1. I confini non sono la norma, ma un’eccezione storica
“In political psychology, even schizophrenia is normal. When citizens of any State are at home, they want to know that their state borders are defended and policed as rigorously as possible. But when they travel abroad, they want borders to be as porous as possible, and ideally invisible. They don’t want to be held up at borders, but they want others entering their country to be stopped at the border and prevented from entering. At their destination, they want to experience the ‘Other’ as ‘an interesting different culture’, but at home they perceive the ‘Other’ as a threat to ‘our culture’. The sudden disappearance of borders can spark euphoria, as we saw with the fall of the Berlin Wall, and indeed of the rest of the Iron Curtain, but citizens want the borders back again when it appears that the people from ‘over there’ want to come over here looking for work. They drive ‘over there’ themselves if it’s cheaper to buy stuff there, but they don’t understand it when people want to come ‘over here’ to earn more. When they want to claim their human rights, concerned citizens can quote chapter and verse to prove these are ‘universal’; but in the face of claims by others they want to fence them off as a part only of their own national law (Guerot, Menasse 2016)”1
Con queste parole Ulrike Guerot e Robert Menasse descrivono il rapporto schizofrenico dell’opinione pubblica nei confronti dei confini2. Questi appaiono una realtà normale, addirittura una necessità ovvia; invece, sono tutt’altro che la norma, bensì un’eccezione, una creazione piuttosto recente. L’assenza di confini nazionali demarcati da omogeneità etnica e linguistica era la condizione normale dell’Europa dal Medio Evo fino al XIX secolo; le differenze culturali e gli ostacoli geografici non separavano i popoli europei, che condividevano comuni caratteristiche al di qua e al di là dei fiumi e dei crinali montani (Guerot, Menasse 2016). La natura non ha mai avuto dei confini.
Documenti per viaggiare erano in uso fin dall’antichità, ma nell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale in Europa ci si poteva muovere liberamente senza passaporto né visti. Un rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro del 1922 affermava che nell’Ottocento non c’erano ostacoli alle migrazioni e ogni migrante poteva decidere quando partire, quando arrivare o quando tornare, secondo le proprie convenienze3. John M. Keynes così descriveva la situazione della società europea prima del 1914:
Quale straordinario episodio nel progresso economico dell’umanità fu quell’era che si chiuse nell’agosto del 1914… Un londinese poteva ordinare per telefono, sorbendo in letto la mattutina tazza di tè, i più disparati prodotti esistenti nel mondo, in quella quantità che meglio gli aggradiva, ed attendersene ragionevolmente la pronta consegna alla porta stessa di casa… Egli poteva assicurarsi, se ne avesse avuto il desiderio, comodi mezzi di trasporto a buon mercato, verso qualsiasi clima o paese, senza passaporto o altre formalità… la minima intrusione o il minimo ostacolo lo avrebbero assai contrariato e sorpreso. Ma, cosa più importante di tutte, egli considerava questo stato di cose come normale, del tutto certo e permanente, salvo che nella direzione di un ulteriore incremento, e ogni deviazione gli appariva aberrante, scandalosa, da sfuggirsi. I progetti e la politica del militarismo e dell’imperialismo, le rivalità di razza e di cultura, i monopoli, le restrizioni, le esclusioni non erano altro per lui che storielle del suo giornale quotidiano, Pareva quasi non esercitassero alcuna influenza sul corso ordinario della vita economica e sociale, la cui internazionalizzazione era praticamente quasi completa (Keynes 1920, pp. 9-10). Fu la prima guerra mondiale a imporre l’uso del passaporto e i controlli di frontiera per motivi di sicurezza. Fiumi e monti divennero limiti difficilmente valicabili, furono considerati confini naturali, confini che in realtà erano stati definiti artificialmente dagli uomini per lo più a seguito di una guerra.
