti. La seconda tesi certa è che nell’odierno mondo globalizzato la costruzione di una sfera pubblica internazionale garante della pace, dei diritti umani e dei beni comuni è oggi la sola alternativa razionale e realistica a un futuro di guerre e di violenze in grado di travolgere gli interessi di tutti. OOOggggggiii o si va avanti nel processo costituente, dapprima europeo e poi globale, attraverso la costruzione di idonee funzioni e istituzioni sovranazionali di garanzia, soprattutto primarie, della pace e dei diritti vitali di tutti, oppure si va indietro, in maniera brutale e radicale, al punto da mettere in pericolo, per la prima volta nella storia, l’abitabilità del pianeta e la sopravvivenza dell’umanità. O si impongono limiti, nell’interesse di tutti, allo sviluppo selvaggio del capitalismo globale, oppure si va incontro a un futuro di catastrofi: alle devastazioni ambientali conseguenti a una crescita industriale ecologicamente insostenibile; alla minaccia e all’autodistruzione nucleare in un mondo affollato di armi incomparabilmente più micidiali di quelli di qualunque epoca del passato; alla crescita esponenziale della disuguaglianza, della miseria e della fame, nonché del crimine organizzato e del terrorismo; alla fuga crescente di migranti dai loro paesi, resi sempre più inabitabili dai cambiamenti climatici.
10 E’ in questa prospettiva che sono stati promossi, alla fine del 2019, un movimento d’opinione a sostegno della necessità di pervenire a una Costituzione della Terra e l’organizzazione, a tal fine, di una scuola denominata “Costituente Terra”. L’appello, Perché la storia continui. Appello-proposta per una Costituzione della Terra, scritto da Raniero La Valle, è stato pubblicato su “il manifesto” del 27.12.2019. La scuola è stata inaugurata a Roma nella Biblioteca Valicelliana il 21.2.2020, con le relazioni di R. La Valle, Chiediamolo al pensiero. Le ragioni di una Scuola e di L. Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra, pubblicate sul sito www.costituenteterra.it. La mia relazione, con un post scriptum di tre mesi dopo sulla drammatica conferma, ad opera della pandemia, della necessità e dell’urgenza di questo salto di civiltà, è anche in “Teoria politica”, X, 2020, pp. 39-57.
Sotto questi aspetti la pandemia del coronavirus ha rivelato la totale inadeguatezza delle istituzioni internazionali esistenti alle loro funzioni di garanzia. Questa inadeguatezza era evidente già prima. La mancanza di mezzi e di poteri dell’Organizzazione mondiale della Sanità è da decenni attestata dai milioni di morti ogni anno per la mancata distribuzione nei paesi poveri dei farmaci “salva-vita”, che 40 anni fa proprio l’OMS stabilì che dovessero essere universalmente accessibili a tutti. Ma solo il coronavirus, colpendo anche i paesi ricchi, l’ha finalmente svelata, rendendo ovvia la necessità di fare di tale Organizzazione una vera istituzione di garanzia e così di avviare, sul terreno sanitario, un primo frammento di costituzionalismo globale.
Di qui la necessità di introdurre una fiscalità mondiale, in grado di finanziare le funzioni internazionali di garanzia primaria dei diritti e dei beni fondamentali: la Tobin tax sulle transazioni internazionali di cui si parla da anni11, ma anche la possibile tassazione per l’uso e l’indebito arricchimento, da parte dei paesi ricchi, dei beni comuni dell’umanità, come le orbite satellitari, le bande dell’etere e le risorse minerarie dei fondi oceanici, attualmente utilizzate gratuitamente come se fossero res nullius anziché, secondo quanto stabilito nelle vigenti convenzioni internazionali sul mare e sugli spazi extra-atmosferici, “patrimonio comune dell’umanità”12. Di qui la fondatezza di un diritto dei paesi poveri al risarcimento dei danni prodotti al pianeta dal riscaldamento climatico, in grado di compensare ampiamente i loro debiti esteri. Ma a queste ipotesi di tassazione e risarcimenti andrebbe aggiunta l’introduzione di vere e proprie imposte di carattere globale, che avrebbero tra l’altro il vantaggio di dar vita a una sorta di catasto dei capitali, e così di assicurare la trasparenza dei poteri economici e finanziari, di limitarne gli abusi e i rapporti con l’economia illegale e di porre fine agli attuali paradisi fiscali13.
Più in generale, è sempre più necessaria ed urgente, contro l’anarchia globale dei
11 Sulla Tobin Tax, si veda R. Bellofiore, E. Brancaccio (a cura di), Il granello di sabbia. I pro e i contro della Tobin Tax, Feltrinelli, Milano 2002, che reca in appendice una serie di testi, tra cui, alle pp. 46-60, l’articolo di James Tobin, A Proposal for International Monetary Reform, pubblicato in “Eastern Economic Journal”, 1978, n. 3-4, pp. 153-159, in cui fu avanzata la proposta e, inoltre, due suoi interventi del 1997 su “Washington Post” e una sua intervista del 1999. 12 Nell’art. 136 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10.12.1982 e nell’art. 1 del Trattato sulle attività degli Stati nell’esplorazione e nell’uso dello spazio extra-atmosferico del 27.1.1967. 13 E’ la proposta di un’imposta globale e progressiva sui capitali avanzata da Th. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, (2013), tr. it. di S. Arecco, Bompiani, Milano 2014, cap. 15, pp. 814-824, e ripresa da A.B. Atkinson, Disuguaglianza cit., pp. 206-208 e 243. Piketty ha ipotizzato, per tale imposta, un’aliquota dell’1% sui patrimoni fra uno e cinque milioni di euro, del 2% sulla frazione di patrimoni superiore a cinque milioni di euro e del 5% o del 10% su frazioni superiori a 1 miliardo di euro; ha inoltre proposto un’imposta europea sui capitali con le medesime aliquote, calcolando che essa riguarderebbe il 2,5% della popolazione e produrrebbe un gettito equivalente al 2% del Pil europeo (Il capitale cit., p. 816 e pp. 837-842). Atkinson, a sua volta, riferisce di una proposta Oxfam di un’imposta mondiale dell’1,5% sui patrimoni superiori a 1 miliardo di dollari che darebbe un gettito di 74 miliardi di dollari; propone inoltre l’istituzione di “un’amministrazione fiscale mondiale” (Disuguaglianza cit., p. 206), che varrebbe a ridurre l’opacità dei patrimoni e l’evasione fiscale.
mercati, la costruzione di un governo globale dell’economia e della finanza in grado di gestire le crisi economiche, sempre più planetarie, e di colmare il vuoto di diritto pubblico prodotto dalla crisi dei vecchi Stati nazionali: non, si badi, un vuoto di di-ritto, che non può mai esserci, ma un vuoto di diritto pubblico, oggi inevitabilmente colmato da un pieno di diritto privato, cioè da un diritto di produzione contrattuale disancorato dagli Stati e dai loro territori14. Si è infatti capovolto il rapporto tra Stato e mercato, grazie alla concorrenza al ribasso, in tema di garanzie dei diritti, nella quale le grandi imprese transnazionali mettono tra loro gli Stati onde scegliere quelli nei quali spostare i loro investimenti.
Solo la progressiva costruzione di una sfera pubblica mondiale è insomma in grado di fondare una geografia e una gerarchia democratica dei poteri quale condizione necessaria di risposte razionali, nell’interesse di tutti, alle sfide odierne: al cambiamento climatico, alla povertà estrema di centinaia di milioni di persone, alla cosiddetta autoregolazione dei mercati. A tal fine è necessario comprendere i disastri provocati dall’autoregolazione capitalistica, risoltasi di fatto, anche grazie alla composizione attuale degli organi delle istituzioni economiche internazionali, cioè del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione mondiale del Commercio, nel predominio dei paesi più ricchi, nella corruzione sistematica, nella subordinazione alle lobby delle autorità di controllo, negli infiniti conflitti di interessi e nella costante confusione tra controllori e controllati15: in breve, nella crescente, abissale distanza tra il dover essere del diritto disegnato dalle tante carte costituzionali, nazionali e sovranazionali, e la sua realtà effettuale, fatta di antinomie e di lacune, di violazioni e inattuazioni, di pratiche illecite e di principi ineffettivi.
4. I crimini di sistema quali illeciti non penali, cagionati dall’attuale sistema politico ed economico globale. Quattro classi di crimini di sistema – Come dev’essere considerata questa distanza crescente tra il dover essere giuridico e l’essere effettivo del diritto internazionale? Come dobbiamo chiamare le violazioni di massa dei diritti umani, consistenti tutte in terribili catastrofi? Come dobbiamo qualificare, sul piano
14 Si vedano, sulla sostituzione, nella regolazione dei mercati globali, alla forma eteronoma propria dello stato di diritto, di una normazione autonoma prodotta dai loro stessi attori più forti, gli studi di M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Il Mulino, Bologna 2000; Id., Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Il Mulino, Bologna 2002; Id., Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2006: Id., La governance tra politica e diritto, Il Mulino, Bologna 2010; Id., Prima lezione di diritto globale, Laterza, Roma-Bari 2012. 15 Mi limito a ricordare, dell’ampia letteratura sulle istituzioni finanziarie globali e sulle loro possibili riforme in senso democratico, J.E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori (2002), tr. it. di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2002; Id., La globalizzazione che funziona (2006), tr. it. di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2006; L. Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013, cap. 12, pp. 298 ss; M.R. Ferrarese, Promesse mancate. Dove ci ha portato il capitalismo finanziario, Il Mulino, Bologna 2017.
giuridico, le devastazioni ambientali di cui soffrono soprattutto le popolazioni dei paesi poveri e che sono prodotte dall’assenza di limiti e controlli sullo sviluppo industriale ecologicamente insostenibile dei paesi ricchi? Come dobbiamo concepire, sulla base delle tante carte costituzionali e internazionali dei diritti umani che affollano i nostri ordinamenti, i milioni di morti ogni anno per fame, sete e malattie non curate, vittime della crescita della disuguaglianza e della povertà, e le centinaia di migliaia di persone che tentano di fuggire da questa miseria per poi incontrare, quando non perdono la vita nelle loro tremende odissee, l’oppressione razzista dovuta alle loro identità differenti? Certamente queste violazioni massicce non sono configurabili come crimini in senso penalistico. Al pari delle loro vittime, identificabili con popoli interi e talora con l’intera umanità, anche i loro autori non sono identificabili con singole persone, bensì con i meccanismi del sistema economico e politico. Inoltre, non diversamente dai loro effetti catastrofici di massa, non identificabili in singoli e determinati eventi dannosi, neppure le azioni che li hanno provocati, anch’esse di massa, sono di solito identificabili in comportamenti singolari e determinati, siccome tali prefigurabili come delitti, consistendo invece in insiemi complessi di attività politiche ed economiche messe in atto da una pluralità indeterminata e non determinabile di soggetti. Si tratta, in breve, di aggressioni ai diritti delle persone che il diritto penale non può fronteggiare, dato che esse difettano di tutti i requisiti imposti dai suoi principi garantisti: dal principio di stretta legalità e determinatezza dei fatti punibili, dal nesso di causalità tra azioni individuali e cataclismi ambientali e sociali, dal principio, infine, della responsabilità personale in materia penale. E tuttavia queste catastrofi non sono fenomeni naturali, come i terremoti o le eruzioni vulcaniche. Non lo sono i milioni di morti per fame, per sete e per malattie non curate. Non lo sono neppure i cataclismi e le devastazioni ambientali provocate dall’odierno sviluppo industriale ecologicamente insostenibile. Tanto meno lo sono le omissioni di soccorso di cui sono vittime ogni anno le migliaia di migranti che tentano di penetrare nei nostri paesi. E neppure sono, queste catastrofi, delle semplici ingiustizie. Esse sono bensì violazioni giuridiche massicce dei diritti fondamentali stipulati nelle tante carte costituzionali, sia nazionali che sovranazionali. C’è allora una seconda domanda, di carattere meta-teorico, che si aggiunge alle domande di carattere teorico ora formulate: se sia ammissibile che la criminologia, la scienza giuridica, la scienza politica e il dibattito pubblico si disinteressino di simili atrocità, niente affatto naturali, ma provocate dall’odierno anarco-capitalismo globale. Dobbiamo domandarci se il dibattito scientifico e politico possa ignorare simili aggressioni ai diritti umani e ai beni fondamentali, le quali per un verso sono in contrasto con tutte le nostre carte costituzionali e internazionali e, per altro verso, sono in grado, se non fronteggiate dal diritto e dalla politica con la creazione di idonee garanzie e delle connesse funzioni e istituzioni di garanzia, di vanificare tutte le nostre conquiste di civiltà e di mettere in pericolo, in tempi non lunghi, il futuro dell’umanità.
Io credo che una risposta razionale a questi due ordini di domande richieda un aggiornamento e una rifondazione delle categorie concettuali con le quali leggiamo e
interpretiamo la realtà. Si pongono, in proposito, una questione teorica e una questione epistemologica, l’una e l’altra di fondo: la prima investe la nozione di “crimine”; la seconda riguarda il ruolo scientifico ed esplicativo della criminologia e più in generale della scienza giuridica. E’ chiaro che la parola “crimine” riveste una forte capacità di stigmatizzazione morale, sociale e politica. Ebbene, la criminologia tradizionale e il dibattito pubblico sono sempre stati totalmente subalterni al diritto penale, avendo concepito e denominato come “crimini” soltanto i comportamenti devianti previsti dal diritto penale come reati. In questo modo sia le scienze giuridiche e sociali che il dibattito politico hanno svolto e continuano a svolgere un duplice ruolo di legittimazione ideologica: la squalificazione come ingiusti e moralmente riprovevoli dei soli fatti previsti come reati dai nostri sistemi penali e la legittimazione come giusti, o quanto meno come permessi e non ingiusti, di tutti i fatti non configurati come reati. Si è infatti prodotto, soprattutto in questi ultimi anni, un singolare appiattimento, nel dibattito pubblico e nel senso comune, del giudizio giuridico, oltre che politico e morale, sui soli parametri del diritto penale, diventati ormai la principale chiave di lettura delle colpe e delle responsabilità della politica. Solo i fatti previsti e giudicati come delitti, cioè come crimini in senso penalistico, suscitano indignazione e stigmatizzazione morale e politica. Tutto ciò che non è vietato come reato è invece ritenuto permesso. Fenomeni anti-giuridici incomparabilmente più catastrofici di tutti i delitti, come quelli qui ricordati, proprio perché non fronteggiati dal diritto penale, risultano così, di fatto, tollerati con rassegnazione o peggio con indifferenza. L’emancipazione e l’autonomia scientifica della criminologia e della scienza giuridica e, più ancora, l’autonomia politica del dibattito pubblico richiedono al contrario che la previsione di un fatto come reato non sia considerata né una condizione necessaria, né una condizione sufficiente della sua qualificazione come “crimine”. Ovviamente non può essere considerata una condizione sufficiente – come del resto non l’ha mai considerata, di fatto, neppure la criminologia tradizionale – non potendosi certo concepire come crimini moltissimi reati come i delitti d’opinione, le contravvenzioni e tutte le violazioni di quel diritto penale burocratico e bagatellare prodotto oggi dall’inflazione della legislazione penale. Ma soprattutto la previsione di un fatto come reato non può essere considerata una condizione necessaria della sua qualificazione come crimine. Una criminologia scientifica non subalterna alle contingenti scelte legislative di politica penale deve al contrario concepire come crimini, oltre ai delitti più gravi previsti e puniti dal diritto penale, anche quelle attività politiche, economiche e sociali le quali, benché non riconducibili alla responsabilità penale di singole persone, sono però responsabili di catastrofi planetarie in colpevole contrasto con elementari principi costituzionali formulati nelle tante carte e convenzioni sui diritti umani di cui sono dotati i nostri ordinamenti.
