Continuiamo la pubblicazione di brevi storie di immigrati impiegati nell’agricoltura e vittime del caporalato e delle mafie, da un’inchiesta condotta dall’Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di Flai Cgil), a cura di Francesco Carchedi e Jean Renè Bilongo. Come abbiamo scritto, sono racconti di sfruttamento, se non addirittura di schiavismo. Dopo i casi rilevati in Veneto, in Toscana e in Campania, pubblichiamo qui storie occorse in Puglia e in Sicilia.
Dal Mali a Brindisi
G. bracciante-studente
G. è un ragazzo maliano, uno studente di Economia all’Università di Brindisi. Lavora nei campi da quasi cinque anni per mantenersi agli studi. E’ fuori corso. Viene dal Mali e ha circa 27 anni. All’arrivo a Brindisi ha iniziato a lavorare, ma ha sempre pensato di iscriversi all’Università. Dopo due anni l’ha fatto (estate del 2016). L’inverno lavora meno per studiare meglio, l’estate lavora molto, come i suoi connazionali, tra Carovigno, Mesagne e Fasano. Conosce – ed è da loro conosciuto – molti connazionali ed anche molti altri stranieri perché è abbastanza raro che un ragazzo straniero studi e lavori nei campi. Lo faceva ancheal suo Paese, giacché il padre aveva un terreno coltivabile. E’ figlio di contadini, dunque. G. arriva da Lampedusa nel 2014, è ospite in un centro di accoglienza nei pressi di Carovigno. Dopo qualche mese capisce che può svolgere attività lavorativa.
Con altri amici va alla rotonda di Carovigno dove la mattina presto passano datori di lavoro e caporali a caricare braccianti. Lavora per circa due anni tutti i giorni, sperimentando la durezza dei campi, anche se – dice sorridendo – era ben allenato perché era cresciuto coltivando il campo della famiglia. La paga era bassissima: 3 euro l’ora perché non parlava l’italiano e quindi aveva bisogno di qualcuno che gli stesse vicino e gli desse ordini precisi che traduceva dall’italiano al malianoe viceversa. Dopo circa due anni la paga è passata a 4 euro. Gli venne detto che era per via del fatto che oramai capiva cosa doveva fare. Tutte le mattine G. si alzava prestissimo e andava alla rotonda. Racconta che veniva spesso truffato dai datori di lavoro che ad un certo punto quando il lavoro stava finendo sparivano, letteralmente. Nel senso che per due o tre settimane passavano puntuali a prelevarlo – anche con altri amici, a seconda dicosa bisognava fare – e puntualmente lo riportavano alla rotonda, e poi improvvisamente non passavano più. Cosi G. perdeva il salario che gli era stato preventivato al momento dell’ingaggio.
Racconta che con alcuni caporali aveva preso confidenza e si erano scambiati i numeri di telefono. Questi lo chiamavano la sera prima perché fosse pronto la mattina successiva. Anche attraverso WhatsApp. Riusciva così a lavorare spesso, perché era considerato affidabile e forte. G. propone a un caporale, per la precisione quello con cui aveva acquisito maggior confidenza, che poteva costituire una squadra con i suoi amici e garantire anche per loro la correttezza dello svolgimento del lavoro. Il caporale accetta, mettendo in chiaro che era sempre lui a gestire il processo lavorativo. Così G. e un gruppo di 5 o 6 amici formano una squadra. Il vantaggio, racconta G., rispetto al lavoro svolto singolarmente, è che aumenta un po’ la negoziazione del salario. Infatti, per quattro/cinque mesi funzionò bene. Ma con un altro datore di lavoro, un imprenditore conosciuto attraverso il caporale che aveva accettato la sua squadra, tutto cambiò.
Questo asseriva che essendo una squadra doveva essere sempre compatta, anche nel protrarre l’orario di lavoro fino a sera. O per ridurre il salario da retribuire secondo le oscillazioni delleraccolte. Qualcuno della squadra non accettava questa impostazione, perché – come racconta G. – si trattava di lavorare anche più di 12 ore al giorno per una paga che era sempre la stessa e che poteva addirittura diminuire. Chiesero al datore di lavoro un aumento salariale in funzione dell’allungamento dell’orario di lavoro, e in previsione di possibili raccolte successive di entità volumetrica minore. Ma ci furono forti conflitti dentro la squadra e dunque con il datore di lavoro, al punto che quest’ultimo li mandò tutti via minacciandoli direttamente. E G. non potette negoziare neanche il rientro dei salari maturati perché il datore di lavoro organizzò contro di loro altri caporali che con le loro squadre li hanno prontamente sostituiti, secondo tutte le condizioni che G. e i suoi compagni avevano rifiutato.