Una conferenza internazionale sui passaporti (International Conference on Passports, Customs Formalities and Through Tickets) si riunì a Parigi dal 15 al 21 ottobre 1920 nell’ambito della Società delle Nazioni, incaricata “with the study of the methods necessary to facilitate international passenger traffic by rail, at present more especially hindered by passport and Customs formalities”, e riconobbe che “many difficulties affecting personal relations between the peoples of various countries constitute a serious obstacle to the resumption of normal intercourse and to the economic recovery of the world”.4 La conferenza, tuttavia, dovette ammettere che le preoccupazioni per la sicurezza impedivano per il momento l’abolizione delle restrizioni alla libera circolazione delle persone, decise l’uso generalizzato dei passaporti e ne definì le caratteristiche. La decisione fu adottata in via provvisoria, in attesa di ritornare alle condizioni pre-belliche (“complete return to pre-war conditions which the Conference hopes, nevertheless, to see gradually re-established in the near future35”)6. L’obiettivo di abolire i passaporti fu riproposto negli anni successivi47, ma le esigenze di sicurezza prevalsero sempre sui diritti di libertà.
Dopo la prima guerra mondiale si consolidarono le caratteristiche attuali della frontiera politica, che racchiude il noi, il connazionale, in uno spazio che si vuole omogeneo, protetto, sicuro, quando non etnicamente puro, e lo separa dall’altro, il diverso, lo straniero, il potenziale nemico, in quanto tale privo dei diritti politici (diritto elettorale attivo e passivo ecc.). Il confine delimita e include il noi e crea ed esclude l’altro. Con l’istituzione dei confini si è rinunciato ad alcune libertà (libertà di circolazione, di cercare un lavoro altrove, di studiare all’estero), la cui privazione, in cambio di una maggiore sicurezza, è stata accettata come un fatto naturale.
Oggi esistono 323 frontiere politiche terrestri che si estendono per circa 250.000 chilometri, di cui un centinaio in Europa per una lunghezza di circa 37.000 chilometri; altre forme di frontiera, ad esempio culturali (lingua, religione, civiltà), non corrispondono quasi mai a quelle politiche internazionali (Tertrais, Papin 2018, p. 29, 40, 48). Circa un terzo dei confini europei sono stati tracciati fra gli anni 1990 e 1993; all’inizio degli anni Novanta nell’Europa centro-orientale gli Stati erano 9; nel 2006 se ne contavano 22 a seguito del collasso dei paesi comunisti (Bocchi, Ceruti 2009, p. 7). La frontiera più lunga è quella fra Stati Uniti e Canada, 8900 chilometri; quella più corta fra Spagna e Regno Unito a Gibilterra, un chilometro.
2, La globalizzazione e il declino dei confini
La globalizzazione e il regionalismo, con la formazione del mercato globale e l’istituzione di organizzazioni internazionali e di integrazioni regionali dotate di competenze specifiche, hanno messo in crisi il sistema internazionale formatosi con le paci di Westphalia del 1648. L’unità costitutiva del sistema westphaliano era lo Stato sovrano superiorem non recognoscens, esercitante una sovranità assoluta all’interno di un territorio determinato che circoscriveva il limite dell’autorità dello Stato e dell’esercizio del suo potere, in particolare il monopolio dell’uso legittimo della forza. Questa invenzione europea si era poi diffusa in tutto il mondo all’epoca del colonialismo. A seguito dell’odierno processo di trasformazione del sistema internazionale verso una configurazione post-westphaliana, i concetti di sovranità, legittimità, identità, lealtà sono mutati e sono stati attribuiti a strutture territoriali superiori e inferiori allo Stato. Globalizzazione e regionalismo hanno minato l’importanza dei confini e lo Stato nazionale è diventato troppo piccolo per rispondere a problemi internazionali generati dall’interdipendenza globale, coinvolgenti più Paesi, e nello stesso tempo troppo grande per quei problemi che risultano meglio amministrati dalle entità territoriali inferiori.