Occorre perciò allargare la nozione di “crimine” anche a queste aggressioni. La nozione corrente di ‘atto illecito’ è ancorata a una base individualistica, certamente non superabile per gli illeciti penali: alla responsabilità personale di soggetti determinati che ne sono gli autori, oltre che agli eventi dannosi cagionati a soggetti parimenti determinati. Dobbiamo perciò prendere atto della sua inadeguatezza
concettuale a dar conto di condotte offensive non attribuibili a singole persone e tuttavia enormemente dannose per popoli interi e talora per l’intera umanità, oltre che contrarie al diritto e ai diritti, come le devastazioni ambientali, le esplosioni e le minacce nucleari, i milioni di morti ogni anno per mancanza di farmaci salva-vita, di acqua e di alimentazione di base. Propongo quindi di introdurre nel lessico della teoria della democrazia una nozione di ‘crimine’ più estesa di quella di crimine penale, onde includervi anche quest’ampia classe di violazioni massicce di diritti e beni fondamentali pur non consistenti, come i crimini penali, in atti individuali imputabili alla responsabilità di persone determinate. Propongo, precisamente, di chiamare queste violazioni giuridiche, i cui effetti sono assai più gravi di tutte quelle perseguite dal diritto penale, crimini di sistema16.
Non si tratta, si badi, dei crimini dei potenti, che sono pur sempre crimini penali la cui gravità e la cui tendenziale impunità sono state fatte oggetto d’indagine da un’ormai ampia letteratura di criminologia critica. E neppure si tratta dei crimini di Stato o dei crimini contro l’umanità, oggi parimenti previsti dal diritto penale internazionale a seguito di quella grande conquista che è stata la creazione della Corte penale internazionale, pur se rimasti, finora, largamente impuniti17. Certamente l’integrazione giuridica e politica del pianeta dovrà pervenire a una codificazione internazionale del diritto penale, ben al di là del limitato elenco di crimini previsti dallo statuto della Corte penale internazionale approvato dal trattato di Roma del 1998, e, soprattutto, all’istituzione di una polizia giudiziaria internazionale in tema di
16 Ho proposto l’introduzione di questa figura di illecito, consistente in violazioni gravissime dei diritti umani e del diritto internazionale non trattabili penalmente perché carenti di tutti i requisiti garantisti del reato, in Criminología, crimenes globales y derecho penal. El debate epistemologico en la criminología contemporanea, in “Critica penal y poder”, 2013, n.4, ora in Escritos sobre derecho penal cit., vol. II, §§ 4 e 5, pp. 470-477 e, da ultimo, in I crimini di sistema e il futuro dell’ordine internazionale, in “Teoria politica”, 2019, n. 7, pp. 401-412. 17 Questa impunità, per tradizione secolare, è stata la regola che ha avallato i tanti genocidi prodotti dalle politiche delle potenze occidentali: dal genocidio delle popolazioni residenti nelle Americhe prima della loro “scoperta” a quelli provocati dalle guerre coloniali. Oltre a T. Todorov, La conqui-sta dell’America cit., sul genocidio in America, si vedano, sui genocidi del secolo scorso, Y. Ternon, Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo (1995), tr. it. di A. Agrati, Corbaccio, Milano 1997; W. Morrison, Criminología, Civilización y nuevo orden mundial (2006), tr. sp. di A. Piombo, Anthropos, Barcelona 2012, con presentazione di E.R. Zaffaroni e Estudio preliminar di Camilo Bernal, Sebastián Cabezas, Alejandro Forero, Inaki Rivera e Ivan Vidal, che a p. 94 riporta il terribile elenco dei genocidi coloniali e di quelli del secolo scorso, dagli 8 milioni di congolesi sterminati in Congo tra il 1885 e il 1908 alla strage dei Tutsi in Ruanda nel 1994; B. Bruneteau, Il secolo dei genocidi (2005), tr. it. di A. Flores d’Arcais, Il Mulino, Bologna 2006, che parimenti ricorda i grandi genocidi del secolo XX: quello degli Armeni tra il 1915 e il 1922 ad opera dei turchi, le deportazioni etniche e le esecuzioni di dissidenti nella Russia stalinista, il genocidio per antonomasia ad opera dei nazisti, i massacri in Cambogia compiuti dai khmer rossi di Pol Pot, la pulizia etnica in Bosnia e il genocidio in Ruanda negli anni Novanta del secolo scorso. Si veda inoltre, sulle molteplici e terribili manifestazioni della violenza genocida quali fenomeni ricorrenti nella storia, P.P. Portinaro, L’imperativo di uccidere. Genocidio e democidio nella storia, Laterza, Roma-Bari 2017. Infine si vedano le sentenze del Tribunale permanente dei popoli raccolte in Tribunale permanente dei popoli. Le sentenze: 1979-1998, a cura di G. Tognoni, Stefanoni, Lecco 1998, in gran parte dedicate all’impunità dei crimini di Stato.
crimine organizzato, di crimini di Stato e di terrorismo internazionale. Ma i crimini di sistema, pur consistendo in violazioni di massa di diritti umani costituzionalmente stabiliti, sono un’altra cosa. Non sono illeciti penali, difettando di tutti gli elementi costitutivi del reato. I loro tratti distintivi – quelli che, volendo usare il linguaggio penalistico, possiamo chiamare i loro “elementi costitutivi” – sono due: il carattere indeterminato e indeterminabile sia dell’azione che dell’evento, di solito catastrofico, e il carattere indeterminato e pluri-soggettivo sia dei loro autori che delle loro vittime, consistenti queste, di solito, in intere popolazioni o, peggio, nell’intera umanità. E’ poi evidente che il riconoscimento come “crimini di sistema” delle violazioni massicce dei diritti sopra ricordate ben potrebbe comportare l’istituzione di una o più giurisdizioni internazionali, con il potere di accertarli insieme alle responsabilità politiche per la loro commissione: per esempio una giurisdizione internazionale in tema di aggressioni all’ambiente, un’altra sulla fame nel mondo e le malattie curabili ma non curate, un’altra ancora sui milioni di morti provocati ogni anno dalla produzione e dalla vendita di armi da fuoco. Altrettanto evidente è che una violazione di massa di diritti o beni fondamentali qualificata come “crimine di sistema” non esclude affatto che nella sua attuazione siano commessi anche crimini penali, addebitabili alla responsabilità di singole persone, dei quali proprio l’indagine su tale violazione, sollecitata dalla sua qualificazione come crimine di sistema, può provocare o comunque favorire la scoperta.
Ciò che conta è l’autonomia, nel dibattito pubblico, del punto di vista esterno rispetto a quello interno del diritto penale, onde si possano chiamare con il loro nome – crimini, appunto – le violazioni massicce imputabili a responsabilità non penali bensì politiche. E’ stato infatti a causa della subalternità al diritto penale e ai filtri selettivi e giustamente garantisti grazie ai quali sono identificati gli illeciti penali, che la criminologia tradizionale e il dibattito pubblico hanno finito per ignorare questi crimini di sistema e, insieme, le responsabilità politiche, economiche e sociali per i danni giganteschi da essi provocati. Ed è solo perché tali crimini non sono trattati né trattabili dalla giustizia penale, giustamente ancorata ai principi garantisti della responsabilità individuale e della determinatezza dei comportamenti punibili, che essi non producono scandalo, bensì l’accettazione acritica – l’odierna banalizzazione del male – come se fossero fenomeni naturali e comunque inevitabili. Per questo una condizione pregiudiziale per fronteggiare e prevenire queste violazioni è promuovere la loro percezione sociale come crimini non più tollerabili dalla coscienza civile del mondo, pur se non addebitabili alla responsabilità giuridica di singole e determinate persone: come “crimini di sistema”, appunto, onde evidenziarne, con questo concetto “polemico”18, il contrasto con tutti i valori della nostra civiltà giuridica e, insieme, per imputarne la commissione alle colpe e alle responsabilità politiche e morali di quanti potrebbero impedirle progettando e introducendo adeguate garanzie di diritto internazionale. Il linguaggio teorico-politico, non dimentichiamo, ha come sempre un ruolo performativo nella formazione del senso comune.
18 L’espressione “concetto polemico” è usato a proposito del “genocidio” da P.P. Portinaro, L’imperativo di uccidere cit., p. X “per denunciare condotte disumane e suscitare allarme sociale”.
Nei quattro paragrafi che seguono distinguerò e illustrerò quattro di questi crimini di sistema, equivalenti ad altrettante emergenze che è necessario fronteggiare prima che si aggravino al punto da mettere in pericolo il futuro dell’umanità: A) le catastrofi ecologiche; B) le guerre nucleari e la produzione e la moltiplicazione delle armi; C) la fame e le malattie non curate; D) la miseria e le migrazioni di massa. Tutti questi crimini e queste catastrofi sono tra loro interconnessi, così come lo sono i diritti e i beni fondamentali da essi violati: la fuga dei migranti è il prodotto dei cambiamenti climatici, delle guerre e della crescita della povertà, che a loro volta sono il frutto del capitalismo selvaggio e predatorio, a sua volta sorretto dalle politiche liberiste e dalla disgregazione delle soggettività collettive da esse provocate a beneficio dei populismi e delle loro campagne identitarie e razziste. Ciò che li accomuna, e che giustifica la loro denominazione come crimini “di sistema”, è che solo decisioni di livello globale sono in grado di fronteggiarli. Nessuno Stato aprirà totalmente le sue frontiere se non lo faranno anche gli altri Stati. Nessun governo affronterà mai, da solo, i problemi della disuguaglianza globale, della fame e della sete nel mondo e delle malattie non curate di centinaia di milioni di persone. Nessun paese, e meno che mai quelli dotati di armamenti nucleari, procederà a un disarmo unilaterale. Tanto meno i singoli Stati si faranno mai carico, singolarmente, del salvataggio del pianeta attraverso una riconversione ecologica delle proprie economie. Solo un garantismo costituzionale di carattere globale può mettere l’umanità in grado di rompere questa spirale perversa, sostituendola con l’opposta sinergia tra le varie classi di diritti fondamentali e le corrispondenti dimensioni e i livelli della democrazia.
5. A) Le devastazioni dell’ambiente. Per salvare la Terra: un costituzionalismo dei beni fondamentali – La prima classe di emergenze e di crimini di sistema, che richiede un costituzionalismo allargato in tutte e tre le direzioni sopra indicate – quale costituzionalismo di diritto privato, quale costituzionalismo dei beni fondamentali e quale costituzionalismo sovra-nazionale – è l’emergenza ambientale. Si tratta di crimini che non erano concepibili in passato. Lo sviluppo tecnologico e industriale, oltre alla produzione di beni vitali artificiali come i farmaci essenziali e l’alimentazione di base, ha provocato la distruzione, la dissipazione e la mercificazione di una crescente quantità di beni vitali naturali come l’aria, l’acqua potabile e l’integrità dell’ambiente dalla cui conservazione e utilizzazione dipende la sopravvivenza dell’umanità. In questi ultimi decenni questo sviluppo ha recato danni irreversibili all’ambiente, sconvolgendo gli equilibri climatici, inquinando l’aria e l’acqua, avvelenando il mare, distruggendo migliaia di specie animali, desertificando milioni di ettari di terra, dilapidando i beni comuni naturali e le risorse energetiche non rinnovabili e accumulate in milioni di anni, come se fossimo le ultime generazioni che vivono sulla Terra. L’umanità – con il riscaldamento globale prodotto dall’emissione di gas velenosi, con i suoi rifiuti tossici, con le sue scorie
nucleari, con lo sfruttamento senza limiti delle risorse naturali – si è trasformata in una sorta di metastasi che avvolge il pianeta. Si parla così dell’età odierna come di una nuova fase della storia della Terra – l’antropocene – caratterizzata dal dominio distruttivo dell’uomo sulla natura19, frutto in realtà di una politica letteralmente suicida. La natura, infatti, ha reagito a questa violenza, ponendoci di fronte a un bivio che non ha precedenti nella storia: il salvataggio del pianeta o la catastrofe imminente e irreparabile. Secondo le valutazioni di tutti gli studiosi, l’attuale sviluppo ecologicamente insostenibile del capitalismo selvaggio sta producendo un’alterazione irreversibile del mondo naturale che mette a rischio l’abitabilità del pianeta: lo scioglimento dei ghiacciai in Groenlandia e in Antartide, l’innalzamento degli oceani, gli inquinamenti dell’aria e dei mari, la riduzione della biodiversità, le invasioni di cavallette, le deforestazioni, le cementificazioni e le esplosioni nucleari, i grandi incendi in Amazzonia, in Australia e in California, il deterioramento dei suoli e dell’aria dovuto allo sviluppo sfrenato dell’agricoltura e degli allevamenti intensivi e, da ultimo, la pandemia del coronavirus con le sue centinaia di migliaia di morti. Il riscaldamento climatico, in particolare, sta mettendo in pericolo la sopravvivenza dell’umanità. Nonostante gli allarmi lanciati da decenni dalla comunità scientifica, la febbre del pianeta sta crescendo costantemente, fino a pervenire, se non arrestata, al punto di non ritorno. Frattanto ha già provocato devastazioni che, benché determinate quasi interamente dai paesi ricchi – in grado di fronteggiarle regolando i termostati e accrescendo le scorte alimentari – hanno colpito soprattutto le popolazioni più povere del mondo. Siccità, alluvioni, smottamenti, inondazioni, uragani e cicloni tropicali colpiscono infatti soprattutto i paesi più poveri, i cui abitanti vivono di agricoltura con meno di un dollaro al giorno, provocando la riduzione delle loro risorse idriche e alimentari, distruggendone le povere baraccopoli e compromettendone le capacità produttive e le possibilità di sviluppo. E’ chiaro che di queste violazioni di massa sono responsabili gli odierni poteri economici e finanziari selvaggi. Ma ne sono responsabili anche i governi, che a causa del loro credo liberista hanno abdicato al loro ruolo di regolazione e di controllo dei mercati.
