ategia della Difesa Nazionale degli Stati Uniti” pubblicato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin, illustrava in che modo l’immenso potenziale americano sarebbe stato predisposto a sostenere con la deterrenza questa sfida con la Repubblica Popolare Cinese e a “scoraggiare l’aggressione”; esso sosteneva bensì che il conflitto con la Cina non è “né inevitabile né auspicabile” ma anche che gli Stati Uniti sono pronti, se la deterrenza fallisce, “a prevalere nel conflitto”, come del resto in ogni altro conflitto che si trovino a combattere.
In questo secondo documento si può trovare un tentativo di motivare in modo più credibile le ragioni della sfida suprema con la Cina. Scrive Lloyd Austin:
“La Repubblica Popolare Cinese (RPC) rimane il nostro competitore strategico più importante per i prossimi decenni. Ho raggiunto questa conclusione sulla base delle crescenti azioni di forza della RPC per rimodellare la regione dell’Indo Pacifico e il sistema internazionale per adattarlo alle sue preferenze autoritarie, insieme sulla base di una profonda consapevolezza delle intenzioni chiaramente dichiarate della RPC e della rapida modernizzazione ed espansione delle sue forze armate”. E ancora: “La RPC cerca di minare le alleanze statunitensi e le partnership di sicurezza nella regione indo-pacifica e sfruttare le sue crescenti capacità, inclusa la sua influenza economica e la crescente forza e impronta militare dell’Esercito popolare di liberazione (PLA), per costringere i suoi vicini e minacciare i loro interessi. La retorica sempre più provocatoria e l’attività impositiva della Repubblica Popolare Cinese nei confronti di Taiwan stanno destabilizzando, rischiano errori di calcolo e minacciano la pace e la stabilità dello Stretto di Taiwan. Questo fa parte di un modello più ampio di comportamento destabilizzante e impositivo della RPC che si estende attraverso il Mar Cinese Orientale, il Mar Cinese Meridionale e lungo la Linea di Controllo Effettivo. La RPC ha ampliato e modernizzato quasi ogni aspetto dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA), concentrandosi sullo sforzo di riequilibrare le superiorità militari statunitensi. La RPC è quindi la sfida suprema per il Dipartimento” (della Difesa),
“Oltre ad espandere le sue forze convenzionali, l’Esercito Popolare di Liberazione – aggiunge il progetto di difesa americano – sta rapidamente avanzando e integrando le sue capacità di guerra spaziale, controspaziale, informatica, elettronica e informativa per sostenere il suo approccio olistico alla guerra diffusa. L’ Esercito Popolare di Liberazione cerca di prendere di mira la capacità della Joint Force di proiettare potere per difendere gli interessi vitali degli Stati Uniti e aiutare i nostri alleati in una crisi o in un conflitto. La Repubblica Popolare Cinese sta anche lavorando per proiettare potenza militare a distanze maggiori e sta accelerando la modernizzazione e l’espansione delle sue capacità nucleari”.
Perché la Cina?
Ce n’è abbastanza per fare della Cina un nemico, anzi “il Nemico”. Ma perché la Cina? Perché fare della Cina un nemico, per misfatti non ancora commessi? Essa è reduce da un’epidemia devastante che si è abbattuta su di lei dopo che era uscita da una povertà che nel 1978 ancora gravava su 770 milioni di contadini, con un tasso di povertà del 97.5 per cento sulla popolazione totale (notizie ufficiali date in un libro di Zhang Yonge, “La Cina e lo sforzo propositivo per un XXI secolo dei diritti”, fatto distribuire dall’ambasciatore cinese in Italia). Oggi essa è giunta ad assicurare cibo e sussistenza a una popolazione di 1,4 miliardi di persone ed è passata a una inquietante preponderanza economica con metodi severamente contestati in Occidente, ma non si vede perché tutte le Nazioni della Terra dovrebbero congiurare contro di lei e mettere al bando anche lei dalla comunità internazionale, e naturalmente dai mercati mondiali.