G. s’iscrive all’Università e fa anche degli esami. Torna alla rotonda, accetta lavori avventizi e occasionali nei periodo di minor lavoro agricolo. A giugno del 2018 accetta di entrare in una squadra gestita da un caporale romeno. Voleva per il trasporto 5 euro se il tragitto era entro i trenta/quaranta km, e 10 euro se era più lungo di 40. Era lo stesso caporale che a fine giornata o a fine settimana pagava tutti. Andavano al lavoro in 15/18 braccianti, tutti dentro un furgone da 9 posti. Senza sedili, ma con delle panche di legno in modo che sulle gambe degli operai seduti potevano sedersi altrettanti operai (raddoppiandosi il numero). “Abbiamo lavorato per circa 4 mesi tutti senza contratto, con una paga che non superava i 30 euro. Le condizioni erano pessime. La stanchezza anche. E’ una vita molto dura”, dice G. (nonostante ripeta che raccogliere prodotti della terra è il suo mestiere). I caporali si conoscono, come si conoscono le aziende che li assoldano. Dopo 4 anni di lavoro nei campi brindisini impari a conoscere i datori di lavoro più corretti, e quelli che invece sono del tutto egoisti e concentrati su stessi, e sono orientati allo sfruttamento più inumano.
Da circa un anno G. lavora solo la mattina, collabora con le organizzazioni sindacali e con le associazioni di migranti. Insieme ad altri migranti che lavorano nei campi ha un piccolo diario dove segna le giornate di lavoro svolte e poi con i sindacati le confronta con quelle che registrano i datori di lavorano quando i braccianti vengono stagionalmente assunti. La differenza è molto alta. Inoltre, insieme agli stessi colleghi, connazionali e non, dall’estate scorsa (2019) hanno deciso di prendere le targhe dei caporali violenti e annotare il nome delle aziende che trattano in maniera servile i braccianti che questi caporali forniscono. Tali informazioni mettono a disposizione dei sindacati, contribuendo così, con molte difficoltà, a contrastare il fenomeno dello sfruttamento bracciantile.
(La storia di G. è stata raccolta nel mese di luglio 2019nei giardini della Stazione di Brindisi).
Dalla Romania a Taranto
Salari fittizi, padrone arrestato
Questa breve storia riguarda un gruppo di lavoratori romeni fatti venire a Taranto da una loro connazionale che lavorava presso un’azienda alle porte di Taranto, in aperta campagna. Ma la loro attività doveva spaziare in diverse aree dove l’azienda aveva dei campi coltivati. La connazionale aveva avuto indicazione di reclutare 6 operai (quattro uomini e due donne) direttamente dalla Romania, poiché sarebbe iniziata la raccolta e dunque, alla bisogna, necessitavano braccianti aggiuntivi (primavera/estate 2916). Questi operai partono con un volo da Bucarest a Brindisi, e dall’Aeroporto di Grottaglie arrivano in macchina, con la connazionale, in azienda. Il contratto, oralmente definito con la medesima connazionale – dunque in maniera informale (ma per conto del datore di lavoro), prevedeva un salario di 28,00 euro al giorno, più vitto e alloggio a carico del datore di lavoro.
All’arrivo vengono collocati in azienda, dove lavorano anche altri operai (tra i 20 e i 25) braccianti perlopiù di origine straniera di diverse nazionalità. La paga mensile dunque sarebbe oscillata grosso modo intorno alle 850 euro, un discreto gruzzolo secondo i calcoli dei braccianti romeni (rapportato ai salari degli operai agricoli del Paese di provenienza). Per lo svolgimento del lavoro devono far riferimento a un caposquadra, anch’esso romeno, da tempo alle dipendenze dello stesso datore. Sono sistemati in una casa di campagna, insieme agli altri operai occupati in azienda. Le stanze dell’appartamento sono quattro, dove sono sistemati 25 letti a castello. Il lavorosi snoda per circa 15 ore al giorno. La casa ha pochi servizi, e quelli utilizzabili sonopressoché fatiscenti. Questi servizi sono usati da tutti gli ospiti dell’edificio, dunque quasi da una trentina di persone. A rendere l’abitazione ancora più inospitale è la sua ubicazione nei pressi di una porcilaia. L’acqua da utilizzare è quella di un pozzo, da dove si preleva anche l’acqua che si utilizza per l’allevamento e la pulizia, nonché per la manutenzione delle stalle dove alloggiano gli animali. Il gruppo si guarda stupito, è incredulo, ma decide di continuare.
“Oramai siamo arrivati sin qui, aspettiamo”, si dicevano tra loro. I primi conflitti emergono ben presto, poiché la paga non arriva mensilmente. Il datore eroga acconti di 50 euro alla settimana, e gli operai – e non solo i romeni, ma anche tutti gli altri – non riescono a capire con sicurezza, nonostante le ripetute sollecitazioni, se sono stati regolarmente assunti come promesso dalla loro connazionale all’arrivo e dal caposquadra successivamente. Quando chiedono del contratto le risposte sono sempre evasive. La connazionale al momento dell’arrivo e accoglienza in azienda aveva chiesto i loro passaporti per regolare, appunto, la loro posizione contrattuale. Ma a distanza di 6 mesi (all’incirca) ancora non avevano firmato nessun contratto di lavoro, e non sapevano ancora se i datori di lavoro lo avrebbero controfirmato. Ed avevano saputo al riguardo che pure gli altri operai avevano dovuto lasciare al datore di lavoro i loro passaporti.
