Pubblichiamo lo scritto di Raniero La Valle per la presentazione alla Fondazione Basso del libro di Domenico Gallo: Guerra ucraina, Delta 3 Edizioni
La visita di Zelensky in Italia e il suo giro per le capitali europee, con la benedizione degli Stati Uniti, conferma che la guerra è strutturale nella nostra società, nel senso che tutto l’ordine internazionale è fondato e strutturato sulla guerra, e dunque la guerra è la sua forma permanente, combattuta o in pausa che sia. Del resto è sempre stato così, dall’inizio della storia conosciuta, con l’eccezione nel Novecento della negazione della guerra come congenita all’uomo della Carta delle Nazioni Unite e della Pacem in terris di Giovanni XXIII e della Chiesa dopo di lui.
Ma la guerra non è compatibile con la democrazia; ciò vale anche in Italia dove, secondo l’art. 78 della Costituzione, lo “stato di guerra”, deliberato dalle Camere, è uno stato di eccezione – l’unico – che consente deroghe alle regole democratiche.
Tanto più ciò è vero nella comunità internazionale: non a caso all’inizio della guerra in Ucraina Zelensky ha chiesto lo scioglimento dell’ONU, poi non ha riconosciuto la Russia come presidente di turno del Consiglio di Sicurezza, mentre sono compromessi i tentativi di instaurare un più avanzato costituzionalismo mondiale. Pertanto la democrazia internazionale è sospesa.
Tuttavia la guerra non è la sola cosa che mette a rischio la democrazia in Italia. Ci sono molti altri sintomi e simboli che fanno risuonare un “allarme democrazia”, che è necessario riconoscere.
Prima di tutto mentre per sua natura la democrazia è inclusiva, la politica è oggi concepita in Italia, come in molti altri Paesi dell’Occidente, come una contrapposizione amico-nemico, secondo la teorizzazione che ne ha fatto Carl Schmitt. Le leggi elettorali maggioritarie e bipolari ne sono la conseguenza.
A metterci oggi sul “chi vive?” c‘è poi il rischio che è di tutte le democrazie, ed è che la democrazia è un regime meraviglioso ma fragile, che in modo dissimulato abusando degli strumenti rappresentativi e giuridici può rovesciarsi in autocrazia. Così è avvenuto col fascismo in Italia e il nazismo in Germania; può accadere che una forza politicamente e culturalmente non egemone che per un caso fortuito vinca le elezioni sostenga di dover restare al potere per assicurare il bene o la salvezza del Paese; e può accadere, come effettivamente è accaduto col Forum economico di Davos, che grandi poteri economici o politici internazionali premano sulle politiche nazionali perché “raffreddino” la democrazia.
Molte sono le democrazie, anche tra le più note, che si sono dimostrate vulnerabili e a rischio. Basta pensare agli Stati Uniti, dove si stava rovesciando addirittura un’elezione presidenziale e dove ci sono più stragi che scuole, al Brasile dove Lula è stato messo in carcere, alla Francia che promulga leggi sottratte al Parlamento, a Israele che perseguita i palestinesi e sovverte l’ordine giudiziario e la stessa Corte suprema. Anche in Italia la democrazia è stata più volte a rischio, col governo Tambroni (1960), il piano Solo (1964), le stragi, la collusione Stato-mafia, le Brigate Rosse, l’uccisione di Moro: ma allora c’erano i partiti di massa a presidiare la democrazia e le sezioni comuniste erano allertate quando il pericolo si faceva maggiore.
E oggi sono via via crescenti i sintomi dl pericolo a pochi mesi di distanza da elezioni estive sbadatamente gestite dai partiti, e sinistrate da un gran numero di astensioni, che hanno prodotto quasi per caso un governo di matrice culturale fascista.
Molti sono i sintomi di un’emergenza democratica, Non c’è solo la lotta ai migranti, l’introduzione di nuovi reati; c’è un uso spregiudicato dello spoil system, che se purtroppo viene considerato normale nell’attuale sistema politico, è uno strumento delicato in mano a poteri non affidabili. Grazie a esso il governo mette le mani su polizia e guardia di finanza, e nello stesso tempo (cosa mai vista, secondo Bersani) lo fa sulla RAI, l’INPS l’INAIL, ENI, ENEL, LEONARDO e POSTE Sui migranti è già stato introdotto lo stato di emergenza e Salvini controlla la Guardia costiera. .Un sintomo grave è la lunga sospensione delle conferenze stampa, sostituite dagli spot televisivi autoprodotti a palazzo Chigi dalla premier. Grave è stata anche l’appropriazione distorsiva che è stata fatta del 25 aprile e del 1 maggio, l’affronto ai sindacati di convocarli la sera prima del varo del decreto lavoro, l’implicita citazione fascista del motto “qui non si fa politica si lavora” (a proposito della festa del 1 maggio). C’è un fascismo profondo della Meloni, come dice Carlo Rossella berlusconiano ed ex direttore del TG1, che viene da lontano, cioè dalla cultura che ha generato il fascismo del Novecento e da questo è stata assunta nella sua forma peggiore, una cultura con cui la storia stessa ha stabilito una rottura epocale con la guerra antifascista e antinazista conclusasi con la Liberazione.
Quali sono i filoni negativi di quella cultura, fatti propri dai fascismi del Novecento, che sono stati travolti dalla rivoluzione della II guerra mondiale?