Contro questi crimini di sistema è diventato perciò sempre più urgente apprestare idonee garanzie di quelli che ho chiamato beni fondamentali perché oggetto di diritti vitali: come l’aria, l’acqua potabile, i ghiacciai e il patrimonio forestale. Tutti questi beni andrebbero protetti come beni comuni inviolabili, mediante la loro sottrazione al mercato e all’arbitrio delle politiche di maggioranza, a garanzia della loro conservazione e della loro accessibilità a tutti. Per due essenziali ragioni, evidenti in
19 Jeremy Rifkin ha parlato di “ecocidio” (Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, tr. it. di P. Canton, Mondadori, Milano 2002), con particolare riguardo ai costi e alle conseguenze – squilibri ecologici, trattamenti crudeli degli animali, malattie e crescita delle disuguaglianze globali – delle abitudini alimentari dei paesi ricchi. Si veda anche, di J. Rifkin, La terza rivoluzione industriale. Come il ‘potere laterale’ sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo (2011), tr. it. di P. Canton, Mondadori, Milano 2011. L’analisi più sintetica e completa di questa minaccia al pianeta e all’umanità è offerta dall’enciclica di Papa Francesco, Laudato si’, qui richiamata nella nota 4.
maniera esemplare nel caso di quel bene vitale che è l’acqua potabile. In primo luogo perché, trattandosi di beni vitali oggetto di diritti fondamentali, la garanzia del loro godimento è tutt’uno con il diritto alla sopravvivenza e deve perciò essere assicurata gratuitamente a tutti. In secondo luogo perché, in assenza della loro garanzia giuridica come beni fondamentali, tali beni si trasformano inevitabilmente in beni patrimoniali, in contraddizione con il fatto che non possono avere un valore di scambio: non più perché non sono rari ma accessibili a tutti, ma perché, al contrario, essendo diventati rari e non più accessibili a tutti e però vitali, non c’è prezzo che chiunque non sia disposto a pagare e che non si potrebbe esigere20. Per questo non possono essere merci, bensì beni fondamentali, oggetto di diritti a loro volta fondamentali. Per questo è necessario dar vita a una fase nuova del costituzionalismo, all’altezza di questa nuova fase del capitalismo, nella quale il riconoscimento e la garanzia di tali beni vitali come fondamentali equivalga alla loro sottrazione alla disponibilità della politica e del mercato e nella loro accessibilità a tutti. Si possono concepire, a tal fine, tre ordini di garanzie.
Il primo ordine di garanzie è quello adottato negli ordinamenti statali con la qualificazione dei beni comuni di pubblico interesse come beni demaniali, in quanto tali sottratti al mercato e alle devastazioni e dissipazioni che il mercato consente. Questa garanzia richiede tuttavia un rafforzamento: la stipulazione del carattere demaniale e fondamentale di tali beni a livello costituzionale. Oggi i beni demaniali sono definiti dalla legge e precisamente, in Italia, dal codice civile, che negli artt. 822 e 824 qualifica come tali una lunga serie di cose – come le spiagge, i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi, le strade statali e le ferrovie – perciò sottratte come “demanio pubblico” all’appropriazione e alla negoziazione privata. Ma la legge può disporne, come è avvenuto in Italia, la privatizzazione e la trasformazione in beni patrimoniali. Di qui la necessità, a garanzia del loro statuto di beni fondamentali, della loro previsione come beni demaniali costituzionali, rigidamente sottratti alla disponibilità non solo del mercato ma anche della politica21.
Il secondo ordine di garanzie consiste nell’istituzione di più tipi di demanio: non solo dei demani comunali, provinciali, regionali e statali, ma anche, a causa delle aggressioni provenienti dall’industria e dal mercato globale, di demani sovra-statali. Dovrebbe quanto meno istituirsi un demanio europeo. Ma soprattutto dovrebbe istituirsi, per i beni comuni vitali, un demanio planetario di livello globale in grado di metterli al riparo da appropriazioni e devastazioni di qualunque tipo. Di questo futuro demanio planetario dovrebbero far parte l’atmosfera, l’acqua potabile, i grandi fiumi
20 In questa prospettiva è stata proposto da R. Petrella, Il Manifesto dell’acqua. Il diritto alla vita per tutti, Gruppo Abele, Torino 2001, pp. 137-138 un triplice statuto dell’acqua potabile: l’obbligo della sua distribuzione gratuita a tutti nella misura necessaria ai minimi vitali; il divieto delle sue distruzioni e degli sprechi oltre un limite massimo; la tassazione su basi progressive dei consumi eccedenti il limite minimo ma inferiori al limite massimo. 21 La Costituzione italiana, del resto, già contiene norme costituzionali in tema di beni pubblici o demaniali: il suo articolo 43 stabilisce che “ai fini di utilità generale la legge può… trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
e i laghi, i ghiacciai, i litorali marini, la biodiversità, le grandi foreste, vittime da anni di incendi dolosi, e tutti i mari e gli oceani22. C’è inoltre l’assoluta necessità ed urgenza dell’istituzione di una o più autorità mondiali di garanzia dell’ambiente, deputate alla cura e alla sorveglianza della non tangibilità del demanio planetario e degli altri demani sovra-statali, all’imposizione di limiti e controlli in ordine all’emissione di gas serra e alla deliberazione di sequestri e sanzioni nei confronti di quanti violano il demanio planetario e le altre regole a tutela dell’ambiente. All’interno di queste istituzioni globali di garanzia dovrebbero essere istituiti organi deputati alla ricerca scientifica e, insieme, all’indagine empirica in ordine ai diversi crimini di sistema di carattere ecologico. Solo grazie a questi due rafforzamenti del garantismo costituzionale i beni ecologici vitali possono essere messi al riparo da aggressioni e manomissioni provenienti dalla politica e dal mercato. Alle tante carte costituzionali e convenzioni internazionali sui diritti umani dovrebbero perciò aggiungersi carte costituzionali e carte internazionali dei beni fondamentali, idonee a garantire questi beni vitali – non solo i beni comuni, ma anche i beni sociali e i beni personalissimi – tramite divieti, obblighi di tutela e controlli imposti al mercato e allo sviluppo industriale. Parafrasando il preambolo della Carta dell’Onu, una possibile Carta globale dei beni fondamentali potrebbe aprirsi con queste parole: “Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le generazioni future dal flagello dello sviluppo industriale inso-stenibile che nel corso di una generazione ha provocato indicibili devastazioni al nostro ambiente naturale; decisi inoltre ad assicurare a tutti gli esseri umani la garanzia della salute e dei minimi vitali e a impedire manomissioni del corpo delle persone, rese entrambe possibili dai progressi tecnologici, conveniamo” le seguenti, urgenti misure a garanzia dei seguenti beni fondamentali dell’umanità.
Naturalmente i tipi di garanzie dei beni comuni globali richiesti dall’espansione a livello sovrastatale del garantismo costituzionale sono diversi, a seconda che tali beni siano vitali o meno e, soprattutto, esauribili o inesauribili. Ove si tratti di beni vitali, limitati ed esauribili, il dovere della loro conservazione richiede la garanzia della loro totale sottrazione all’appropriazione e alla dissipazione privata. Nei casi di beni non vitali si giustificano invece la tassazione del loro uso, il risarcimento dei danni da tale uso ed abuso provocati e azioni di indebito arricchimento per le loro utilizzazioni non dannose, come quelle delle linee aeree, delle orbite satellitari e delle bande dell’etere. Si tratterebbe di introiti giganteschi, sufficienti forse non solo a pagare tutti i debiti
22 Come ho ricordato nella nota 12, il nostro lessico giuridico conosce già la categoria del “patrimonio comune dell’umanità”: “L’Area (di alto mare) e le sue risorse sono patrimonio comune dell’umanità”, stabilisce l’art. 136 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10.12. 1982; e l’art. 137, 2° comma aggiunge: “Tutti i diritti sulle risorse dell’Area sono conferiti a tutta l’umanità, per conto della quale agisce l’Autorità [Internazionale dei Fondi marini]. Queste ri-sorse sono inalienabili”. “Le attività dell’Area”, stabilisce inoltre l’art.140, “sono condotte a be-neficio di tutta l’umanità, tenuto particolarmente conto degli interessi e delle necessità degli Stati in via di sviluppo” e va “assicurata l’equa ripartizione dei vantaggi che ne derivano su base non di-scriminatoria”. Come “appannaggio dell’umanità intera” sono inoltre qualificati gli spazi extra- atmosferici dall’art.1 del relativo Trattato del 27.1.1967, che ne impone l’“utilizzazione per il bene e nell’interesse di tutti i paesi, quale che sia lo stadio del loro sviluppo economico o scientifico”.
esteri ma anche a finanziare la garanzia, a livello sia statale che internazionale, di tutti i diritti sociali23. Ma le garanzie giuridiche non bastano. Ciò che ancor prima si richiede è una riconversione ecologica globale delle politiche economiche e industriali, informata a un modello di sviluppo non più solo quantitativo, ma apertamente finalizzato alla salvaguardia dell’ambiente e delle condizioni di vita di tutti: l’abbandono delle energie fossili, la loro sostituzione con le energie pulite e rigenerabili come quella solare e quella dei venti, il riciclaggio dei materiali e lo sviluppo dell’agricoltura biologica, attraverso sgravi e incentivi agli investimenti nell’economia verde. E’ infine evidente che una tale svolta di tipo giuridico, politico ed economico è possibile solo se sorretta da una crescita generale di consapevolezza in ordine alla questione ambientale, quale si manifesta da un lato in concreti cambiamenti dei nostri stili individuali di vita – la riduzione del consumismo compulsivo, del consumo di carni da allevamento intensivo, degli sprechi e dei rifiuti e la critica del negazionismo della questione ambientale – e, dall’altro, in lotte sociali e mobilitazioni collettive in difesa della natura, come quella dell’ultima settimana del settembre 2019, promossa da Greta Thunberg e messa in atto dal movimento globale “Fridays for Future”. Nella consapevolezza che la questione ambientale non riguarda soltanto le responsabilità della politica e dell’economia, ma coinvolge, a causa dell’interdipendenza da essa rivelata, le responsabilità individuali di tutti e di ciascuno.
6. B) Le guerre e la produzione e la vendita delle armi. Le garanzie della pace – La seconda emergenza, che parimenti richiede l’espansione del costituzionalismo a livello globale, è costituita dalle guerre e dalle minacce alla pace generate dalla produzione e detenzione di armi sempre più micidiali. Dopo la caduta del muro di Berlino, nuove guerre di aggressione, pur previste come crimini dallo Statuto della Corte penale internazionale approvato nel 1998 ma non ratificato dagli Stati più
23 Una tassazione internazionale per lo sfruttamento delle risorse minerarie dei fondi oceanici, sulla base della loro qualificazione come “appannaggio dell’umanità” o come “patrimonio comune” nei trattati ricordati nella nota che precede è stata proposta da D.E. Marko, A Kinder, Gentler Moon Treaty: a Critical Review of the Treaty and proposed Alternative, in “Journal of Natural Resources and Environmental Law”, 1992. Si ricordi inoltre l’istituzione di un “Dividendo globale delle risorse” proposta da Thomas Pogge, Povertà mondiale cit., cap. 8, pp. 234-255, che per quanto modesto basterebbe a fronteggiare i terribili problemi delle malattie e della fame nel mondo. La stessa tassazione è stata di recente proposta anche da J.E. Stiglitz, Aiuto! Giustizia e sussidi internazionali (2018), tr. it. di R. Arrigoni, Castelvecchi, Roma 2018, pp. 15-18, che propone, oltre alla tassazione globale delle licenze di pesca, dei satelliti orbitanti e delle estrazioni petroliferi nei fondali oceanici, una tassa sulle emissioni dei gas serra, responsabili dell’inquinamento atmosferico, e di multe adeguate per i paesi che superino i livelli di emissione consentiti. Nello stesso testo Stiglitz propone anche la cancellazione del debito insostenibile dei paesi poveri (ivi, p. 33-35). Stiglitz propose inoltre il pagamento ai paesi poveri di un’indennità per la conservazione – anziché il consumo, come sarebbe nella logica del mercato – di beni fondamentali come le foreste e la biodiversità, indispensabili per salvaguardare gli equilibri ecologici del pianeta (Sostenere lo sviluppo salvando il pianeta, in “La Repubblica” del 15.6.2005, pp.1 e 19).
potenti, sono state scatenate dall’Occidente: in Iraq nel 1991, nella ex Jugoslavia tra il 1995 e il 1999, in Afghanistan nel 2001, di nuovo in Iraq nel 2003, contro la Libia nel 2011, fino alla recente guerra in Siria, che ha provocato mezzo milione di morti.
Anche se non giustiziabili, per la mancata ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale da parte degli Stati che ne sono i responsabili, queste guerre sono state quanto meno dei crimini di sistema24. Non basta infatti a legittimarle l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu invocata a sostegno di taluna di esse. Se distinguiamo tra l’Organizzazione delle Nazioni Unite come soggetto e la medesima Organizzazione come ordinamento, non si può dire che quelle guerre furono “autorizzate dall’Onu”, ma solo che lo furono dal Consiglio di Sicurezza, che dell’Onu è l’organo di governo, ovviamente sottoposto alla Carta statutaria che lo prevede e che fa esplicito divieto delle guerre di aggressione. Di più: quell’“autorizzazione” equivale a un paradossale fallimento storico dell’Onu, dato che con essa il Consiglio di Sicurezza non solo si è reso corresponsabile delle guerre autorizzate, ma ha contraddetto e ribaltato il ruolo di garante della pace per il quale l’Onu è stata istituita. Neppure quelle guerre possono essere configurate come legittima difesa, consistendo tale difesa nella risposta a un attacco armato in atto. Fu d’altro canto un enorme regalo al terrorismo jihadista la definizione come “atti di guerra” dei suoi crimini, a cominciare dalla strage dell’11 settembre 2001, che ha trasformato delle bande di assassini nell’avanguardia belligerante di centinaia di milioni di credenti. La guerra, secondo la classica definizione di Alberico Gentili, è infatti una “publicorum armorum contentio”25, cioè un conflitto tra Stati, e precisamente tra eserciti pubblici, consistenti in forze statali come tali riconoscibili. Ma è proprio come guerra, e precisamene come “guerra santa”, che i jihadisti, concepiscono e legittimano i loro assassinii e la loro ferocia. La risposta a tali crimini con la guerra, anziché con una ben più efficace e certo più difficile azione di polizia coordinata a livello internazionale, oltre ad aver provocato centinaia di migliaia di vittime innocenti, ha così annullato il principale fattore deterrente e delegittimante del terrorismo, che è l’asimmetria tra istituzioni politiche e criminalità, dato che ha elevato questa al livello di quelle o, che è lo stesso, ha abbassato le prime al livello della seconda, così gettando benzina sul fuoco e facendo divampare il terrorismo in forme ben più feroci e in dimensioni enormemente maggiori.