Globalizzazione, apertura dei commerci, deterritorializzazione di molte funzioni, sviluppo delle comunicazioni hanno portato all’obsolescenza dei confini, divenuti sempre più porosi. Le attività economiche si sono diffuse indipendentemente dalle frontiere politiche, come quelle culturali che si sono intensificate grazie alle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni. Il mondo è diventato un villaggio globale8, si sono moltiplicate le istituzioni internazionali dedicate a rispondere ai bisogni comuni a più Paesi, dando origine alla governance. Gli strumenti di governance si sono sviluppati in assenza del government, cioè di un potere sovrano legittimato a governare, con le conseguenze derivanti dall’assenza di tale potere sovrano sulla legittimità e sull’efficacia degli organismi di governance, che non sono in genere elettivi e quindi non sono responsabili verso i cittadini. Viene meno inoltre la corrispondenza tra il livello del governo democratico, ancora nazionale, e i beni pubblici cui deve provvedere, ormai internazionali.
La globalizzazione ha messo in crisi gli elementi costitutivi dello Stato moderno: la sovranità, ridimensionata dalle interdipendenze globali e dalla presenza di organizzazioni sovraordinate; il territorio, svalutato dalla deterritorializzazione di molte funzioni; la popolazione, il consenso della quale è la fonte della legittimazione dei governanti, legittimazione che difetta quando le decisioni di questi provocano effetti su altri Paesi le cui popolazioni non hanno partecipato all’elezione dei decisori.
Queste mutazioni quale effetto producono sui confini? La società della globalizzazione, che mette in crisi lo Stato moderno che ha istituito i confini e i controlli per il loro attraversamento, presuppone un mondo senza più frontiere?
Il mercato è diventato globale, ma la politica è rimasta nazionale, quindi incapace di gestire i fenomeni che trascendono l’ambito nazionale, mettendo in crisi il rapporto tra democrazia e mercato. I sistemi politici statali, per esempio, subiscono le scelte delle imprese multinazionali orientate alla massimizzazione del profitto e non sono più in grado di rispondere efficacemente ai bisogni dei cittadini, pregiudicando così le istituzioni democratiche, che appaiono sempre più inefficaci agli occhi dell’opinione pubblica, e i meccanismi della rappresentanza politica. È la crisi degli Stati nazionali, che nel secondo dopoguerra avevano realizzato forme avanzate di welfare state e di emancipazione dei ceti più svantaggiati.
La globalizzazione, la liberalizzazione dei commerci, la deterritorializzazione sembravano comunque abbattere le frontiere; in questo scenario l’Europa decideva di istituzionalizzare il superamento dei confini politici con un trattato che abolisse quelli interni e realizzasse la piena libertà di circolazione.
3. Il progetto europeo
Gli Stati nazionali si sono formati nella guerra, coltivando ambizioni espansionistiche e colonialistiche a danno dei vicini, e sull’elaborazione di stereotipi negativi circa gli stranieri, sulla loro esclusione dal godimento dei diritti di cittadinanza, in quanto potenziali nemici. Hanno definito confini, supposti naturali, per circoscrivere un territorio dichiarato appartenente a una specifica nazione, identificata su base etnico- linguistica, allo scopo di separare i membri della comunità nazionale dagli altri, ignorando il diffuso carattere multietnico del continente. Lo Stato nazionale è ricorso anche a simbologie religiose per conferire solennità al senso di appartenenza alla nazione (altare della patria, martiri della patria, la difesa della patria è stata dichiarata sacro dovere del cittadino).
Il progetto europeo, al contrario, è nato come progetto di pacificazione, di superamento delle divisioni che avevano insanguinato per secoli il continente, di integrazione e di inclusione, di superamento degli antagonismi nazionali, di sdrammatizzazione e ridimensionamento dei confini, di riconciliazione fra popoli per secoli nemici, di ricomposizione a livello sovrannazionale della sovranità perduta dai singoli paesi a livello nazionale. Non solo, l’Europa non ha (finora) eretto barriere che la separassero dal resto del mondo ed è sempre rimasta aperta agli influssi esterni; la stessa identità europea è il frutto dell’intreccio fra le diverse identità nazionali arricchite dall’apporto delle civiltà extra-europee.