Gli altri nemici
I nemici però non finiscono qui, ed è Biden il primo ad indicarli: “ Riconosciamo anche che altre piccole potenze autocratiche agiscono in modo aggressivo e destabilizzante. In particolare, l’ Iran interferisce negli affari interni dei Paesi vicini, fa proliferare missili e droni tramite procuratori, complotta per fare del male agli americani, compresi ex funzionari, e sta portando avanti un programma nucleare che va al di là di ogni credibile necessità civile. La Repubblica Popolare Democratica di Corea (RPDC) continua a espandere i suoi programmi illeciti di armi nucleari e missili”. Per contro, assicura il presidente americano, “perseguiremo un’agenda affermativa per far progredire la pace e la sicurezza e per promuovere la prosperità in ogni regione. Un Medio Oriente più integrato, che dia potere ai nostri alleati e partners, farà progredire la pace e la prosperità regionale, riducendo al contempo la richiesta di risorse che la regione comporta per gli Stati Uniti nel lungo periodo. In Africa, il dinamismo, l’innovazione e la crescita demografica della regione la rendono centrale nell’affrontare i complessi problemi globali”.
E questa è la premessa di tutto il ragionamento: “Gli autocrati – scrive Biden presentando il suo documento – fanno gli straordinari per minare la democrazia ed esportare un modello di governance caratterizzato dalla repressione in patria e dalla coercizione all’estero.
“Questi concorrenti credono erroneamente che la democrazia sia più debole dell’autocrazia perché non capiscono che il potere di una nazione nasce dal suo popolo. Gli Stati Uniti sono forti all’estero perché sono forti in patria. La nostra economia è dinamica. Il nostro popolo è resistente e creativo. Le nostre forze armate sono intatte e continueranno a esserlo. Ed è la nostra democrazia che ci permette di reimmaginare continuamente noi stessi e di rinnovare la nostra forza.
“Pertanto, gli Stati Uniti continueranno a difendere la democrazia nel mondo, anche se continueremo a lavorare in patria per essere all’altezza dell’idea di America sancita nei nostri documenti fondativi. Continueremo a investire per aumentare la competitività americana a livello globale, attirando sognatori e aspiranti da tutto il mondo”.
Il sogno di un Impero
Dunque c’è un sogno americano che estasia sognatori di tutto il mondo. Ed è un libro dei sogni il mondo prospero, felice, sicuro e “pieno di speranza” descritto da Biden. Ma si tratta di un sogno americano, tanto è vero che i “sognatori” ci vorrebbero entrare. Ed è un sogno di 300 milioni di persone. E gli altri 7 miliardi e 700 milioni? Per la maggior parte non vivono un sogno, ma un incubo.
Il sogno americano è in realtà il sogno di un Impero, che da un centro domina su terre estranee e lontane: gli Stati Uniti di Biden non lo riconoscono perché vengono da una colonia, non sono mai stati un Impero; ma la storia dice che il mondo da loro immaginato e voluto, dove non tramonta mai il sole, è per l’appunto un Impero.
Questa è la visione del mondo che è detta “Occidente”. Ma davvero è questo il mondo com’è? È possibile pensare il mondo come un unico dominio, un unico Impero? Non si è mai dato nella storia, anche se ci sono stati Imperi estesi su gran parte del mondo conosciuto, al prezzo di spietate repressioni e confessati genocidi. E ora che il mondo è tutto conosciuto, nella mirabile ricchezza delle sue differenze. non è possibile che anche la politica, anche i governanti delle nazioni, i detentori del potere economico e militare, lo riconoscano come il mondo reale?
Il mondo non è un’entità amorfa, primitiva, disponibile al dominio. È stata questa l’hybris dell’Occidente, la sua scalata al cielo. Mentre fiorivano altre civiltà, a lungo abbiamo creduto che il mondo fosse tutto compreso nella koiné greco-romana, poi lo abbiamo costituito in cristianità, e quando è finita l’età costantiniana, se lo sono conteso i Grandi della Terra, ed ora ne vogliono il comando gli Stati Uniti, il cui assioma è che nessun altra Potenza (e dunque nemmeno l’Europa) debba non solo superare, ma neanche eguagliare la potenza americana, e vogliono fare un mondo a propria immagine e misura.