Oggi le guerre sono assai più spaventose di quelle del passato, se non altro per gli armamenti incomparabilmente più micidiali da esse impiegati e per il loro carattere di guerre dal cielo, le cui vittime sono sempre più tra le sole popolazioni civili dei paesi aggrediti. Finché non saranno effettivamente punite come crimini dal diritto penale internazionale, esse sono i crimini di sistema per antonomasia. Colpiscono popoli interi: non solo i popoli aggrediti, ma anche i popoli mandati in guerra dagli Stati aggressori. Con la guerra, infatti, lo Stato nega la dignità di persone degli appartenenti al suo popolo, riducendoli a cose, cioè a strumenti per fini non loro.
24 Sulla critica giuridica di queste guerre, rinvio alla mia raccolta di scritti Razones jurídicas del pacifismo, tr. sp. a cura di G. Pisarello, Editorial Trotta, Madrid 2004. 25 A. Gentili, De iure belli libri tres (1588), a cura di J. Brown Scott, At the Clarendon Press, Oxford 1933, lib. I, cap. I, p. 12.
“Quale diritto ha lo Stato”, si chiese Kant, “di servirsi dei suoi propri sudditi per muover guerra ad altri Stati, di impiegare e di mettere così in gioco i loro beni e anzi la loro vita stessa?” La risposta kantiana è che tale diritto altro non è che il “diritto di poter fare del suo (della sua proprietà) tutto ciò che si vuole”, cioè l’assurda pretesa del sovrano di ridurre il “suo” popolo e i “suoi propri sudditi” a una “sua proprietà incontestabile…. Come dunque si può dire delle piante (per esempio delle patate) e degli animali domestici che essi… si possono adoperare, consumare e distruggere, così sembra che si possa attribuire al potere supremo dello Stato, al sovrano, il diritto di condurre i suoi sudditi… alla guerra come alla caccia, al combattimento come a una partita di piacere”26. La guerra, concluse Kant, oltre alle vittime provocate tra i popoli nemici, offende anche la dignità dei cittadini chiamati alle armi, da essa sotto-posti a un dominio che “non si applica assolutamente all’uomo, principalmente come cittadino, il quale deve sempre essere considerato come un membro del potere legislativo (come colui che non è solo un mezzo, ma anche nello stesso tempo un fine in sé)”27. E’ perciò intrinsecamente anti-democratica, dato che con essa sia il popolo mandato in guerra che quanti ne fanno parte sono ridotti a cose, in violazione della prima massima kantiana della morale secondo cui nessun essere umano “deve mai essere trattato come un puro mezzo in servizio dei fini di un altro ed essere confuso cogli oggetti del diritto reale”28.
Si manifesta inoltre, in questa duplice lesione, la negazione di un altro classico fondamento filosofico-politico del rifiuto della guerra: la negazione del paradigma contrattualistico dell’artificio istituzionale secondo il quale la guerra contraddice la ragione d’essere – la tutela della vita – del diritto e delle istituzioni politiche. Sotto questo aspetto, la guerra è assimilabile alla pena di morte, anch’essa in contrasto con la garanzia della vita che è la ragion d’essere del patto sociale. Rifiuto della pena di morte e rifiuto della guerra hanno infatti lo stesso fondamento. Se è vero, come scrisse Beccaria, che la pena di morte “è una guerra della nazione con un cittadino”29, è ancor più vero il contrario: la guerra è una pena di morte di massa inflitta, per di più in maniera indiscriminata, a persone innocenti. E questo vale più che mai per le guerre odierne, equivalenti a centinaia di migliaia di pene di morte irrogate senza colpe e senza processo soprattutto alle popolazioni civili. Per questo la guerra, più ancora della pena di morte, equivale alla rottura del contratto sociale, cioè di quel patto di convivenza pacifica che fu stipulato con la Carta dell’Onu e rispetto al quale si configura sempre come un’eversione violenta. Per questo essa è il massimo crimine contro i popoli e contro l’umanità, come tale previsto, quale “crimine di aggressione”,
26 I. Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Id., Scritti politici cit., § 55, pp. 535-536. Si confrontino, a riprova delle valenze totalitarie di ogni statalismo etico, questi passi di Kant con i penosi passi hegeliani che esaltano il “valore militare” come “la più alta astrazione della libertà” e “l’autonomia suprema dell’essere per sé” (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., §§ 327-328, pp. 277-278), o peggio la “guerra” come il “mezzo” con cui “la salute etica dei popoli è conservata” (ivi, § 324, p. 275). 27 I. Kant, Principi cit., p. 537. 28 Ivi, parte II, sezione I, § 49, E, pp. 520-521. 29 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. di Livorno del 1766, a cura di Franco Venturi, Einaudi, Torino (1961), 5° ed. 1981, § XXVIII, p. 62.
dal già citato statuto della Corte penale internazionale, pur se tuttora ibernato a causa del sabotaggio degli Stati che non l’hanno approvato o ratificato: perché viola non solo il diritto alla vita di masse sterminate di innocenti, ma anche la natura e la ragione stessa del diritto, che consiste nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile. Tanto più che le guerre odierne, al pari del terrorismo jiadista, sono sostanzialmente guerre civili – nel loro insieme, una sorta di guerra civile globale – che colpiscono soprattutto popolazioni inermi e la cui messa al bando equivarrebbe all’uscita dal bellum omnium, per di più vitualmente nucleare, che sta minacciando la sopravvivenza di tutti.
In questa prospettiva, la prima garanzia della pace, che varrebbe a fare del diritto internazionale un ordinamento giuridico effettivo, dovrebbe consistere nell’attuazione del monopolio giuridico della forza in capo alla sfera pubblica per le sole funzioni di polizia e, a livello internazionale, in capo al Consiglio di Sicurezza, in accordo con il capo VII della Carta delle Nazioni Unite. Si realizzerebbe così – contro l’illusoria e insensata volontà di potenza degli Stati, collusa con gli interessi delle industrie di armi che delle spese miliari sono i soli beneficiari – l’effettiva civilizzazione della comunità internazionale e il conseguente, progressivo superamento, già auspicato da Kant più di due secoli fa30, di tutti gli eserciti nazionali, che rappresentano oggi una permanente minaccia alla pace esterna ed anche, come hanno provato i tanti colpi di stato militari degli ultimi cento anni, alle democrazie interne. La seconda e ancor più decisiva garanzia primaria contro la guerra e a tutela della vita – ma anche contro il terrorismo e la grande criminalità organizzata – è la qualificazione di tutte le armi, con l’ovvia eccezione di quelle affidate alla sfera pubblica per le funzioni di polizia, come beni illeciti, cioè come beni sottoposti al divieto penale della loro detenzione e, ancor prima, del loro commercio e della loro produzione. Sarebbe questa certamente, ben più di tutti gli inasprimenti punitivi promossi dal populismo penale, la più efficace garanzia, oltre che della pace e della sicurezza mondiale, della vita e della sicurezza non solo contro le guerre ma anche contro la criminalità e il terrorismo.
Frattanto, fin a che non saranno realizzate queste due garanzie, vanno configurati come crimini di sistema gli armamenti nucleari, che pesano come una permanente minaccia sul futuro dell’umanità. Oggi, nel mondo, ci sono 14.525 testate nucleari, in possesso di nove paesi: 6.850 in Russia, 6.450 negli Stati Uniti, 300 in Francia, 280 in Cina, 215 nel Regno Unito, 150 in Pakistan, 140 in India, 80 in Israele e 60 nella Corea del Nord31. Il numero più elevato di testate nucleari, 69.940, fu raggiunto nel
30 “Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo interamente scomparire. E ciò perché minacciano incessantemente gli altri Stati con la guerra, dovendo sempre mostrarsi armati a tale scopo, ed eccitano gli altri Stati a gareggiare con loro in quantità di armamenti in una corsa senza fine: e siccome per le spese a ciò occorrenti la pace diventa da ultimo ancor più oppressiva che non una guerra di breve durata, così tali eserciti permanenti diventano essi stessi la causa di guerre aggressive, per liberarsi da questo peso. A ciò si aggiunga che assoldare uomini per uccidere e per farli uccidere è, a quel che sembra, fare uso di uomini come di semplici macchine e di strumenti nelle mani di un altro (dello Stato), il che non può conciliarsi col diritto dell’umanità nella propria persona” (Kant, Per la pace perpetua cit., sez. I, § 3, p. 285).
31 Sono i dati dell’agosto 2018, riportati in https://it.businessinsider.com/ci-sono-circa-14.525-
1986, al culmine della guerra fredda. Poi quel numero è progressivamente diminuito, a seguito del trattato tra Reagan e Gorbaciov del 1987 (Intermediate-Range Nuclear Treaty [Inf]), che segnò il disgelo tra i blocchi e la fine della guerra fredda. Il 2 agosto 2019, tuttavia, gli Stati Uniti, su decisione del loro presidente, si sono ufficialmente ritirati da quel trattato, e il loro esempio è stato seguito dalla Russia. Si è così riaperta la corsa agli armamenti, a beneficio delle lobby dei produttori di armi e a dispetto del Trattato sul disarmo votato un anno prima, il 7 luglio 2017, da ben 122 paesi, cioè dai due terzi dei membri dell’Onu32. La sopravvivenza dell’umanità è così messa, da questi crimini di sistema, costantemente in pericolo. Dobbiamo infatti essere consapevoli che in un mondo popolato da migliaia di testate nucleari è stato solo per un miracolo che taluna di queste non sia ancora caduta nelle mani di una banda terroristica o che, in qualcuno degli Stati che ne sono in possesso, il potere non sia stato conquistato da un pazzo.
Ma la garanzia della vita richiede la messa al bando come beni illeciti di tutte le armi, anche di quelle non da guerra, la cui produzione, il cui commercio e la cui detenzione vanno parimenti configurati come crimini di sistema. Ogni anno, nel mondo, muoiono milioni di persone a causa della diffusione delle armi: nel solo 2017 si sono consumati 464.000 omicidi, per la maggior parte con armi da fuoco, e sono morte centinaia di migliaia di persone nelle tante guerre che infestano il pianeta; senza contare i numeri altissimi dei suicidi e degli infortuni causati dall’uso di armi da fuoco. Ebbene, questo assurdo massacro è in gran parte dovuto alla facilità di acquisto e all’enorme diffusione di tali armi. Basti pensare alla differenza abissale tra il numero degli omicidi all’anno in paesi nei quali il possesso di armi da fuoco è generalizzato e tutti si armano per paura e quello nei quali quasi nessuno va in giro armato: sempre nel 2017, gli omicidi sono stati 63.000 in Brasile, 29.168 in Messico, 17.284 negli Stati Uniti e soltanto 367, di cui 123 femminicidi, in Italia33 dove quasi nessuno è in possesso di armi e dove la percezione dell’insicurezza, incomparabilmente maggiore che in passato quando ben maggiore era il numero degli
armi- nucleari-oggi-negl-arsenali-di-9-nazioni. All’inizio del 2019 questo numero è sceso a 13.865 (https://www.askanews.it/esteri/2019/06/17/rapporto-sipri-meno-armi-nucleari-nel-mondo-ma-più-potenti). 32 Il Trattato sul disarmo fa divieto di “sviluppare, testare, produrre, acquisire o possedere armi nucleari”, nonché di “trasferirle a qualsiasi destinatario” e perfino di “consentire qualsiasi dislocazione, installazione o diffusione di armi nucleari sul proprio territorio”. Il Trattato prevede la sua entrata in vigore 90 giorni dopo la sua formale ratifica da parte di almeno 50 paesi. Ovviamente non è stato sottoscritto da nessuno degli Stati dotati di armi nucleari e neppure dai paesi, come l’Italia, nei cui territori armamenti nucleari altrui si trovano dislocati. Ma proprio la sua sottoscrizione da parte della grande maggioranza dei paesi della comunità internazionale vale a rendere ancor più clamoroso il carattere criminale della minaccia nucleare proveniente dalla minoranza dei paesi che non solo non l’hanno sottoscritto ma hanno posto fine al trattato di pace globale del 1987 e ripreso la corsa folle agli armamenti nucleari. 33 A causa della diffusione delle armi, l’America è il continente dove il numero degli omicidi è più alto: 17,2 persone ogni 100.000 abitanti. Minore è il numero degli omicidi in Africa, dove vengono uccise 13 persone su 100.000, ancor meno in Asia, dove in media vengono assassinate meno di 3 persone ogni 100.000 abitanti. Il numero più basso è in Europa, dove viene assassinata in media 1 una persona ogni 100.000 abitanti.
omicidi, si spiega solo con il fatto che i fatti di violenza vengono oggi raccontati tutti in televisione generando la sensazione che viviamo nella giungla. Una campagna contro le armi dovrebbe perciò muovere dal riconoscimento di un fatto elementare: questa diffusione delle armi e il terribile pericolo che ne consegue per la pace e la sicurezza sono il segno che non si è compiuto, neppure all’interno degli Stati nazionali – non, certamente, in quelli nei quali chiunque può acquistare un’arma micidiale, e meno che mai nella comunità internazionale – il disarmo dei consociati e il monopolio pubblico della forza teorizzati quattro secoli fa da Thomas Hobbes come le condizioni del superamento dello stato di natura e del passaggio allo stato civile. Non si spiega d’altro canto, se non con i pesanti condizionamenti esercitati sulla politica dei nostri governi dagli apparati militari e dalle lobby dei produttori di armi, perché le armi non siano vietate come beni illeciti, almeno come le droghe, ne cives ad arma veniant. Diversamente dalle droghe, nocive per chi ne fa uso, le armi sono destinate ad uccidere terzi innocenti. Soprattutto, poi, le droghe si producono e si commerciano facilmente, sicché il loro proibizionismo si è risolto nella loro consegna al monopolio criminale, unitamente a una paradossale liberalizzazione della loro offerta criminale, giorno e notte in tutte le città, grazie al coinvolgimento nel loro spaccio dei tossicodipendenti. Il divieto delle armi sarebbe invece assai più efficace: le armi non si coltivano come le droghe e certamente non sarebbe facile la loro produzione clandestina.
7. C) Un apartheid mondiale. I morti per fame e per malattie non curate. Per un garantismo sociale globale – La terza classe di crimini di sistema, corrispondente a una terza emergenza planetaria, è formata da due sottoclassi. La prima consiste in crimini commissivi, cioè nelle pratiche politiche che hanno provocato la povertà estrema di 736 milioni di persone che vivono al di sotto del minimo vitale, cioè con meno di 1,90 dollari al giorno34, e lo stato di indigenza della metà della popolazione mondiale35. La seconda sottoclasse consiste in crimini omissivi, cioè nella mancata introduzione delle garanzie e delle relative funzioni e istituzioni di garanzia dei diritti sociali – del diritto alla salute, del diritto all’istruzione, dei diritti alla sussistenza – pur stabiliti nelle tante carte internazionali dei diritti umani e, in particolare, nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali stipulato a New York il 16 dicembre 1966.