Il progetto conteneva fin dalle origini in nuce l’obiettivo dello smantellamento delle frontiere grazie alla libera circolazione delle merci, dei lavoratori, dei capitali e dei servizi. Stimolava lo sviluppo della cooperazione transfrontaliera e l’istituzione delle euroregioni, che favorivano la cooperazione tra le aree confinanti di paesi diversi. L’Atto unico europeo poneva l’obiettivo, da conseguire entro il 1° gennaio 1993, del mercato unico, cioè l’eliminazione degli ostacoli fisici, tecnici e fiscali alle quattro libertà di circolazione.
L’abolizione delle frontiere era resa possibile dal venir meno del pericolo di guerra tra i paesi membri delle allora Comunità grazie al processo di pacificazione avviato dall’integrazione e al superamento del secolare antagonismo franco-tedesco, come peraltro previsto dalla Dichiarazione Schuman:
La messa in comune delle produzioni del carbone e dell’acciaio assicurerà immediatamente la creazione di basi comuni di sviluppo economico, prima tappa della federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni da tempo votate alla fabbricazione di armi da guerra di cui sono state vittime costanti. La solidarietà di produzione così costituita renderà manifesto che ogni guerra fra la Francia e la Germania diventa non soltanto impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno parteciparvi e che dovrà fornire a tutti i paesi che raggrupperà gli elementi fondamentali della produzione industriale alle stesse condizioni, porrà le fondamenta concrete della loro unificazione economica (Levi, Morelli 1994, p. 84). Nel 1985 era firmato l’accordo di Schengen che eliminava i controlli alle frontiere interne dell’Unione Europea (UE), cioè ripristinava ciò che era stato normale nei secoli precedenti, un’Europa senza confini nazionali dove gli individui di qualsiasi nazionalità potessero muoversi liberamente e dove i loro diritti fossero rispettati; prevedeva, inoltre, la cooperazione fra i paesi membri per garantire la sicurezza all’interno dello spazio Schengen e criteri comuni per i controlli alle frontiere esterne.
Schengen, però, è rimasto un progetto incompiuto: ha, parzialmente, smantellato i confini interni e garantito la libertà di movimento, ma non ha creato un confine esterno europeo comune sorvegliato da una guardia di frontiera europea. Soluzione questa necessaria, ma in ogni caso ancora parziale perché riduce il problema dei confini a una mera questione di sicurezza, la cosiddetta Europa fortezza, e ignora le interrelazioni mondiali create dalla globalizzazione che, senza un governo politico sovrannazionale, rimane senza regole e quindi anarchica.
4. Geografia e confini nell’integrazione europea
L’Europa non ha finora definito i propri confini né la geografia è mai stata un criterio condizionante per stabilire i criteri di adesione. L’art. 49 del trattato sull’UE, che ha ripreso l’art. 237 del trattato che istituiva la Comunità Economica Europea, recita: “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione”. La condizione per far parte dell’Unione è dunque essere un paese europeo, che può essere interpretata in senso geografico, storico o politico. Alla geografia si è fatto riferimento nel caso della domanda di adesione del Marocco, presentata nel 1987 e respinta dal Consiglio con la motivazione che non era uno Stato europeo. La Turchia, invece, che aveva fatto parte nell’Ottocento del concerto europeo, ha ottenuto lo status di paese candidato nel 1999, nonostante la parte preponderante del territorio turco sia situata nel continente asiatico; i negoziati, tuttavia, non si sono ancora conclusi e sembrano arenati.