Un’altra visione del mondo
Ma è una scommessa ad altissimo rischio. Perché il mondo non ci sta a questa riduzione, a questa assimilazione sotto lo scettro di un sovrano universale, e inevitabilmente resisterà. Le conseguenze saranno devastanti, a cominciare dalla guerra in Ucraina. Se la nostra scelta sarà che essa deve continuare con nessun altro esito che la sconfitta della Russia, se assecondiamo la proclamazione di Zelensky “Crimea o morte”, la previsione più sicura è che la Russia non si farà sconfiggere, non si farà umiliare o distruggere, e ciò vorrà dire che metterà in gioco tutte le sue forze e passerà a una guerra a tutto campo. Per l’Ucraina, che ha incautamente contato su di noi, sarebbe la fine, le sue sofferenze sarebbero inaudite, vittima di molti, offerta in sacrificio sull’altare di quelli che dovevano essere “i valori dell’Occidente”. È questo che volevamo, è questo che volevano i falsi amici e alleati che l’hanno spinta a combattere con le armi mandate da loro, senza negoziati, senza una politica, senza un progetto, contro le Costituzioni, istigandola a lottare “fino alla vittoria” e incriminando Putin, come se fosse il solo criminale in questa guerra senza uscita?
E che ne sarà dell’Europa? Se la Russia non vorrà soccombere alle porte dell’Europa, terra d’origine di tutte le invasioni, come potrà fermarsi la guerra e come potremo non esservi coinvolti?
Ma perché il mondo deve avere un solo sovrano, perché mettere il mondo sotto il sudario di un unico Impero? Non è la varietà di specie, di popoli, di lingue, di religioni, di ordinamenti, di culture, la sua gloria, la sua divina Babele? E non è la pace la sua autentica trama?
Del resto il mondo unipolare riducibile a un unico dominio, vagheggiato dopo la fine dei blocchi e la rimozione del muro di Berlino, non è mai esistito né esiste oggi; al recente “Summit for democracy”, India Messico e Armenia si sino dissociati dalle conclusioni sull’Ucraina, Ungheria e Turchia non sono state nemmeno invitate mentre in modo permanente i Paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) fanno parte per se stessi e molti altri hanno chiesto di aggiungersi a loro. Sono grandi Paesi, ma nel mondo che nella visione americana è diviso tra “democrazie” e “autocrazie”, essi, tolte la Russia e la Cina, sfumano in quella che viene chiamata “zona grigia”, cioè, sostanzialmente, nell’irrilevanza.
Eppure Il dollaro non è più l’unica moneta di scambio, e sull’energia e la catastrofe ecologica incombente, nonostante i paurosi arretramenti causati dalla guerra in Ucraina, sono in atto interrelazioni e cooperazioni molteplici.
Questo vuol dire che se c’è una visione unipolare, c’è anche una realtà multipolare; purtroppo l’Occidente non è arrivato a comprenderlo, sia che tenda al dominio sia che professi l’ideale democratico: esso è infatti ancora convinto che una sola cultura, la sua, abbia la soluzione ai problemi del mondo e che gli possa somministrare, come diceva Raimundo Panikkar, “la terapia dell’uomo planetario e della città pianeta”, che è di per sé prevaricante.
Naturalmente c’è il rischio che anche il mondo delle “autocrazie” obbedisca a logiche imperiali, che proprio loro e solo loro, come sostiene l’estremismo atlantico , siano gli Imperi, e questa è per l’appunto la ragione della contrapposizione frontale in atto; e anche se non ha senso l’idea che la Russia voglia invadere l’Europa, non c’è dubbio che esiste un nazionalismo russo, che esalta le spinte identitarie: e sono i due nazionalismi, russo ed ucraino , che alimentano una guerra ad oltranza come quella per il Donbass e addirittura per la Crimea. Ma proprio per questo non si può pensare che la regola del mondo sia la lotta tra gli Imperi, e che il suo ordine futuro stia nella vittoria e nel predominio di un Impero solo su tutti.