E’ chiaro che la garanzia di tali diritti contro questo duplice ordine di crimini di sistema non può avvenire senza la costruzione, ad opera della politica e del diritto, di funzioni e di istituzioni sovranazionali di garanzia in tema di salute, di istruzione e di
34 Nel 2015 le persone in questo stato erano 735 milioni e 900.000. La maggioranza di costoro, 413,3 milioni, vivono nell’Africa subsahariana; 216,4 nell’Asia meridionale; 47,2 in Asia orientale; 25,9 in America Latina; 18,6 in Medio Oriente e in Nord-Africa; 7,1 in Europa e in Asia Centrale. (https://www.truenumbers.it/povertà-nel-mondo). 35 Secondo il rapporto Oxfam 2029, il 46% della popolazione mondiale vive con un reddito inferiore ai 5,50 dollari al giorno.
sussistenza, e perciò di una sfera pubblica distinta dalle sfere private del mercato. Questa ovvietà vale chiaramente a livello statale, ove le garanzie dei diritti sociali sono state introdotte con la creazione di funzioni e di istituzioni amministrative di garanzia primaria – le scuole, le università, gli ospedali, gli enti di previdenza e di assistenza – deputate alla loro soddisfazione. Ma vale parimenti a livello internazio-nale, dove invece, alla stipulazione dei diritti sociali nelle tante carte dei diritti, dalla Dichiarazione universale del 1948 ai Patti del 1966, non ha fatto seguito nessuna norma di attuazione volta a introdurre le correlative garanzie sociali e le relative funzioni e istituzioni internazionali di garanzia.
Questi diritti sono perciò rimasti sulla carta, ineffettivi e violati, come provano le decine di milioni di morti ogni anno per fame, per mancanza di acqua potabile e per malattie non curate. Sono 821 milioni, un abitante del pianeta su nove, le persone che nel 2017 hanno sofferto la fame e la sete, con la conseguente morte ogni anno di milioni di persone – 7.000 bambini al giorno – per mancanza dell’acqua e dell’alimentazione di base provocata da inquinamenti e carestie. Non meno drammatica è la situazione della salute. 5 milioni e 400.000 bambini con meno di cinque anni muoiono ogni anno per malattie facilmente curabili36 ma non curate per mancanza dei farmaci necessari: vittime del mercato, oltre che delle malattie, dato che i farmaci in grado di curarli sono brevettati, e quindi inaccessibili, o peggio non sono più prodotti né distribuiti per mancanza di domanda nei paesi ricchi dove le relative malattie – tubercolosi, malaria, infezioni respiratorie, Aids – sono pressoché scomparse perché debellate37. Questi farmaci sono anche chiamati “farmaci orfani”, perché orfani della loro attuale ragion d’essere che è evidentemente e solamente il profitto.
Queste tragedie non sono catastrofi naturali, ma il risultato di crimini omissivi di sistema. Oggi, nel mondo, 2 miliardi di persone sono sovrappeso e 650 milioni sono obese, mentre 821 milioni sono denutrite e più di un terzo del cibo prodotto, sufficiente a sfamare metà della popolazione mondiale, viene distrutto dallo spreco e dalla sovra-produzione. Al tempo stesso, lo sviluppo degli allevamenti industriali e della mega-industria alimentare rappresentano la più grave minaccia all’ecosistema. L’industria agro-alimentare, controllata da non più di dieci potenze multi-nazionali, consuma circa il 70% dell’acqua disponibile sulla terra; è la maggiore responsabile del suo inquinamento e della sua dissipazione; sottopone ogni anno il 25% delle superfici terrestri a processi di sterilizzazione e degradazione; contribuisce, con il consumo di energia petrolifera e la produzione di gas serra generato dagli allevamenti intensivi, al riscaldamento climatico nella misura del 18%; erode massicciamente la biodiversità; produce cibi talora dannosi per la salute; infine realizza i suoi immensi profitti grazie allo sfruttamento selvaggio di milioni di braccianti, in prevalenza
36 http://www.fao.org/news/story/it/item/1152149/icode/
37 Sono i dati sulla fame, sulla sete e sulla mancanza di farmaci essenziali riportati in Nuovi dati FAO sulla fame nel mondo: uno scandalo che continua in http://wwww.oxfamilia.org/dal-mondo/nuovi-dati-sulla-fame-nel-mondo, in I dati sulla fame nel mondo in http://www. lonweb.org/hunger/hung-ita-eng.htm e in Accesso ai farmaci, in www.unimondo.org/ Guide/Salute/Accesso-ai-farmaci.
migranti fuggiti dalla miseria, dalla fame, dalle guerre e dagli sconvolgimenti climatici dei loro paesi e costretti a lavorare senza tutele in condizioni di vita para-schiavistiche38. L’alternativa a questo modello distruttivo e dissennato di produzione agricola è l’agricoltura ecologica e biologica, che è venuta sviluppandosi in questi anni39. Si tratta di realizzarla a livello globale, nella misura necessaria a soddisfare il diritto all’alimentazione di tutti stabilito dall’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Non meno drammatico, a livello globale, è il problema della sanità. Nel 1977 l’Organizzazione Mondiale della Sanità formulò un elenco di quelli che definì “farmaci essenziali” o “salva-vita” perché “soddisfano i bisogni sanitari della mag-gior parte della popolazione e devono quindi essere disponibili in ogni momento in quantità sufficiente e nella forma farmaceutica appropriata”. L’anno dopo, nella Conferenza di Alma Ata del 1978, fu enunciato il principio dell’accesso universale a tali farmaci – allora poco più di 200, oggi 460 – e il conseguente obbligo di garantirne la distribuzione in tutto il mondo con le parole “salute per tutti entro il 2000” e con l’impegno della sconfitta, nella stessa data, di tutte le malattie infettive. Queste promesse non sono state mantenute. Oggi sono milioni ogni anno le vittime di malattie infettive e tropicali, quasi tutte, tra il 98 e il 99%, nei paesi poveri nei quali ci si ammala assai più che nei paesi ricchi essendo le malattie, soprattutto quelle infettive, provocate dalle condizioni di miseria in cui vivono gran parte delle popo-lazioni, dalla mancanza di farmaci salva-vita e dall’assenza di qualunque forma di prevenzione igienica e sanitaria, a cominciare dai vaccini.
Siamo perciò in presenza di una gigantesca omissione di soccorso che si aggiunge al crimine consistente nelle politiche di rapina e sfruttamento a causa delle quali centinaia di milioni di persone vivono e muoiono in condizioni di indigenza. La stigmatizzazione di tali fenomeni come “crimini di sistema” può forse contribuire alla maturazione, nel dibattito pubblico, della consapevolezza della necessità e dell’urgenza di politiche dirette a impedirli, non già semplicemente tramite aiuti contingenti su base volontaria, ma con la creazione di stabili funzioni e istituzioni globali di garanzia. Se prendiamo il diritto e i diritti sul serio, questa carenza di
38 E’ lo stato della grande industria agricola lucidamente descritto da P. Bevilacqua, Il cibo e la terra. Agricoltura, ambiente e salute negli scenari del nuovo millennio, Donzelli, Roma 2018, Introduzione, pp. 7-24. Si veda, in particolare, l’importante capitolo III, intitolato “Trionfo e declino dell’agricoltura industriale” sugli effetti dannosi, per il terreno e anche per la salute, del sovra-sfruttamento dei suoli e dell’uso massiccio e sconsiderato, in questi ultimi decenni, dei concimi artificiali, dei fertilizzanti chimici, dei pesticidi, dei diserbanti e degli organismi geneticamente modificati, nonché sulla necessità di imporre un limite all’assurda “furia produttivistica” dell’agricoltura industriale, che produce cibo in eccesso destinato in gran parte alla distruzione, e sulle prospettive aperte dall’agricoltura biologica e biodinamica. Si veda anche, J. Attali, Cibo. Una storia globale dalle origini al futuro, tr. it. di R. Antoniucci, Ponte alle Grazie, 2020, Milano, soprattutto gli ultimi capitoli. 39 P. Bevilacqua, op. cit., pp. 24-31, che rileva il ruolo centrale svolto dall’Italia in questo rinnovamento ecologico della produzione del cibo e ricorda, in particolare, le vicende di Slow Food illustrate da C. Petrini, Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Einaudi, Torino 2005 e da Id. e G. Padovani, Slow Food. Storia di un’utopia possibile, Giunti-Slow Food, Firenze 2017.
garanzie e delle relative funzioni e istituzioni equivale infatti a una vistosa lacuna: non già a una semplice lesione di principi etico-politici, bensì a una inadempienza giuridica, un crimine di sistema appunto, in violazione del diritto alla salute proclamato in tante carte internazionali, la cui ineffettività strutturale rischia di compromettere il futuro della pace e la credibilità di tutti i nostri conclamati principi in tema di diritti umani, di legalità e di democrazia.
L’insensatezza di questa vistosa lacuna e delle politiche che ne sono responsabili è resa evidente dai terribili effetti di questo apartheid mondiale: i crescenti flussi migratori, l’odio crescente per l’occidente, il discredito dei suoi valori politici, lo sviluppo della violenza, del crimine organizzato, delle guerre civili, dei razzismi, dei fondamentalismi e dei terrorismi. Ma è resa ancor più assurda dalla facilità con cui questa lacuna di garanzie e la povertà estrema di masse sterminate di esseri umani potrebbero essere superate con vantaggio di tutti, inclusi i paesi ricchi. La maggior parte dei farmaci essenziali o salva-vita, come i vaccini contro la poliomelite, il morbillo e la difterite, che provocano ogni anno più di un milione di morti, non costano quasi nulla. Più in generale, la spesa necessaria a soddisfare i minimi vitali e a togliere miliardi di persone dalla miseria sarebbe bassissima. “La povertà nel mondo”, ha scritto Thomas Pogge, “è molto più grande, ma anche molto più piccola di quanto pensiamo… La sua eliminazione non richiederebbe più dell’1% del prodotto globale”40: precisamente l’1,13% del Pil mondiale, circa 500 miliardi di dollari l’anno, meno del bilancio annuale della difesa dei soli Stati Uniti. Basterebbero una modesta redistribuzione della ricchezza a livello globale e lo sviluppo di una sfera pubblica all’altezza dei grandi poteri economici e finanziari per levare dalla miseria metà della popolazione mondiale e porre termine, nell’interesse di tutti, a queste catastrofi umanitarie.
La garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione sarebbe d’altro canto un sicuro fattore di sviluppo dei paesi poveri, con conseguente beneficio – la pace, la stabilità politica, la riduzione e la sdrammatizzazione delle migrazioni, una crescita economica equilibrata – anche per i paesi ricchi. Nei paesi avanzati, la salute e l’istruzione di massa sono stati il grande motore dello straordinario sviluppo, senza precedenti nella storia, non solo della scienza e del progresso tecnologico, ma anche della produzione economica e del miglioramento delle condizioni di vita delle persone. A cominciare dalla seconda metà dell’Ottocento e poi durante tutto il Novecento, è stato debellato l’analfabetismo – dapprima in Europa e in America, poi in Asia – e si è sviluppata un’istruzione di massa, prima elementare, poi media e professionale e poi universitaria. Ne è seguita una crescita esponenziale del sapere e della ricerca scientifica in tutti i settori della conoscenza che è stata a sua volte un fattore decisivo dello sviluppo tecnologico. Si pensi alla medicina, alla fisica, alla genetica e all’informatica e al loro crescente sviluppo grazie al lavoro di un numero di ricercatori incomparabilmente più alto delle poche centinaia o migliaia di non più di due secoli fa. E’ chiaro che la sconfitta della miseria, della fame, delle malattie prevenibili e curabili e dell’analfabetismo consentirebbe, anche nei paesi più poveri
40 T. Pogge, Povertà mondiale cit., p. 304.
del mondo, la crescita non soltanto civile, ma anche politica, economica e culturale. La fame e le malattie non curate, a causa delle quali muoiono ogni anno milioni di persone, non sono solo una catastrofe umanitaria. Sono anche il segno e la principale ragione del mancato sviluppo economico di gran parte del pianeta. Come si spiega allora l’inerzia della politica di fronte alle catastrofi umanitarie qui ricordate? Si spiega principalmente con due aporie che affliggono la democrazia politica, determinate entrambe dall’odierna globalizzazione, l’una legata al rapporto tra democrazia e spazio, l’altra al rapporto tra democrazia e tempo. La democrazie rappresentative sono nate e restano tuttora ancorate agli Stati nazionali. Sono perciò vincolate ai tempi brevi, anzi brevissimi, delle competizioni elettorali, o peggio dei sondaggi, e agli spazi ristretti dei territori nazionali: tempi brevi e spazi angusti che evidentemente rendono irrilevanti le emergenze planetarie ai fini del consenso e perciò impediscono ai governi statali politiche all’altezza delle sfide e dei problemi globali. Quelli che ho chiamato “crimini di sistema” – la fame e le malattie non curate, al pari delle devastazioni ambientali e della minaccia nucleare – sono così ignorati dalle nostre opinioni pubbliche e dai governi nazionali e non entrano a far parte della loro agenda politica, interamente ancorata ai ristretti orizzonti nazionali disegnati dalle vicende elettorali. E’ la conferma drammatica della necessità che questi orizzonti della politica e della democrazia vengano finalmente allargati da un costituzionalismo globale, in grado di far fronte a queste catastrofi che sono una minaccia per il futuro dell’umanità.
8. D) Le fughe dei migranti dai crimini di sistema. La questione migranti come banco di prova della tenuta del costituzionalismo – Da queste catastrofi fuggono ogni anno centinaia di migliaia di migranti. All’ignoranza e all’indifferenza per le ragioni della loro fuga si aggiunge oggi l’aperta ostilità nei loro confronti dei nostri governi, soprattutto quando prendono il sopravvento, come è avvenuto in Europa e negli Stati Uniti, i demagoghi portati al potere dai populismi identitari e sovranisti. E’ un’ostilità che si spiega con un tratto distintivo dei populismi: il rifiuto dei diversi, percepiti come nemici o come inferiori, che nei confronti degli stranieri di colore e dei migranti assume le forme del razzismo. Il razzismo, scrisse Michel Foucault, consiste nell’“introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire”: è “la condizione dell’accettabilità della messa a morte” di una parte dell’umanità41. In tanto le opinioni pubbliche dei paesi ricchi possono ignorare l’apartheid mondiale di una parte rilevante dell’umanità e perfino applaudire le politiche e le misure che provocano la morte di migliaia di migranti che tentano la fuga dalla miseria e dalle guerre e vengono respinte ogni anno alle nostre frontiere, in quanto queste persone vengono percepite come aliene, inferiori, pericolose e
41 M. Foucault, Corso del 17 marzo 1976, in Id., “Bisogna difendere la società” (1997), tr. it. di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 200 e 221.
nemiche, e perciò negate come persone sulla base di un’antropologia razzista della disuguaglianza.