La nascita e la crescita dell’UE non si sono ispirate a criteri geografici, né a criteri linguistici, religiosi o etnici; sono avvenute per motivi storico-politici determinati da profondi mutamenti intervenuti sia nel quadro internazionale (la fine del sistema europeo degli Stati, la nascita del mondo bipolare, l’egemonia americana che garantiva la sicurezza dei paesi europei) sia in quello interno che esigeva una risposta comune a problemi specifici, quali la ricostruzione della Germania, la garanzia di stabilità dopo la caduta dei regimi comunisti, l’assicurazione della pace, la promozione dello sviluppo economico9.
Quando gli Stati decisero di fissare dei criteri per valutare le domande di adesione all’UE, questi furono ispirati a principi politico-economici. Sono i cosiddetti criteri di Copenaghen, convenuti nel vertice tenutosi nella capitale danese nel 1993: la presenza di istituzioni stabili garanti della democrazia, dello stato di diritto, dei diritti dell’uomo, del rispetto delle minoranze e della loro tutela; l’esistenza di un’economia di mercato affidabile e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’UE; l’attitudine necessaria per accettare gli obblighi derivanti dall’adesione e la capacità di attuare efficacemente le norme, le regole e le politiche che formano il corpo della legislazione dell’UE (l’acquis communautaire), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.
5. La rinascita delle frontiere
L’incertezza circa il futuro, la crisi economica, il terrorismo, i flussi migratori hanno suscitato nell’opinione pubblica incertezza e paure, sollecitato la richiesta di sicurezza, diffuso la sensazione che la soluzione a tali problemi stesse nel rinchiudersi dentro i confini nazionali. Ovunque in Europa, anche in paesi di antica tradizione democratica, è sorta la domanda di ripristinare i controlli ai confini, di erigere muri, di costruire barriere come protezione, illusoria, contro presunte invasioni, in modo da lasciare fuori l’ “altro”, considerato una minaccia per i nostri valori. Protezione illusoria perché nessuna barriera ha mai scoraggiato i disperati dal tentare la fuga verso migliori e più sicure condizioni di vita; come terroristi e criminali non sono solitamente identificati e arrestati mentre attraversano i confini. La costruzione di barriere ha lo scopo di dare una risposta securitaria a coloro che temono l’immigrazione e individuano nell’immigrato il capro espiatorio responsabile dei mali della società. In questo modo si contribuisce ad alimentare la politica della paura utilizzata dalla propaganda populista, abile a sfruttare questi timori a fini elettorali, senza peraltro risolvere i problemi di sicurezza. La percezione dell’insicurezza dipende anche da come il ceto politico affronta questi problemi e dalle soluzioni proposte. In un mondo sempre più interrelato che richiede cooperazione, si accende invece l’odio verso il diverso, si diffonde l’egoismo, si innalzano barriere.
I sondaggi rivelano che coloro che vogliono mantenere le frontiere aperte in Europa costituiscono ormai una minoranza. In Italia, di fronte al problema dell’immigrazione e della sicurezza, il 56,4% degli intervistati vuole ripristinare i controlli, sempre, non solo in circostanze particolari, mentre il 27,7 in circostanze particolari e solo il 13% conservare comunque la libera circolazione10. La richiesta di ripristinare i controlli alle frontiere è influenzata dall’orientamento politico (è largamente prevalente nell’elettorato di destra e centro-destra, mentre diminuisce in quello di centro-sinistra) e dall’età (è diffusa soprattutto fra gli anziani mentre cala fra i giovani, la generazione Erasmus che ha studiato all’estero).
Il mondo post-bipolare, dopo le speranze di apertura suscitate all’inizio degli anni Novanta, ha visto il ritorno alla chiusura e sembra avere più muri del mondo bipolare, diviso da quello di Berlino8. Come ha scritto Carlo Greppi, “trent’anni fa, quando crollava il Muro di Berlino, pensavamo che fosse finita un’epoca: ma era solo un nuovo inizio” (Greppi 2019). In una società sempre più interconnessa, i cittadini sentono invece il bisogno di chiudersi dentro il proprio Paese, di innalzare barriere, spaventati dalla politica della paura che fa intravvedere minacce alla sicurezza, al benessere, all’identità nazionale. Tali sentimenti suscitano anche il bisogno di rafforzare il senso di appartenenza, che sembra offrire protezione e sicurezza. L’istinto, l’irrazionale prevale sul razionale, si diffondono razzismo e xenofobia che indeboliscono la democrazia e incrinano il consenso dei cittadini verso lo Stato democratico.