Per questo la via è sempre quella del diritto, della ricerca di accordi, del negoziato e della pace; ed è una sciagura quando si fanno falsi accordi, come quelli di Minsk, che secondo la Merkel dovevano servire solo per dare all’Ucraina il tempo di riarmarsi, o quando si esce da accordi cruciali, come quelli antimissili, come hanno fatto Stati Uniti e Russia.
Il progetto di una Terra armata, in cui il rapporto tra gli Stati sia di competizione e di sfida, dove si giochi una partita ad eliminazione tra i maggiori protagonisti, col grande Esercito dell’Occidente sul trono e la Russia e la Cina gettate fuori dalla scena, è il progetto di un mondo senza speranza. Vuol dire il passaggio dall’apocalisse visionaria e figurata di La Pira all’apocalisse reale, all’Armageddon com’è nell’immaginario americano, combattuto non negli ultimi tempi ma nel cuore di una storia in cammino. Le due strategie della sicurezza e della difesa nazionale degli Stati Uniti si tradurrebbero in strategie della fine, e il messianismo americano che doveva redimere il mondo si rovescerebbe in un’ultima distopia, in una contro-utopia che annuncia un futuro di catastrofi e di mali. Finora sono stati letteratura e cinema, con una gran quantità di romanzi e film, ad alimentare il finto racconto della fine. Quest’ultima distopia prospetta invece un futuro che non è una finzione ma può farsi realtà ad opera di poteri reali.
Un nuovo modo di pensare l’Occidente
Ma questo è ancora Occidente? Il suo vanto è di essere stato dispensatore di civiltà e sua pretesa è che ancora oggi sussista solo la sua. Non sa vedere gli altri, il fiorire delle altre identità. Civiltà sarebbe aprirsi alle nuove genti, liberarsi dalle antiche servitù. Dovremmo contribuire a riscattare l’Occidente dalla schiavitù della guerra, dalla sindrome dell’assedio, dalla paura dei poveri, dall’ossessione del primato; lo possiamo fare passando a un’altra visione del mondo, pensando in altro modo l’Occidente e passando in suo nome a comportamenti virtuosi.
Avere un’altra visione del mondo vuol dire mettere in campo altre strategie che non quelle della fine, vuol dire non considerare utopico partire da un altro principio, vuol dire sposare la Terra, restaurare l’integrità e la vitalità della natura, rovesciare le pratiche del geocidio.
Un altro modo di essere Occidente vuol dire riconoscere che sacro non è il territorio ma il popolo, sacra non è la sovranità ma è il limite che la rende compatibile con le altre, sacro non è il confine ma il varco, sacra è la donna come fonte di tutte le differenze, sacro non è l’essere per sé, ma l’essere con gli altri e per gli altri.
Da un nuovo Occidente, a partire dall’America, può nascere un mondo nuovo. Dalle gemme delle sue origini, della sua storia e delle sue tradizioni, quello che chiamiamo Occidente può trarre le risorse per assumere davvero una leadership non di un pezzo di mondo contrapposto e diviso, ma di un mondo multiforme ricomposto nell’unità della sua tormentata ascesa e del suo destino. Ciò vuol dire riconoscere la complessità del mondo, accettare gli altri, Qualcuno dice anzi di amarli, e lasciare che ognuno, persone e popoli, si svolga secondo la propria vocazione, vivendo la propria storia, non abitando nei sogni altrui, ma nei propri.
Il ruolo dell’ Italia e dell’ Europa
Il nostro appello è a dar vita a questo nuovo Occidente a partire dall’Italia con l’Europa, non in concorrenza o “competizione” con gli Stati Uniti, ma proprio restando loro amica ed alleata per costruire insieme “un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, come essi lo vogliono, e aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno, e che facevano ben prima dell’offesa di Putin, col volere la fine della Russia.