Vengo così alla quarta classe di crimini di sistema: le politiche e le misure di esclusione adottate in questi anni contro i migranti, in fuga dagli altri nostri crimini di sistema. Anche in questo caso siamo in presenza di un doppio ordine di crimini. Dopo secoli nei quali i loro territori sono stati depredati da invasioni e colonizzazioni, i migranti fuggono dalle condizioni di non vivibilità generate dalle politiche dei paesi ricchi e rischiano la vita nel tentativo di raggiungere i nostri paesi dove sono vittime di razzismi, discriminazioni, sfruttamento ed espulsioni a causa delle loro identità etniche o religiose e comunque del loro status di stranieri poveri. E’ in atto un silenzioso massacro: dal gennaio 2013 al 30 settembre 2019 sono stati più di 19.000 i migranti affogati nel Mediterraneo nel tentativo di sbarcare in Europa42. Anche questi eccidi non sono disastri naturali. Sono crimini di sistema, benché non siano punibili come reati le politiche e le leggi che li hanno provocati. Essi ci pongono di fronte alla più stridente contraddizione tra i principi costituzionali che informano le nostre democrazie e le politiche di esclusione messe in atto dai nostri governi. Va ricordato che il diritto di emigrare fu il primo diritto naturale teorizzato dalla nostra filosofia politica: dapprima da Francisco de Vitoria, quale fonte di legittimazione della conquista spagnola del “nuovo” mondo, e poi da John Locke, quale condizione della sopravvivenza delle persone grazie alla possibilità di andare a coltivare “gli incolti deserti dell’America”. Da allora esso divenne un principio del diritto internazionale consuetudinario a sostegno delle colonizzazioni, fino ad essere codificato nella Dichiarazione universale del 1948, nel Patto sui diritti civile e politici del 1966 e in molte costituzioni, inclusa quella italiana. I nostri governi ignorano le violazioni di questi principi ad opera delle loro politiche di respingimento, di discriminazione e di espulsione dei migranti. Ignorano anche il carattere strutturale e irreversibile, perché frutto della globalizzazione selvaggia, del fenomeno migratorio, che né le leggi, né i muri né le polizie di frontiera saranno mai in grado di fermare e i cui soli effetti – e per i governanti populisti anche lo scopo, in considerazione del consenso di massa così ottenuto – sono la clandestinizzazione dei migranti, il veleno razzista immesso nella società, l’abbassamento dello spirito pubblico e il crollo del senso morale a livello di massa. Quando infatti la disumanità e l’immoralità sono esibite e ostentate dalle istituzioni diventano contagiose: si auto-legittimano e vengono assecondate e alimentate.
42 http://www.vita.it./it/article/2019/10/03/dal-2013-al-2019-oltre-19-mila-migranti-morti-nel-Mediterraneo. Sull’illegittimità di queste politiche la letteratura è sterminata. Mi limito a richiamare E. Vitale, Jus migrandi. Figure di erranti al di qua della cosmopoli, Bollati Boringhieri, Torino 2004; L. Manconi, V. Brinis, Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati, Il Saggiatore, Milano 2013; T. Mazzarese, Diritto di migrare e diritti dei migranti. Una sfida del costituzionalismo (inter-)nazionale ancora da superare, in “Diritto, immigrazione e cittadinanza”, 2020, I, pp. 1-23; P. Bonetti, Migrazioni e stranieri di fronte alla Costituzione: una introduzione, in “Diritto costituzionale”, 2/2020, pp. 13-79; M. Giovannetti, N. Zorzella (a cura di), Ius migrandi. Trent’anni di politiche e legislazione sull’immigrazione in Italia, Franco Angeli, Milano 2020.
In Italia, in particolare, nei 14 mesi del governo formato tra il giugno 2018 e l’agosto 2019 dalla Lega e dal Movimento 5 stelle, sono state adottate, dall’allora ministro dell’interno, una lunga serie di misure immorali, disumane e illegali che hanno fornito un’eloquente anticipazione dei “pieni poteri” da lui rivendicati ove si fosse impossessato del governo: la preordinata omissione di soccorso, la chiusura dei porti, lo spettacolo penoso delle navi lasciate vagare in mare e impedite all’approdo con i loro carichi sofferenti di centinaia di naufraghi da esse tratti in salvo e le innumerevoli violazioni del diritto interno e del diritto internazionale: dalle norme della Convenzione di Amburgo del 1979, che impone di portare i naufraghi in un “porto sicuro”, al Testo Unico sull’immigrazione del 1998, che vieta i respingimenti di quanti intendono chiedere asilo oltre che dei minori non accompagnati e delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto, fino al principio elementare del diritto del mare e delle tradizioni marinare di tutti i paesi civili che chi rischia la vita in mare deve essere comunque salvato.
Si è così prodotto un salto di qualità del populismo in tema di sicurezza che ha assunto forme ben più odiose di quelle del vecchio populismo penale. Il tradizionale e tuttora corrente populismo penale fa leva sulla paura per la criminalità di strada, cioè per un fenomeno enfatizzato ma pur sempre illegale, onde ottenere consenso a misure inutili e demagogiche, come l’inasprimento delle pene, ma pur sempre giuridicamente legittime. Il nuovo populismo securitario, al contrario, ribaltando il senso delle parole, fa leva sulla denigrazione di chi salva eroicamente vite umane, al fine di ottenere il consenso popolare a misure illegali come la chiusura dei porti, l’omissione di soccorso e addirittura la criminalizzazione del salvataggio dei naufraghi. Di qui il mutamento del senso comune e la corruzione dello spirito pubblico prodotti dall’ostentazione istituzionale, onde ottenere consenso, sia dell’immoralità che dell’illegalità, esibite e rivendicate come diritto valido e vincolante contro chi, come Carola Rakete, ad esse disobbediva43.
Per questo la questione migranti si sta oggi rivelando la questione di fondo sulla
43 L’irresponsabilità per queste illegalità è stata apertamente avallata dal voto del 19 febbraio 2019 con cui il Senato italiano ha negato l’autorizzazione a procedere contro il ministro dell’interno per il reato di sequestro di persona. Questa negazione non è stata motivata dalla supposta esistenza di un qualche fumus persecutionis o comunque, come di solito avviene, dalla tesi dell’inesistenza del reato contestato. Al contrario, è stata motivata con l’aperta rivendicazione del reato da parte dell’intero governo in nome di un preminente interesse pubblico, sulla base dell’art. 9 comma 3° della legge costituzionale n.1 del 16.1.1989. Si è in questo modo rivelata l’assurdità costituzionale di questa norma – una vera mina nel nostro sistema costituzionale – in forza della quale la negazione dell’autorizzazione a procedere può essere decisa ove la maggioranza, del cui sostegno i ministri godono per definizione, “reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”. In base a questa norma il Parlamento può insomma deliberare che è nell’interesse dello Stato la violazione dei diritti umani e dei doveri di solidarietà stabiliti dalla Costituzione. Ne consegue, al di là delle intenzioni dei votanti, l’insindacabilità della politica – i “pieni poteri” dei ministri e delle loro maggioranze – e perciò la negazione della sostanza del costituzionalismo e dello Stato costituzionale di diritto, cioè del sistema dei limiti e dei vincoli imposti dalla Costituzione al potere politico.
quale si gioca il futuro della nostra civiltà: perché il fenomeno migratorio è il segno e l’effetto di tutte le altre emergenze e di tutti gli altri crimini di sistema provocati dalla globalizzazione selvaggia. Ogni migrante segnala drammaticamente uno o più d’uno dei problemi irrisolti generati da tali emergenze – le guerre, le catastrofi ambientali, le persecuzioni, la miseria e la fame – ma anche solubili se solo prevalessero, realisticamente, il buon senso e la ragione. Sulla questione migranti, d’altro canto, rischia oggi di crollare l’identità civile e democratica dei nostri paesi: dell’Italia, per le politiche illegali qui ricordate, ma anche dell’Europa, i cui paesi membri sono tutti variamente impegnati nella limitazione della libertà di accesso e di circolazione delle persone e in una comune e crudele guerra contro i migranti. Non dimentichiamo che l’Unione Europea è nata contro i razzismi e i nazionalismi, contro i genocidi e i campi di concentramento, contro le oppressioni e le discriminazioni razziali. Questa identità rischia oggi di crollare insieme alla memoria dei “mai più” proclamati 70 anni fa contro gli orrori del passato. Le destre populiste protestano contro quelle che chiamano una lesione delle nostre identità culturali da parte delle “invasioni” contaminanti dei migranti. In realtà esse identificano tale identità con la loro identità reazionaria, con la loro falsa cristianità, con la loro intolleranza per i diversi, in breve con il loro più o meno consapevole razzismo. Laddove sono proprio le politiche di chiusura che stanno deturpando l’immagine dell’Italia e dell’Europa disegnata dalle nostre carte costituzionali e segnalano quella che è la vera crisi dell’Unione: la contraddizione tra i valori costituzionali di uguaglianza e libertà, che fino a pochi anni fa ne facevano l’Europa civile dei diritti e della solidarietà, e le leggi e le pratiche di esclusione dei migranti come non-persone che stanno trasformandola nell’Europa dei muri, dei fili spinati, delle disuguaglianze per nascita e, di nuovo, dei conflitti identitari e dell’intolleranza razziale. Affermare e difendere i diritti dei migranti equivale perciò a difendere la dignità non solo dei migranti ma ancor prima di noi stessi e dei nostri ordinamenti: per non dover tornare in futuro a vergognarci, con un nuovo e tardivo “mai più”, delle tragedie provocate dalla loro negazione. E’ una difesa che l’Europa deve anzitutto a se stessa, quale condizione di una sua ritrovata identità democratica: a cominciare proprio dalla riaffermazione del diritto di emigrare come autentico diritto ad avere diritti, che implica logicamente il diritto di immigrare in qualche altro paese che la comunità internazionale ha il dovere di garantire e che proprio l’Europa non può negare avendo fondato su di esso le invasioni e le politiche predatorie che hanno impoverito i paesi dai quali oggi i migranti sono costretti fuggire. Sappiamo bene che la politica non ha il coraggio, perché vittima della demagogia e dell’egemonia delle forze populiste, di riconoscere che il diritto di emigrare è un diritto vigente e deve perciò, in quanto tale, essere comunque garantito. Ma questa è una ragione di più perché sia la scienza giuridica ad affermarlo, prendendo sul serio le norme da cui tale diritto è stabilito e configurando come un’indebita lacuna la mancanza delle garanzie in grado di assicurarne l’effettività.
9. Progetto Europa e paradosso Europa. Il futuro dell’Unione europea. Un garantismo costituzionale europeo – Il processo di integrazione mondiale è un processo graduale, che passa necessariamente attraverso processi di integrazione regionale. L’integrazione europea – tra 27 Stati, 24 lingue, più di mezzo miliardo di persone, l’economia più grande del mondo e un prodotto interno lordo di più di 19.000 miliardi di euro – è sotto questo aspetto esemplare, al punto da rappresentare un modello per tutte le altre regioni, dall’America Latina all’Africa e al Medio Oriente. Al di là dei suoi limiti e della sua incompiutezza, essa è l’evento di politica internazionale più progressivo del secolo scorso: un vero miracolo, se si considerano la molteplicità e la varietà delle differenze – di lingue, di culture, di religioni e di tradizioni: greche, romane, ebraiche, cristiane, germaniche, slave – e, soprattutto, la storia secolare dei suoi tanti Stati, divisi da guerre, conflitti religiosi, nazionalismi aggressivi e imperialismi coloniali e oggi accomunati, almeno sul piano normativo, dall’opzione per la pace, per i diritti umani e la democrazia. Il suo valore consiste nel perseguimento dell’unità sulla base della pacifica convivenza e dell’uguale dignità associata a tutte queste diverse identità, cioè nell’attuazione di quello che possiamo chiamare, in opposizione al principio schmittiano di omogeneità, il principio di eterogeneità. E’ il più gigantesco esperimento storico di integrazione sovranazionale di popoli differenti, che vale perciò a prefigurare, grazie alla profonda diversità delle storie e delle culture di tali e tanti popoli, la possibile espansione del paradigma costituzionale a livello globale. In questi ultimi anni questo straordinario progetto era entrato in crisi, essendosi logorati il consenso che ha lungamente accompagnato il processo di integrazione e, prima ancora, lo spirito unitario dei governi degli Stati. Alla base del suo declino c’è stata l’irrazionale architettura istituzionale dell’Unione Europea, che ha favorito lo sviluppo di politiche autolesioniste ad opera degli organi comunitari. Sono stati creati un mercato comune e una moneta unica, ma non anche un governo comune dell’economia. In queste condizioni, la sola regola di convivenza che gli Stati membri sono stati capaci di inventare per tutelare le loro produzioni dalla concorrenza sleale è stato il divieto per i governi di intervenire con aiuti alle loro imprese in difficoltà onde impedirne il fallimento e, insieme, l’obbligo del pareggio di bilancio e della riduzione dei debiti pubblici. Di qui il passo indietro degli Stati nel governo dell’economia e nella garanzia dei diritti sociali – di fatto la sostanziale rinuncia a politiche industriali e sociali – cui ha corrisposto un enorme passo avanti dei poteri economici e finanziari, dei quali, per lungo tempo, gli organi centrali dell’Unione hanno finito per farsi tramiti. Di qui la crescita delle disuguaglianze, la rottura a livello di massa del senso di unità e dello spirito pubblico comunitario e il successo delle forze populiste che interpretano e insieme sollecitano la delusione e l’ostilità verso l’Europa.