6. Problemi posti dal ritorno dei confini
Secondo Sabino Cassese, il ritorno dei confini pone tre problemi alla coscienza moderna (Cassese 2015).
In primo luogo, erigere muri comporta per chi fugge dalla guerra o dalla fame la perdita non solo dei diritti, ma del diritto ad avere diritti. L’erezione di barriere priva i profughi di quelle protezioni che derivano dall’appartenenza a una comunità; comporta l’espulsione dall’umanità, l’essere relegati in un limbo giuridico, se non la condanna alla morte.
Come ricordava Hannah Arendt a proposito dei profughi,
una volta lasciata la patria d’origine essi rimasero senza patria, una volta lascito il loro stato furono condannati all’apolidicità. Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono a essere senza alcun diritto…La prima perdita da loro subita è stata quella della patria, cioè dell’ambiente circostante, del tessuto sociale in cui sono nati e in cui si sono creati un posto nel mondo. Una simile sventura è tutt’altro che senza precedenti… Quel che è senza precedenti non è la perdita di una patria, bensì l’impossibilità di trovarne una nuova… La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e delle libertà di opinione, ma nel non appartenere più ad alcuna comunità… Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti solo quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso» (Arendt 1999, pp. 372, 406-407, 409-411). Tra i diritti dell’uomo ci sono anche quelli di avere una patria e di scegliere la regione del mondo dove vivere.
In secondo luogo, la chiusura delle frontiere è disposta da paesi che si richiamano alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese (prima dell’uomo che del cittadino, nota Cassese) e che hanno sottoscritto la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni unite del 1948 e che sono dunque tenuti a garantire non solo i diritti dei connazionali, ma di tutti gli individui. L’art. 13.2 della dichiarazione universale recita: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese”. Dunque, i diritti dell’uomo vanno riconosciuti indipendentemente dalla nazionalità.
Infine, secondo Cassese, la chiusura nazionalistica ripropone l’interrogativo: che cosa è una nazione? Una nazione è un gruppo sociale caratterizzato da una lingua comune, da tradizioni e costumi condivisi, oppure è una comunità di ideali più ampi, che si allargano anche a chi non vi è nato? è una comunione di interessi o anche una comunanza di principi, tra cui quello di dare asilo a chi fugge da guerre e persecuzioni nella propria patria? La nazione implica un’appartenenza definita dal sangue, dal ceppo genealogico, che porta all’aberrazione dello Stato monoetnico e alla pulizia etnica? oppure è partecipazione a una collettività più vasta che include tutti i residenti nel territorio, indipendentemente dal luogo di nascita, che decidono di vivere insieme nell’osservanza delle stesse leggi e dotati di eguali diritti e doveri? L’elemento identitario della cittadinanza (cosmopolitica) diventa il patriottismo costituzionale di Habermas nei cui valori i cittadini si riconoscono indipendentemente dal luogo di origine. La cittadinanza è così separata dall’origine etnica e legata alla residenza ed è aperta a tutti coloro che scelgono di vivere in un quel dato territorio.
Fernando Savater ricorda che nel Medioevo esistevano i servi della gleba legati al terreno che coltivavano; oggi ci sono i cittadini della gleba, cioè cittadini che sono tali in quanto l’esercizio dei loro diritti di cittadinanza è vincolato al territorio dove sono nati11.