L’Europa, caduta oggi sotto il dominio della guerra e del denaro, può tornare agli ideali che l’hanno fatta nascere. Era nata per chiudere con le guerre, per togliere le dogane al carbone e all’acciaio, e non ai cannoni e ai carri armati, era nata per abbracciare i suoi popoli e farsi amica e accogliente degli altri. e perfino era decisa a fare rinunzie alla sua sovranità non per farsi serva di nessuno bensì per contribuire alla pace e alla giustizia tra le nazioni. E prima ancora di Spinelli e di Spaak, di Schumann e di Monnet, di Ursula Hirschmann e Simone Weil, di Adenauer e di De Gasperi, l’”idea di Europa” era cresciuta lungo un millennio, come l’avevano illustrata Erich Przywara e Friedrich Heer, tanto cari a papa Francesco, e come era stata sognata nelle lettere dei condannati a morte antifascisti della Resistenza europea.
Purtroppo oggi l’Unione Europea ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua identità, secondo il “progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento”, come aveva detto Francesco al Consiglio europeo del 25 novembre 2014.
Ma l’Europa ha le risorse per affrontare queste sfide, per dire in faccia al mondo che la guerra non è l’ultima parola della storia, e che l’unica risposta alla tragedia dei migranti è proprio quella che nessuno vuole ammettere, ma è l’unica adeguata e anche l’unica vera, ossia quella che inevitabilmente prevarrà nel lungo periodo: l’apertura delle frontiere, la via aperta agli esodi collettivi, il trasporto dei profughi sulle navi di linea, non più assimilato al “traffico di esseri umani”, il riconoscimento e l’effettivo esercizio dello “ius migrandi” e del diritto di mettere dovunque radici, che è stato tra i primi diritti umani universali affermati dall’Occidente all’alba della modernità, come fu teorizzato da Francisco de Vitoria per legittimare la conquista dell’America. Ne fu conseguenza il meticciato, cioè l’integrazione tra gli Spagnoli e gli Indios appena “scoperti”: ma dove non arrivò l’integrazione arrivò la sostituzione etnica ed il genocidio.
L’integrazione tra i popoli e lo scambio tra le etnie, sono infatti la modalità attraverso cui si è formato il mondo che conosciamo, e attraverso cui si conformerà il mondo che verrà. Senza integrazione etnica non ci sarebbe l’America che amiamo, anzi le due Americhe, e nemmeno l’Europa, e la Lombardia dei Longobardi, e gli Angli evangelizzati da papa Gregorio, e nemmeno il cristianesimo che è stato diffuso tra “le Genti” e ne ha ibridato e convertito le storie.
Oggi non si potrebbe lasciar scrivere a papa Francesco un’enciclica come “Fratelli tutti” se i fratelli non potessero incontrarsi, scambiarsi, accogliersi a vicenda, vivere insieme oltre le differenze di lingue, religioni, territori e culture, così come non si potrebbe pensare a un mondo ricomposto nella sua unità e salvaguardato da un ordinamento costituzionale per tutta la Terra, senza che il pluralismo e lo scambio tra i popoli siano riconosciuti e preservati nell’”armonia delle differenze”.
Governando e sostenendo questi processi, stornando le stragi, l’Europa può ritrovare la sua dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta ad unirsi. È per quegli ideali, non per essere “provincia” di un Impero che l’Unione Europea è nata, con la vocazione ad attraversare il Mediterraneo e a guardare a Sud, a Israele alla Palestina e al mondo arabo, a guardare ad Est, alla Russia e alla Turchia fino alla Cina, e ad Ovest, non a un’America sola, ma a tutte e due. In tal modo l’Europa potrebbe non solo essere “città di rifugio” per i disperati della Terra, ma proiettando la sua cultura farsi sponda di civiltà e modello per il mondo.
E l’Italia, con un atto solenne del suo Parlamento può convocare le Nazioni a una Conferenza che non distribuisca profitti di guerra né ridisegni la mappa di Amici e Nemici, ma istituisca la pace e la renda permanente garantendo di mantenere ciò che promette. Abbiamo la grande riserva del costituzionalismo realizzato: la comunità delle Nazioni è ancora chiamata a farsi Costituente della Terra, per promuovere un più avanzato costituzionalismo mondiale, e anche per far scaturire dalla fucina del costituzionalismo le scintille di molte Costituzioni radicate negli ordinamenti locali. Sarebbe gloria e vittoria dell’Occidente se il diritto delle persone e dei popoli e il ripudio della guerra ne fossero le norme fondanti. Proprio la sfida e la tragedia della guerra in Ucraina hanno mostrato come questo sia ancor più necessario.