Il primo è il pensiero della diseguaglianza per natura tra gli esseri umani. È un pensiero che viene dalla società signorile che discriminava tra signori e servi, è passato attraverso il regime di cristianità, ha legittimato la conquista dell’America e il genocidio degli Indios nella loro inferiorità rispetto agli Spagnoli (si sospettava non avessero l’anima). La diseguaglianza per natura è stata poi teorizzata da Hegel nella distinzione tra popoli della natura e popoli dello spirito, da Nietzsche per il quale “gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono esserlo!”, fino a Croce che contrappone gli “uomini che appartengono alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e di ciò incapaci”, i quali ultimi “zoologicamente e non storicamente sono uomini”, motivazione questa di tutti i razzismi passati e presenti: è chiaro quindi perché i post-fascisti cultori dell’integrità della “Nazione” militano contro “la sostituzione etnica” e sognano il blocco navale contro i migranti.
Il secondo tabù che è stato rimosso dopo la sconfitta dei fascismi novecenteschi è il pensiero della sovranità incondizionata. Essa viene dall’età degli antichi Imperi, è passata attraverso la definizione di Marino da Caramanico della sovranità come la sovranità del potere che non riconosce alcun altro potere “superiorem” (souverain”), al di sopra di sé, è stata teorizzata da Hobbes che nello Stato moderno vede un mostro biblico, il Leviatano, che uscendo dallo stato di natura e facendosi, come dice Ferrajoli, “lupo artificiale” , monopolizza la violenza e promette sicurezza in cambio della libertà. Il feticcio della sovranità giunge poi fino allo Stato etico del nazismo e a Giovanni Gentile; è chiaro quindi perché i sovranisti ce l’hanno con l’unità europea e preferiscono obbedire alla NATO e al Pentagono piuttosto che sposare il multilateralismo costituzionale e appellarsi al sistema di sicurezza dell’ONU.
La terza costante perversa che ha attraversato la storia è il pensiero di guerra. Esso viene dagli albori della nostra cultura, dal frammento di Eraclito che fa della guerra “il padre e il re di tutte le cose”, passa attraverso la teologia medioevale della guerra giusta, sopravvissuta fino a papa Giovanni; nel passaggio alla modernità la guerra è esaltata dallo stesso Hegel quale igiene dei popoli e antidoto al loro “infiacchimento” allo stesso modo in cui “il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione come vi ridurrebbe i popoli una pace durevole o perpetua”, essa è poi teorizzata dal generale prussiano von Clausewitz, è assunta, col Nemico, da Carl Schmitt quale “criterio del politico”, fino al “credere obbedire combattere” del fascismo. Dopo la sospensione garantita dalla deterrenza nucleare durante la guerra fredda, è recuperata appena la guerra fredda finisce nel conflitto del Golfo e giunge fino alla “competizione strategica” di Biden che “culmina nella sfida con la Cina” e al “vinceremo” di Zelensky; è chiaro quindi perché chi manda le armi nella gara che sta devastando l’Ucraina e convoca poi le imprese per restaurarla, ignora il ripudio costituzionale della guerra e recita due parti in commedia, di distruzione e ricostruzione.
Dalla vecchia cultura viene anche la concezione del lavoro come spregevole, tanto che all’inizio era addossato ai servi e risparmiato ai signori, ed attraverso una lunga storia è arrivato a noi come lavoro schiavo, lavoro merce, sempre alienato e sfruttato, mentre la Costituzione lo mette a fondamento stesso della Repubblica democratica
Ma il segnale più grave della crisi democratica è il precipitoso tentativo di Giorgia Meloni di istituzionalizzare un potere personale mediante riforme costituzionali volte al presidenzialismo e al premierato. Giorgia Meloni, benché affermi di voler instaurare un sistema che dia più stabilità ed efficienza al sistema, si dice indifferente alla scelta tra presidenzialismo e premierato elettivo, anche se c’è una grande differenza tra le due ipotesi: le basta che ci sia qualcuno eletto al comando. Ciò rivela la ragione personalissima per cui la presidente del Consiglio intraprenda con tale urgenza la via delle riforme costituzionali. Il suo governo è scaturito da un’elezione estiva, con la complicità di una cattiva legge elettorale, di un forte astensionismo e della sbadataggine dei partiti oggi all’opposizione. È molto difficile, se non impossibile, che queste condizioni abbiano a ripetersi. Volendo perpetuare il suo potere oltre gli anni di questa legislatura, l’unica strada per lei è l’elezione popolare diretta, non importa a quale delle due cariche, nell’idea che il favore degli attuali sondaggi ad personam si traducano in un voto plebiscitario a suo favore. D’altra parte le riforme sono state sbrigativamente proposte all’opposizione parlamentare ma dalla destra predestinate a farle “anche da sola”. Ora elezione diretta e autonomia differenziata per le regioni come ha scritto Tomaso Montanari, sono la tenaglia con cui verrebbe distrutta la Costituzione della Repubblica.
Tutto ciò inserito nella struttura di guerra imposta all’ordine mondiale, nella ormai iperbolica diseguaglianza di condizioni di vita e di reddito tra ricchi e poveri, nella sovranità del capitalismo globalizzato, susciterebbe allarme chiunque fosse al potere.
In Italia c’è oggi il rischio aggiunto della debolezza della eventuale resistenza che fosse necessaria: i partiti sono stati smontati e solo ora in via di restaurazione-le culture democratiche sono appannate; anche tra i cattolici avanza una nuova debolezza, molti sono diventati post-teisti, pensano che Dio sia una cosa del passato, premoderna, e ora bisogna fare tutto da soli. Ma i cattolici che fanno tutto da soli non sono un gran che.
Tutto questo oggi dice perché oggi ci sia un “allarme democrazia”. Personalmente non vorrei che quello che non ho fatto a 13 anni per conquistare la democrazia, dovessi farlo a 92 anni per difenderla.
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