L’Europa aveva avviato una risposta a questo problema con il trattato di Maastricht, che istituiva la cittadinanza europea. Il godimento di alcuni diritti (per esempio, il diritto elettorale attivo e passivo alle elezioni europee e comunali) veniva separato dalla nazionalità e basato sulla residenza; ma la cittadinanza europea, dopo essere stata istituita, non si è sviluppata, non ha esteso il suo ambito a nuovi diritti, è rimasta embrionale.
Se la nazione non è una comunità di sangue, ma include tutti coloro che vivono su un determinato territorio e condividono i principi fondamentali del vivere insieme, quale atteggiamento deve sviluppare l’Europa verso i rifugiati che premono alle sue frontiere? Che cosa può offrire loro?
Gli stranieri che sono arrivati e che arriveranno in Europa, e di cui l’Europa ha bisogno, non possono essere relegati in un ghetto, in una sorta di esilio interno, con la conseguente formazione di due società, di cui una senza diritti, radicalizzata e ostile ai valori occidentali. Secondo Étienne Balibar la risposta è l’accesso alla cittadinanza europea, con i diritti sociali e culturali connessi, compreso il diritto al lavoro. Balibar propone provocatoriamente un’alternativa: istituire, accanto all’accesso alla cittadi- nanza europea attraverso la strada della cittadinanza nazionale, un accesso diretto a una nazionalità federale; oppure la generalizzazione dello jus soli in tutta l’UE, in modo da garantire l’avvenire ai figli dei rifugiati, fattore di integrazione per gli stessi genitori. Per far ciò, secondo Balibar occorre che questa nozione esca dal limbo nel quale è relegata dal rifiuto degli Stati di aprire la strada alla sopranazionalità12.
L’accoglienza presenta, ovviamente, dei costi che gli Stati non sono oggi in grado di sostenere. Occorre allora aumentare il budget dell’UE e promuovere politiche di solidarietà fra gli Stati membri, come peraltro imposto dall’art. 3 del Trattato sull’Unione13. Ciò pone il problema di mettere in grado l’UE di agire in questa direzione, cioè il problema delle riforme istituzionali tese a rafforzare i poteri comunitari.
7. L’Europa cosmopolitica e federale
Da un lato il confine è utile per definire l’identità di un gruppo e sviluppare il senso di appartenenza alla comunità, elementi indispensabili per la vita sociale. Aiuta a definire il noi, oltre a permettere l’organizzazione dello spazio e delimitare l’autorità dello Stato che regola la vita collettiva su quel dato territorio. Ma dall’altro lato, se i confini diventano barriere, la chiusura all’interno delle frontiere nazionali provoca isolamento, stagnazione, emarginazione; senza apertura verso l’esterno, non c’è espansione, culturale prima ancora che economica, e il paese è condannato alla decadenza. La frontiera aiuta a definire il noi, ma deve anche aprirsi per includere l’altro. Il confine deve essere aperto e poter essere superato.
Tuttavia, quando si sviluppano processi di rapidi mutamenti che producono destabilizzazione e aumentano incertezza e insicurezza, si rafforza il bisogno di identità e di appartenenza, come sta accadendo in Europa da alcuni anni a seguito della crisi. Da qui la richiesta di chiudere i confini per garantire sicurezza e proteggere la propria identità; il confine è percepito come la barriera protettiva che tutela la nostra identità e i nostri interessi dalle minacce esterne.
La riconciliazione del noi con l’altro può avvenire con la separazione di Stato e nazione, due elementi differenti che si sono sovrapposti nel corso dell’Ottocento per formare lo Stato nazionale sulla base del principio di nazionalità: a ogni nazione (gruppo sociale ritenuto omogeno in quanto si suppone condivida ab origine lingua, storia, usi e costumi, religione, per qualcuno anche il sangue) doveva corrispondere uno Stato indipendente (un’autonoma organizzazione della vita collettiva) al fine di meglio salvaguardare l’identità nazionale. Come la separazione di Stato e Chiesa permette la pratica di diverse religioni all’interno dello Stato laico, così la separazione di Stato e nazione permette la convivenza di diverse popolazioni sotto una stessa legge, accomunate dall’osservanza dei principi fondativi della comunità, indipendentemente dal colore della pelle, della religione professata, della lingua materna, dell’etnia.