Raniero La Valle e Domenico Gallo di “Costituente Terra”, Mario Agostinelli di “Laudato si”. Roberta De Monticelli, mons. Domenico Mogavero, già Vescovo di Mazara del Vallo, Francesco Zanchini, Paolo Bertagnolli, Federico Palmonari, Luisa Morgantini (Assopace), Giuseppe Deiana, Mauro Gentilini, Rossella Guadagnini, Maria Ricciardi Giannone, Luigi Colavincenzo, Eleonora Stillitani, Angela Dogliotti, Gabriele Attilio Curci, Rosario Grillo, Marcellina Leder, Dario Mencagli, Fausto Clemente, Donatella Coppi, Liviana Gazzetta, Francesco Battista, Mirella Ruo Bernucchio, Sandra Del Fabro, Roberta Guccinelli, Carla Poncina, Marina Corona, Francesca Scarpat, Pierpaolo Loi, Maria Monaco Masi, Joli Ghibaudi, Bruno Marchesi, Enrico Peyretti, Fernando Cancedda, Rossella Gaudagnini, Aldo Sebastiani, Wanda Guanella, Marco di Feo. Celeste Liverini, Mario e Manoela Casini, Mario Mangili, Luigi Mosca, Ennio Cabiddu, Enrico Bigli, Gian Marco Martignoni, Maria Cavalli, Mirelli Pelizzoni e Fabrizio Leccabue per la rivista “Dalla parte del torto”, Vincenzo Robles, Riccardo Valeriani, Angelo Cifatte, Gianfranco Monaca, Angelo Ballardini, Paolo Offer, Aldo Grilli, Tommaso Casanova, Maurizio Romoli, Maria Cavalli, Luca Chiarei, Uta Godai, Pito Maisano
Commento
- Marco di Feo
Crederci sempre, fino alla fine!
L’analisi di La Valle e Gallo tocca questioni vaste e complesse e traccia una panoramica di pericoli talmente probabili, da rischiare di apparire ineluttabili.
“Il progetto di una Terra armata, in cui il rapporto tra gli Stati sia di competizione e di sfida, dove si giochi una partita ad eliminazione tra i maggiori protagonisti, col grande Esercito dell’Occidente sul trono e la Russia e la Cina gettate fuori dalla scena, è il progetto di un mondo senza speranza. Vuol dire il passaggio dall’apocalisse visionaria e figurata di La Pira all’apocalisse reale, all’Armageddon com’è nell’immaginario americano, combattuto non negli ultimi tempi ma nel cuore di una storia in cammino”.