Sono così venuti al pettine tutti i nodi determinati dall’incompiutezza del processo istituzionale dell’integrazione europea. L’Unione Europea è un sistema politico ambivalente. Sul piano giuridico è una federazione, dato che le norme prodotte dai suoi organi entrano in vigore negli ordinamenti degli Stati membri senza
bisogno di ratifiche parlamentari. Ma non è ancora una federazione in senso politico. E’ questo il gravissimo problema che rischia costantemente di provocare il crollo dell’Unione: la mancanza sia di unità politica che di democrazia. Gli organi comunitari – la Commissione e il Consiglio dell’Unione europea – non sono stati né democratizzati politicamente a garanzia della loro rappresentatività politica, né sottoposti effettivamente a rigidi limiti e vincoli costituzionali, a garanzia dell’uguaglianza nei diritti di tutti i cittadini europei. Essi sono, in realtà, dei consessi internazionali dove ogni Stato difende i propri interessi e gli Stati più deboli sono costretti a subire i dettami degli Stati più forti. Al venir meno delle sovranità nazionali e alla riduzione delle sfere pubbliche dei singoli Stati non ha corrisposto né l’affermazione di una sovranità politica dell’Unione, né la costruzione di una sfera pubblica europea idonea a supplire all’indebolimento delle sfere pubbliche nazionali. Il primo, nefasto risultato di questa carenza è stato lo sviluppo di politiche europee informate, volta a volta, non già all’interesse generale dell’Europa ma agli interessi degli Stati membri, inevitabilmente in competizione tra loro. A causa dell’assenza di unità politica al vertice dell’Unione, le sue istituzioni di governo non operano, come tutte le istituzioni federali, in funzione di un comune interesse pubblico europeo, bensì, come nelle organizzazioni confederali, sulla base di conflitti e compromessi tra Stati nei quali sono ovviamente destinati a prevalere gli interessi e la volontà degli Stati più forti. Nonostante la struttura giuridica sostanzialmente federale dell’Unione e l’immediata operatività delle sue decisioni in tutto il suo territorio, i membri del Consiglio dei ministri europei difendono ciascuno gli interessi degli Stati da essi rappresentati. Ben più che un governo europeo politicamente rappresentativo dell’insieme dei cittadini europei e finalizzato e vincolato alla cura degli interessi dell’Unione, abbiamo perciò una sorta di consesso internazionale di 27 paesi entro il quale si può solo realizzare una continua mediazione pattizia tra interessi in conflitto. Di qui il secondo e ancor più grave risultato della mancanza di una sfera pubblica europea realmente informata all’interesse generale dell’Europa. Non sono state costruite istituzioni comunitarie in grado di ereditare il ruolo di governo dell’economia e di garanzia dei diritti sociali svolto dalle sfere pubbliche nazionali. E’ questo il prezzo pagato all’originaria ambivalenza istituzionale dell’Unione: la riduzione, in assenza di tali istituzioni, delle garanzie dei diritti sociali e del lavoro conseguenti alla trasformazione in senso liberista delle costituzioni economiche di tipo dirigista disegnate dagli artt. 41-43 della Costituzione italiana, dagli artt. 14 e 15 della Legge Fondamentale tedesca, dagli artt. 17 e 18 della Costituzione greca, dal capo III della Costituzione spagnola e dalla parte seconda della Costituzione portoghese. L’economia – prima il mercato comune, poi la moneta unica –, che i padri costituenti dell’Europa avevano concepito come un fattore di unificazione, è così diventata un fattore di divisione. Di qui l’anti-europeismo delle destre xenofobe e populiste, il rifiuto dell’integrazione e i sentimenti di reciproca avversione che attraversano l’intero continente: tra tedeschi e italiani, tra olandesi e greci, tra finlandesi e spagnoli.
Tutto questo segnala quello che possiamo chiamare il paradosso istituzionale
dell’Europa, conseguente in gran parte alla sua natura di federazione in senso giuridico ma non anche in senso politico. Il paradosso consiste nel fatto che nell’Unione Europea sono state istituite, a livello comunitario e perciò federale, funzioni di governo, mentre non è stata istituita nessuna funzione di garanzia primaria. Contrariamente alla logica del federalismo e, più in generale, della democrazia multi-livello – secondo la quale le funzioni di governo sono legittimate dalla rappresentanza politica e sono quindi tanto più legittime quanto più locali e perciò federate, mentre le funzioni di garanzia sono legittimate dall’uguaglianza nella garanzia dei diritti fondamentale e sono quindi tanto più legittime quanto più sovrastatali e perciò federali – nella costruzione dell’Unione Europea sono state affidate alle istituzioni comunitarie soprattutto funzioni di governo, e non anche funzioni di garanzia dei diritti fondamentali, che sarebbero le sole funzioni idonee a garantire l’uguaglianza nei diritti dei cittadini europei e a promuoverne il consenso nei confronti dell’Unione. Alle restrizioni politiche imposte dai vincoli governativi di bilancio alle funzioni statali di garanzia dei diritti sociali, non ha insomma corrisposto l’istituzione di nessuna istituzione di garanzia primaria di livello europeo, ossia federale. E’ così che sono cresciute le disuguaglianze nelle condizioni materiali di vita sia tra gli Stati membri che all’interno degli Stati. Il paradosso si è rivelato anche in occasione della pandemia del coronavirus, riguardo alla quale l’Unione ha rinunciato ad esercitare le funzioni sanitarie di garanzia pur previste, nell’interesse di tutti, dalle norme dei suoi trattati istitutivi. Fortunatamente, la pandemia ha prodotto tuttavia un risveglio della ragione. Dopo un’iniziale difesa delle vecchie politiche di rigore, l’Unione ha ridato senso a se medesima attribuendo rilevanti finanziamenti ai paesi più colpiti, onde far fronte alla generale recessione economica. Si è trattato di una svolta senza la quale il progetto europeo sarebbe fallito e grazie alla quale esso ha ritrovato forza e credibilità. Ma anche la svolta, ha confermato il paradosso europeo. La solidarietà si è manifestata non già nella creazione di funzioni e di istituzioni di garanzia primaria – anzitutto in tema di salute, ma anche di lavoro, di previdenza e sussistenza – legittimate dai diritti fondamentali stipulati nella Carta dei diritti dell’Unione, ma in più solidali politiche economiche di governo, il cui difetto è la loro inevitabile precarietà, generata dai condizionamenti dei contrapposti populismi e sovranismi.
Ciò che la pandemia ha tuttavia fatto emergere in maniera clamorosa è l’inadeguatezza, non più sostenibile, dell’assetto istituzionale dell’Unione, superabile soltanto da una sua rifondazione costituzionale diretta a disegnare sia la dimensione formale che, soprattutto, la dimensione sostanziale della democrazia europea. Una simile rifondazione richiede il passaggio dell’Unione dall’attuale dimensione internazionale, tuttora basata sui trattati, alla dimensione costituzionale, che richiederebbe un potere politico costituente legittimato dal voto dell’intero elettorato europeo: dunque un’Assemblea costituente europea o comunque l’attribuzione di funzioni costituenti al Parlamento europeo, se necessario su iniziativa e con la partecipazione dei soli paesi dell’Unione che condividano un apposito Trattato
costituente44. Saranno pertanto le istituzioni e le funzioni di garanzia primaria, in particolare dei diritti sociali – dal diritto alla salute al diritto all’istruzione, dai diritti alla sussistenza ai diritti dei lavoratori – che una vera Costituzione dell’Unione Europea dovrà prevedere e istituire, a garanzia non soltanto dell’uguaglianza dei cittadini europei, ma anche del loro senso di appartenenza alla medesima comunità e di una rinnovata popolarità del progetto europeo. L’alternativa formulata nei paragrafi che precedono per il diritto internazionale è infatti ancor più pressante per l’Unione Europea: o prevarrà la ragione e si giungerà all’integrazione costituzionale e all’unificazione politica dell’Europa sulla base dell’uguaglianza nei diritti fondamentali, oppure si produrranno la disgregazione e il fallimento dell’Unione e, insieme, una crisi delle nostre economie e delle nostre democrazie a vantaggio dei tanti populismi in crescita in tutti i paesi membri. La prima alternativa richiederà, da una costituzione europea approvata da un Parlamento costituente, rappresentativo di tutta la popolazione europea, la fondazione anzitutto della dimensione formale, politica e civile, della democrazia europea secondo il modello degli stati federali: con il voto a maggioranza, anziché all’unanimità, di tutte le decisioni politiche importanti dell’Unione, a cominciare da quelle in tema di sanzioni, di sicurezza e di politica estera; con l’attribuzione di funzioni legislative a un Parlamento eletto da tutti i cittadini europei su liste elettorali europee e con una legge elettorale comune; con la trasformazione dell’attuale Commissione in un governo federale vincolato al Parlamento da un rapporto di fiducia e dell’attuale Consiglio dei ministri in un Senato rappresentativo degli Stati; con una banca centrale dotata dei poteri di tutte le banche centrali; con una fiscalità comune e un governo comune dell’economia. Ma è chiaro che ancor più necessaria, ai fini della creazione del senso di appartenenza all’Unione e perciò dell’unità europea nell’unico senso in cui tale unità merita di essere perseguita, è la costruzione della dimensione sostanziale, liberale e sociale, della democrazia costituzionale dell’Unione.
Del resto questa dimensione è già disegnata dagli attuali Trattati: “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”, dice l’articolo 2 del Trattato sull’Unione; e l’art. 3 aggiunge: “l’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne”: non solo dunque
44 Un precedente analogo a questo possibile trattato istitutivo di un’Assemblea costituente europea tra i soli paesi che lo condividono, è stato il Trattato istitutivo del cosiddetto Fiscal Compact, approvato il 2 marzo 2012 da 25 dei 28 paesi dell’Unione, che impose agli Stati contraenti l’obbligo del pareggio di bilancio, nonché del pagamento in rate ventennali dei debiti pubblici eccedenti il 60% del Pil. Oggi un Trattato costituente tra i soli paesi che condividono la costituzionalizzazione dell’Unione, e in particolare il principio che le decisioni più importanti vadano prese a maggioranza, sarebbe la risposta più efficace allo scandaloso veto opposto, nel novembre 2020, dal governo ungherese e da quello polacco (poi superato da un mediocre compromesso) all’erogazione dei fondi europei, necessari a far fronte alla crisi economica generata dalla pandemia del coronavirus, solo perché condizionata al rispetto dei principi elementari dello stato di diritto.
“instaura un mercato interno”, ma “si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata” e “su un’economia sociale di mercato… che mira alla piena occupazione e al progresso sociale”, nonché “su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”. La democrazia sostanziale europea richiede dunque, perfino sulla base di queste norme, politiche di sviluppo finalizzate alla piena occupazione e alla garanzia dei diritti di tutti i cittadini europei, cioè l’esatto contrario delle vecchie politiche di rigore che hanno avuto il solo effetto di accrescere la disuguaglianza e di screditare il progetto europeo. Ma richiede, soprattutto, l’attuazione di tale progetto mediante la creazione di istituzioni europee di garanzia primaria e secondaria di tutti i diritti fondamentali già stabiliti nella sua Carta dei diritti: in materia di libertà, di salute, di istruzione, di sussistenza. Una politica europeista in grado di restituire popolarità al progetto dell’Unione e di sottrarre spazio all’anti-europeismo degli odierni populismi e sovranismi dovrebbe insomma ricostruire, a livello d’opinione, la fiducia nell’Europa come comunità politica basata sull’uguaglianza nelle garanzie dei diritti fondamentali di tutti. In questa prospettiva si richiede la tendenziale unificazione giuridica dei diversi ordinamenti europei, a cominciare dai codici e della legislazione di base, non avendo senso che nell’Unione convivano 27 codici civili e altrettanti codici penali e processuali sostanzialmente uguali. L’unificazione dovrebbe inoltre riguardare le garanzie dei diritti dei lavoratori, prime tra tutte la stabilità dei rapporti di lavoro e l’equa retribuzione, onde impedire il turismo degli investimenti nei paesi nei quali il lavoro può essere maggiormente sfruttato. Dovrebbe promuovere il raggiungimento di livelli tendenzialmente uguali nelle garanzie dei diritti sociali all’istruzione, alla salute, alla previdenza e all’assistenza, mediante istituzioni di garanzia primaria e misure sociali direttamente europee e finanziate da un fisco europeo realmente progressivo: per esempio un servizio sanitario europeo, un salario minimo europeo e un reddito di cittadinanza erogato direttamente dall’Europa. Basterebbe l’introduzione di una sola di queste misure a mutare l’immagine dell’Europa nella percezione popolare e a mostrarne non più il solo volto ostile dei mercati e dei sacrifici, ma anche il volto benefico delle garanzie, e così a rilanciare l’europeismo anche dei ceti più disagiati. Basterebbe, per esempio, che l’Unione affidasse direttamente ai suoi organi comunitari l’erogazione di un reddito di cittadinanza previsto proprio dal Pilastro europeo dei diritti sociali stipulato nel 2017.
10. Soggetti costituenti: i titolari di diritti fondamentali violati, primi tra tutti i migranti. Per una Costituzione della Terra. L’insidia del realismo politico. Ottimismo metodologico – Un contributo decisivo di Carlo Marx alla democrazia è consistito nell’affermazione della dignità del lavoro salariato, svalutato da tutta la tradizione liberale, e nella rifondazione della politica democratica come politica dal basso, alimentata dalla lotta di classe dei lavoratori contro i loro sfruttatori. E’ stato questo il grande merito storico di Marx e il debito che tuttora abbiamo nei suoi
confronti: l’ancoraggio della politica democratica al punto di vista delle persone sfruttate ed oppresse, che per quasi due secoli ha mobilitato grandi masse di lavoratori e di soggetti emarginati, ha dato senso all’impegno politico, ha definito e continua a definire qualunque forza politica che voglia dirsi progressista in quanto portatrice della volontà costituente di un ordine sociale basato sulle loro istanze di liberazione e di uguaglianza. Oggi i soggetti sfruttati ed oppressi non sono soltanto i lavoratori dipendenti. Lo sono anche i lavoratori precari e i disoccupati, il miliardo di persone che vivono e muoiono in condizioni di povertà estrema, le popolazioni vittime delle guerre e delle catastrofi ambientali, le minoranze politiche e religiose perseguitate, le donne discriminate ed oppresse, i migranti che fuggono dalla miseria e dalla fame e incontrano spesso la morte nelle loro terribili odissee. In breve, sono costituenti di un nuovo ordine mondiale tutti i soggetti titolari di diritti fondamentali violati o insoddisfatti: tutte le persone, i popoli e i movimenti che con le loro lotte segnalano le antinomie e le lacune dei nostri ordinamenti e, soprattutto, i crimini di sistema di cui sono vittime e di cui rivendicano la cessazione, tramite la costruzione di idonee garanzie da stipulare in un nuovo patto che dia vita a una democrazia costituzionale cosmopolita. Uno di questi soggetti – il popolo dei migranti – è direttamente o indirettamente vittima, come si è visto, di tutti i crimini di sistema, a cominciare dalla violazione del diritto di emigrare, proclamato quando era la legge dei più forti a sostegno delle loro conquiste e colonizzazioni, e negato allorquando, come tutti i diritti fondamentali, è diventato una legge dei più deboli. Basterebbe questa contraddizione a fare dei migranti il soggetto costituente forse più emblematico. Ma ci sono altre ragioni per le quali il fenomeno migratorio si configura oggi come il fatto costituente, il popolo dei migranti come il soggetto costituente e il diritto di emigrare come il potere costituente di un nuovo ordine globale.