Ricorda sempre Savater che occorre deterritorializzare la cittadinanza, separarla dal luogo di origine, dalla comunità genealogica che ci tiene ancorati al passato e farla dipendere dalla stessa legge, da eguali diritti e doveri, che la legano all’universale e non più a tradizioni locali. Si è europei non per la purezza di sangue, ma per l’accettazione di regole condivise: l’Europa cosmopolitica accoglie come cittadini tutti i residenti indipendentemente dalla loro origine; l’Europa federale, dotata di effettivi poteri sovrannazionali, garantisce l’eguaglianza dei diritti (e dei doveri) a tutti gli abitanti e supera l’Europa nazionalistica che ha portato alle guerre mondiali.
La cittadinanza cosmopolitica e il superamento dei confini come barriere fra i popoli implicano il superamento della logica nazio-centrica con cui guardiamo alla realtà esterna, logica basata sulla centralità dello Stato nazionale e che forma il sostrato culturale che presiede all’erezione dei nuovi muri. Siamo abituati a considerare i problemi politici, economici, sociali dal punto di vista della nostra nazione, come se tutto il resto le ruotasse intorno. Secondo questa logica, i cittadini di ogni paese ritengono il proprio punto di vista nazionale corrispondente alla realtà e indiscutibilmente giustificato. Ne deriva la rivendicazione di un arbitrario primato (Prima gli italiani, Britain first, America first ecc., equivalenti moderni del funesto Deutschland über Alles) e ogni accordo fra le nazioni diventa impossibile; la conclusione è lo scontro, prima verbale, poi violento, fra i vari primati nazionali inconciliabili.
Noi utilizziamo le categorie ottocentesche dello Stato nazionale per cercare di capire il mondo contemporaneo che è globalizzato, cioè utilizziamo categorie tolemaiche, che hanno portato alle due guerre mondiali e alla crisi della civiltà europea, per interpretare un mondo copernicano1412. Occorre una rivoluzione copernicana nel nostro modo di pensare e di affrontare la realtà, abbandonare i paradigmi ispirati alla cultura dello Stato nazionale, che si immagina sovrano, autosufficiente e bastevole a sé stesso mentre è interrelato con gli altri e da questi dipendente, e adottare categorie appropriate per capire e indirizzare la società globale.
In un mondo globale va preso atto dell’interdipendenza e ammettere che gli Stati da soli non sono più in grado di risolvere quei problemi che travalicano i loro confini e che hanno assunto dimensioni internazionali. Occorre superare la logica nazio-centrica e pensare a un mondo interconnesso dove molte attività già da tempo funzionano ignorando i confini nazionali. L’interconnessione dei mercati, della finanza, della cultura, degli scambi deve trovare un riflesso politico e istituzionale capace di rendere la globalizzazione un’opportunità per tutti anziché un vantaggio per pochi.
Bibliografia
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Bocchi Gianluca, Ceruti Mauro (2009), Una e molteplice. Ripensare l’Europa, Milano, Tropea Editore.
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Greppi Carlo (2019), L’età dei muri. Breve storia del nostro tempo, Milano, Feltrinelli.
Keynes John M. (1920), Le conseguenze economiche della pace, Milano, Treves.
Levi Lucio, Morelli Umberto (1994), L’unificazione europea. Cinquant’anni di storia, Torino, Celid.
Tertrais Bruno, Papin Delphine (2018), Atlante delle frontiere. Muri, conflitti, migrazioni, pref. di Marco Aime, Torino, add editore.
dalla rivista «De Europa. European and Global Studies Journal», No. 1 – 2019, Special Issue, in http://www.deeuropa.unito.it/content/de-europa-special-issue .
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