Tuttavia, in quanto esseri viventi animati da un’intima e vitale tensione all’autodeterminazione della nostra biografia e della nostra storia (Libertà), ed essendo radicati in una sorgente di bene (sensibilità) che può sempre essere rianimata dalla sete di giustizia, non possiamo cedere mai ad alcuna presunta destinazione ineluttabile. Nemmeno sul ciglio del baratro, nemmeno un istante prima della fine (e su questo proprio i film americani hanno inciso chilometri di pellicole). La grande fortuna ed opportunità è determinata oggi dal fatto che non ci troviamo ancora sull’uscio dell’Apocalisse. C’è ancora del tempo, sebbene sempre meno, e bisogna agire con intelligenza e con “cuore”, per riorientare la storia secondo le coordinate di un Logos generativo, ad un tempo efficace e assiologicamente radicato in valori “universalmente” condivisibili. Come indicatoci da Scheler, si tratta di valori che, essendo potenzialmente esperibili e apprezzabili da tutti gli esseri umani (valori materiali a-priori e non valor-ismi in cui predomina l’idolatria devastante di beni finiti), hanno il potere unico e straordinario di generare una condivisione potenzialmente illimitata ed essenzialmente ugualitaria. Uno dei cortocircuiti della vigente cultura e politica americana è quello di avere identificato la propria democrazia (bene finito) come un valore universale e dunque: 1. innegoziabile; 2. universalmente condivisibile. Nel cortocircuito accade che in nome della democrazia americana, la politica statunitense si è convertita in un imperialismo che ovunque minaccia o viola gli stessi valori che dovrebbero fondarla (tra i quali non c`è solo il valore della libertà, ma ci sono anche altri valori che sono determinanti per la custodia della libertà stessa, come la giustizia e la solidrietà). Se la democrazia non consente più di sperimentare e condividere tali valori, allora essa cessa di essere un bene. Se essa diventa la ragione per la loro violazione, allora anche la democrazia diventa un male. Chiaramente alla base del cortocircuito non vi è solo un fraintendimento culturale, ma svolgono un ruolo determinante interessi economici e aspirazioni imperialistiche che nulla hanno a che vedere con tali valori e per i quali la democrazia è solo lo strumento migliore per ottenere i loro scopi. Non si tratta di essere anti-americani (ogni anti-x ci ripoorta tutti sul ciglio del baratro), ma si tratta di riconoscere che si è configurato un Occidente statunitense, più ad ovest del nostro Occidente europeo. Si tratta di capire che le due aree geopolitiche non hanno la stessa storia, la stessa tradizione e lo stesso processo di autodeterminazione identitaria. Ci sono due Occidenti! O forse, sarebbe meglio chiederci: ci sono ancora due Occidenti diversi? Oppure ci siamo lasciati definitivamente fagocitare dal cortocircuito americano? Che ne è dell’Europa e dei valori che hanno promosso i nostri processi democratici? Questa è senza dubbio una domanda cruciale, non solo per noi, ma anche per il destino dell’umanità. Non perchè il mondo dipenda da noi (etnocentrismo), ma perchè il mondo ha bisogno di un modello alternativo, tanto alle autarchie asiatiche, quanto alla democrazia imperialistica americana. In questo momento, solo l’Europa avrebbe le risorse culturali, giuridiche e geopolitiche per attuarlo. Come? Con una forte presa di distanza da entrambe le parti, non in senso conflittuale, ma per ritagliarsi quell’autonomia politica ed economica per decidere autenticamente e seriamente di sè. Sapendo che questa decisione ha un peso decisivo per le sorti del mondo, prima che tutti (senza più distinzione di provenienza) ci ritroviamo sul ciglio del baratro e, guardandoci negli occhi, in un mix disperato di tremore e rimpianto, consegnamo la nostra libertà all’ineluttabile esito di un destino passivamente subito. Come attuare questa traumatica e rivoluzionaria presa di distanza? Come tradurla in un reale processo storico, liberandaola dal suo carattere utopico? In modo progressivo e senza rotture radicali, attraverso un processo politico (che passa prima di tutto dalla coesione interna, dalla comunione di intenti e dal primato innegozaibile della pace), sociale (che ponga al centro valori universali di giustizia e solidarietà, in cui tutti i cittadini europei e non europei possano potenzialmente riconoscersi), culturale (prima di tutto investendo sull’educazione delle nuove generazioni) ed economico (attraverso strategie che garantiscano una sempre più crescente autonomia e indipendenza, accanto a un benessere più diffuso e meno disparitario). Insomma un processo progressivo ma inarrestabile, fondato su valori universali. Un processo che richiede tempo, sacrifici e che deve essere strategicamente governato in tutta la complessità delle sue stratificazioni. Accanto ci deve sempre essere il supporto dal basso delle singole coscienze e delle loro forme di unione, attraverso prese di posizione collettive che rivendicano tale compito. In questo senso applaudo e sottoscrivo quanto dichiarato e auspicato dal protocollo sul ripudio della guerra. Con un’ultima sottolineatura, che la Laudato Si afferma con estrema chiarezza: non ci può essere giustizia sociale senza custodia del Pianeta e viceversa.
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