La prima ragione consiste nel fatto che i migranti, con la loro fuga, rendono visibili tutti i problemi che sono all’origine dei fenomeni migratori: le guerre, le persecuzioni politiche o religiose, la fame e le malattie non curate benché curabili e, soprattutto, i cambiamenti climatici, le siccità e le desertificazioni. Secondo le previsioni concordi degli studiosi, a causa del riscaldamenti climatico, gran parte dei territori dell’India, dell’Indonesia, della Nigeria e del Sudan diverranno inabitabili nei prossimi 50 anni e questo, unitamente alla crescita demografica in questi paesi, provocherà non più milioni, ma miliardi di migranti in fuga45. E’ chiaro che questi problemi non saranno mai affrontati seriamente fino a che i governi e le opinioni pubbliche dei paesi ricchi non li sentiranno come propri. E questi paesi li sentiranno
45 S. Mancuso, La terra guasta del clima, in “La Repubblica” del 30.8.2020, riferisce di uno studio pubblicato sulla rivista “Proceedings of the National Acedemy of Sciences of the United States of America”, secondo il quale, nei prossimi 50 anni, un miliardo e 200.000 persone in India, 500 milioni in Nigeria e altre centinaia di milioni in Pakistan, in Indonesia e in Sudan non potranno più vivere nei loro territori: il riscaldamento climatico, a causa del quale le terre emerse con temperature medie di 29° centigradi passeranno dall’attuale 0,8% al 29% della superficie terrestre, provocherà ben un miliardo e mezzo di profughi per ragioni climatiche.
come propri solo allorquando la pressione degli esclusi alle loro frontiere diventerà irresistibile. Per questo – perché è l’effetto e insieme il sintomo e la risposta a tutti i mali che funestano il pianeta – il fenomeno migratorio è il fatto costituente di un futuro ordine internazionale basato sulla realizzazione di una tendenziale uguaglianza che finalmente unisca tutti gli esseri umani, oggi divisi dai muri, dai fili spinati e dalle leggi razziste, non solo nella titolarità ma anche nell’effettività di tutti i diritti fondamentali. Una seconda ragione che fa del popolo dei migranti un popolo costituente consiste nella sua eterogeneità etnica, religiosa, politica, sociale e culturale. Questo popolo è un popolo meticcio, che con le sue infinite differenze culturali, religiose e linguistiche prefigura l’umanità futura quale unico popolo globale, anch’esso meticcio perché formato dall’incontro e dalla contaminazione di più nazionalità e di più culture, senza più differenze privilegiate né differenze discriminate, senza più cittadini né stranieri perché tutti accomunati dalla condivisione, finalmente, di un unico status, quello di persona umana, e dal pacifico riconoscimento dell’uguale dignità di tutte le differenze. E’ nella garanzia del rispetto di tutte queste differenze e perciò nell’attuazione dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che si realizza, a livello globale, il principio di eterogeneità sul quale abbiamo basato la democrazia costituzionale. La terza ragione che fa del diritto di emigrare un potere costituente risiede nella sua natura di ‘diritto ad avere diritti’ e nelle tragedie alle quali sta dando luogo la sua illegittima e disumana negazione. Le migrazioni sono oggi la forma più visibile ed emblematica della rivolta e della lotta sociale contro l’arbitrio: una rivolta legittima, perché messa in atto attraverso l’esercizio di un diritto, a tutela della dignità della persona in quanto tale e del principio di uguaglianza in entrambe le sue dimensioni: quale uguale valore delle differenze e quale disvalore delle disuguaglianze. Al contrario, le terribili odissee di quanti fuggono da guerre e persecuzioni, le violenze e le torture da essi subite nei campi nei quali sono internati durante i loro viaggi, le migliaia di morti ogni anno, vittime delle nostre leggi razziste e dei nostri muri, sono gli orrori dei nostri tempi contro i quali dovrà essere pronunciato un nuovo “mai più” dai costituenti del futuro.
Più in generale, è la presa di coscienza dell’ingiustizia e dell’illegittimità di tutte le violazioni dell’uguaglianza e della dignità delle persone che è sempre stata e continuerà ad essere alla base della genesi storica dei diritti fondamentali e del progresso civile e politico delle istituzioni pubbliche. Diritti e garanzie non cadono mai dall’alto. Sono sempre il prodotto dell’energia politica costituente che si manifesta nelle lotte sociali che rompono il velo di normalità che copriva e occultava vecchie oppressioni e discriminazioni. La percezione di queste oppressioni è dapprima minoritaria perfino tra quanti ne sono vittime, poi è condivisa dalla loro maggioranza e infine è destinata, con lo sviluppo e il successo delle loro lotte, a generalizzarsi e a diventare senso comune. E’ questa la garanzia extra-giuridica e direttamente sociale sulla cui base si è sempre affermata l’effettività dei diritti fondamentali: “La garanzia sociale”, affermò l’art. 23 della Déclaration des droits premessa alla Costituzione del 24.6.1793, “consiste nell’azione di tutti per assicurare
a ognuno il godimento e la conservazione dei suoi diritti”.
E’ da questo nesso tra i diritti di ciascuno e i diritti di tutti e dalla conseguente mobilitazione politica in loro difesa, capace di coinvolgere l’impegno di tutti perché nell’interesse di tutti, che può provenire l’energia costituente sufficiente a rifondare l’ordine internazionale sulla base di una Costituzione della Terra, cioè di un’espansione a livello globale del paradigma costituzionale. Una simile costituzione non dovrà limitarsi a recepire e a rielaborare le comuni tradizioni costituzionali espresse dalle attuali carte internazionali dei diritti umani e dalle costituzioni nazionali più avanzate. Essa dovrà essere caratterizzata da una lunga serie di innovazioni. La prima novità dovrebbe essere la previsione, nel testo costituzionale, oltre che delle attuali e tradizionali funzioni globali di governo e di garanzia secondaria – come il Consiglio di Sicurezza adeguatamente democratizzato, l’Assemblea generale, la Corte internazionale di giustizia e la giurisdizione, estesa a tutti gli Stati, della Corte penale internazionale – di adeguate funzioni di garanzia primaria, e perciò l’obbligo di rafforzare quelle esistenti come la Fao, l’OMS e l’Unesco e di istituire quelle mancanti in tema di tutela dell’ambiente e della pace. In secondo luogo una Costituzione della Terra dovrebbe elencare, a fianco dei diritti umani, i beni fondamentali, istituendone le relative garanzie, come il demanio planetario dei beni comuni, le garanzie dell’accesso all’acqua potabile e dell’alimentazione di base di tutti gli esseri umani e l’obbligo della produzione e della distribuzione in tutto il mondo, in capo alle istituzioni sanitarie di garanzia, di tutti i farmaci salvavita, dei vaccini e delle altre attrezzature sanitarie essenziali. In terzo luogo dovrebbe realizzare in capo all’Onu il monopolio della forza, prefigurando un progressivo scioglimento degli eserciti nazionali e una tendenziale messa al bando tutte le armi micidiali: anzitutto delle armi nucleari, ma anche, a tutela della vita, delle armi da fuoco convenzionali, di cui dovrebbero essere proibite la produzione, il commercio e la detenzione. In quarto luogo le attuali istituzioni economiche internazionali – la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale del commercio – andrebbero trasformate, sulla base delle ragioni sociali enunciate dai loro stessi statuti, in istituzioni di garanzia, non più sottoposte al controllo dei paesi più ricchi, bensì indipendenti nelle loro funzioni istituzionali, le quali consistono, oltre che nella realizzazione della stabilità finanziaria, nella promozione dello sviluppo dei paesi poveri, nella crescita dell’occupazione e, nella riduzione degli squilibri e delle eccessive disuguaglianze46.
46 Gli “scopi del Fondo monetario” indicati nell’art. 1 del suo statuto, adottato a Bretton Woods il 22 luglio 1944, sono: “promuovere la cooperazione monetaria internazionale”, “facilitare l’espansione e la crescita equilibrata del commercio internazionale”, “contribuire ad istaurare e mantenere elevati livelli di occupazione e di reddito reale e a sviluppare le risorse produttive di tutti gli Stati membri”, “promuovere la stabilità dei cambi”, “correggere” e “ridurre la durata e l’ampiezza degli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri” onde evitare di “comprometter(ne) la prosperità nazionale”. A sua volta, la ragione sociale della Banca mondiale, istituita il 27 dicembre 1945, fu dapprima il sostegno alla ricostruzione degli Stati devastati dalla seconda guerra mondiale e poi, dopo i processi di decolonizzazione, la promozione dello sviluppo economico dei paesi poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina e, più in generale, la lotta alla povertà. Infine il preambolo all’accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del
In quinto luogo dovrebbe essere istituita, da una Costituzione della Terra rigidamente sopraordinata a tutte le altre fonti, una Corte costituzionale deputata alla censura di tutti i trattati internazionali e di tutte le leggi nazionali con essa in contrasto. Infine dovrebbe essere previsto un fisco globale in grado di prelevare dalle grandi ricchezze le somme necessarie a finanziare le istituzioni globali di garanzia e a levare dalla miseria la metà della popolazione mondiale. E’ poi evidente che perché l’energia costituente necessaria a produrre un simile salto di civiltà venga organizzata e utilizzata politicamente, è necessaria la creazione di partiti politici sovranazionali di carattere globale, in grado di contrapporsi alle miopi ideologie identitarie delle forze populiste e sovraniste.
Queste ipotesi non hanno nulla di utopistico. Sono al contrario le sole indicazioni realistiche in grado di impedire, attraverso la garanzia dei diritti e dei beni vitali di tutti, un futuro di guerre, di violenze, di cataclismi e di insicurezza per tutti. Ovviamente a questa prospettiva, che solo la politica può realizzare attraverso l’organizzazione di soggetti politici sovranazionali e tendenzialmente mondiali, si oppongono potenti interessi e consolidati pregiudizi. Ma non dobbiamo confondere i problemi teorici con i problemi politici e concepire come utopistico o irrealistico, occultando le responsabilità della politica, ciò che semplicemente non si vuole fare e che solo per questo è improbabile che si faccia. Occorre evitare la fallacia deterministica e realistica consistente nella naturalizzazione di ciò che di fatto accade e in una sorta di legittimazione incrociata della teoria da parte della realtà e della realtà da parte della teoria: la legittimazione scientifica, da parte della descrizione del funzionamento di fatto delle istituzioni, della tesi teorica che non ci sono alternative al primato delle leggi del mercato e, inversamente, la legittimazione politica delle leggi del mercato da parte della teoria come le reali, perché effettive, norme fondamentali, ben più delle in effettive carte costituzionali. Questo tipo di “realismo” finisce infatti per legittimare e assecondare come inevitabile ciò che resta comunque opera degli uomini e di cui portano la responsabilità gli attori della nostra vita economica e politica. Al contrario, l’ipotesi più irrealistica, se non si produrrà un cambiamento nella politica e nell’economia, è che la realtà possa rimanere a lungo come è: che potremo continuare a basare le nostre ricche democrazie e i nostri spen-sierati tenori di vita sulla fame e la miseria del resto del mondo, sulla forza delle armi e sullo sviluppo ecologicamente insostenibile delle nostre economie. Tutto questo non può, realisticamente, durare: è lo stesso preambolo alla Dichiarazione del ‘48 che
Commercio, dell’1 gennaio 1995, afferma che le “relazioni nel campo del commerciò e delle attività economiche” delle parti dell’accordo devono “essere finalizzate ad innalzare il tenore di vita, a garantire la piena occupazione”, a consentire “un impiego ottimale delle risorse mondiali, conformemente all’obiettivo di uno sviluppo sostenibile che miri a tutelare e a preservare l’ambiente”, nonché al fine che “i paesi in via di sviluppo, in particolare quelli meno avanzati, si assicurino una quota crescente del commercio internazionale proporzionale alle necessità del loro sviluppo economico”. Sono tutte funzioni opposte a quelle esercitate di fatto, in questi ultimi anni, da tali istituzioni e consistite soprattutto, grazie anche alla prevalenza nei loro organi decisionali dei rappresentanti dei paesi economicamente più avanzati, nell’imposizione agli Stati più poveri di misure pesantemente antisociali onde ottenere il pagamento dei loro crescenti debiti esteri.
ci avverte, realisticamente, del nesso di implicazione reciproca tra pace e diritti, tra sicurezza e uguaglianza.
Soprattutto dobbiamo evitare il pessimismo disfattista e paralizzante, destinato a convertirsi nella rassegnata accettazione dell’esistente. Senza la “speranza di tempi migliori”, scrisse Kant, “un serio desiderio di fare qualcosa di utile per il bene generale non avrebbe mai eccitato il cuore umano”47. Non ci sarebbe perciò spazio per nessuna politica di progresso. Giacché la speranza del progresso forma il presupposto dell’impegno morale e di quello politico e si oppone perciò – quale permanente energia politica costituente – all’accettazione passiva, perché inevitabile, dell’esistente. Questa speranza non è il frutto di un generico ottimismo. Essa si fonda sulla ragione. E’ determinata dalla consapevolezza teorica che la soluzione dei problemi globali sarà resa possibile solo dall’espansione e dall’inveramento, a livello sovranazionale, dell’universalismo del paradigma garantista e costituzionale. Proprio le emergenze planetarie fin qui illustrate, a cominciare dalla pandemia del coronavirus che ha accomunato tutti i popoli del mondo in una stessa tragedia, offriranno forse l’occasione per indurre le popolazioni del pianeta a mettere da parte i tanti conflitti e interessi particolari e per unificare le loro energie intorno a battaglie comuni, contro minacce comuni, per cause comuni. Per la prima volta nella storia si sta manifestando un interesse pubblico e generale assai più ampio e vitale di tutti i diversi interessi pubblici del passato: l’interesse di tutti alla sopravvivenza dell’umanità e all’abitabilità del pianeta, assicurato dalle garanzie dei beni comuni e dei diritti fondamentali di tutti quali limiti a tutti i poteri, sia politici che economici. Non solo. Per la prima volta nella storia recente si è affermato, nel dibattuto pubblico e nelle politiche di gran parte dei governi, il principio universalistico che la cura e poi il vaccino contro la pandemia del coronavirus non debbano essere affidati alle logiche del mercato, bensì garantiti ugualmente a tutti, dalla sfera pubblica, a livello globale. E’ questa la grande, positiva novità che è stata generata dalle emergenze in atto: l’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra, idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica come politica interna del mondo.
47 I. Kant, Sopra il detto comune comune: ‘questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica’ [1793], in Id., Scritti politici cit., p. 276. “Nel triste spettacolo”, aggiunge Kant, “non tanto dei mali che per cause naturali affliggono l’umanità, quanto piuttosto di quelli che gli uomini tra loro si arrecano, l’animo si rasserena al pensiero di un avvenire migliore, ed è questo un sentimento disinteressato, perché noi da lungo tempo saremo nella tomba e non raccoglieremo i frutti che abbiamo in parte seminato. Dimostrazioni empiriche contro la possibilità della realizzazione di questi disegni fondati sulla speranza non provano nulla. Infatti, il dire che una cosa non è finora avvenuta e quindi non avverrà mai, come non giustifica l’abbandono di un progetto pragmatico o tecnico (come ad esempio quello dei viaggi aerei per mezzo di palloni aerostatici), molto meno giu-stifica l’abbandono di un fine morale, il quale diventa dovere, se non si dimostra l’impossibilità di raggiungerlo. D’altra parte si danno ragioni per affermare che la specie umana, nel suo insieme, ha realmente progredito nei tempi nostri, nel senso morale, in confronto alle epoche anteriori”.
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