Il gruppo romeno continuava a lavorare molte ore al giorno – come tutti gli altri – per un acconto di 50 euro a settimana. Un altro aspetto ritenuto insoddisfacente dai lavoratori è stato quando la connazionale ha comunicato loro che dovevano rimborsare il costo del biglietto aereo, di quasi 200,0 euro ciascuno. Questa richiesta ha fatto saltare i nervi all’intero gruppo. Anche perché il vitto promesso non era più regolare. C’erano giorni che non veniva preparato, perché non veniva fatta la spesa. A volte si saltava il pasto non solo per lavorare, ma anche perché la dispensa non era costantemente approvvigionata. L’approvvigionamento avveniva una volta alla settimana, e la spesa era a carico degli operai (che potevano tra l’altro spendere non più di 50,0 euro, essendo questa la somma che gli veniva settimanalmente erogata). Il gruppo, inoltre– insieme ad altri colleghi – veniva continuamente spostato per necessità produttive da un campo all’altro. Campi che erano situati in aree comunali diverse, e quindi erano necessari trasferimenti con mezzi di trasporto, solitamente con dei furgoni.
Questa mobilità intra provinciale, pur tuttavia, era in parte a carico degli stessi braccianti, poiché dovevano contribuire al costo della benzina; e quindi conseguentemente cercavano di evitare di svolgere compiti al di fuori del luogo di lavoro principale. Questa resistenza veniva giudicata male dal caposquadra di riferimento, che asseriva continuamente che erano di fatto forme di insubordinazione e che il datore di lavoro era del tutto contrariato. In sostanza gli spostamenti interaziendali venivano pagati in quota parte dagli operai, come se fossero alle dipendenze di un caporale e non di un datore di lavoro capo di una azienda importante. Gli spostamenti erano effettuati con dei furgoni catalogati per nove posti, dove invece i braccianti erano regolarmente in sovrannumero.
Il salario – nonostante le richieste di aumento – è sempre stato di 28,0 euro al giorno, con un giorno dalla lunghezza insolita: 12/15 ed anche 17 ore (non raramente, considerando le fasi di annaffiamento dei campi durante l’estate), in cui il gruppo romeno veniva frequentemente coinvolto. Le tensioni divennero alte. Per alcuni mesi i salari sono stati costanti, ma erano fittizi, nel senso che una parte dei soldi che si ricevevano dovevano essere restituiti al datore di lavoro: o in contanti oppure provvedeva lui o un uomo di fiducia a prelevare il denaro dal conto corrente dove trasferiva la retribuzione. I conti correnti erano due: uno con la firma esclusiva del lavoratore e l’altro con una doppia firma, oltre a quella del lavoratore, in modo che i prelievi potevano essere effettuati anche da un’altra persona (fiduciaria del datore).
Il caposquadra (fiduciario del datore) – ma è il caso di definirlo caporale interno all’azienda, cioè sorvegliante e braccio destro del datore di lavoro, nonché addetto alle minacce e violenze contro i lavoratori – malmena due braccianti (una donna e un uomo del gruppo romeno), poiché avevano detto che sarebbero andati a raccontare al sindacato le brutali condizioni di lavoro subite. Tale evento ha spinto l’intero gruppo romeno ad andare al sindacato e sporgere denuncia. Da questa è scattato l’ordine di arresto per il datore di lavoro e il suo braccio destro. Gli altri colleghi non hanno sottoscritto la denuncia per paura di essere licenziati.
(Questa breve storia è stata raccolta dalla Segretaria provinciale della Flai Cgil di Taranto con l’intervista effettuata a luglio del 2019).
Da Bucarest a Canicattì
Un caporale racconta
“Si. Sono un caporale. Sono uno di quelli che vengono sempre criticati perché portano le persone a lavorare e si fanno pagare il servizio di trasporto e di intermediazione. E anche il rapporto che hanno instaurato nel tempo con i datori di lavoro della zona. Questi mi chiamano, non sanno come fare a raccogliere la frutta o tagliare l’uva o raccogliere le olive. Io soddisfo queste necessità”. Sorin è un uomo di circa 50 anni. Solido, colto. Ha studiato a Bucarest, ci tiene a dirlo. Ha fatto alcuni anni di Università nella facoltà di Economia e poi alla fine degli anni Novanta ha deciso di vivere in Italia. Ha lavorato molto nei campi, anche nel suo Paese. In Italia ha fatto di tutto: ha lavorato in campagna, nei cantieri edili e nei trasporti, e anche in un’azienda di trasformazione del pomodoro nel pescarese.
Parla molto. Non aspetta le domande. Chi è un caporale? Gli dico. “Il caporale è un bracciante svelto, che ha esperienza ed è apprezzato dalla comunità di riferimento, da quelli con cui lavora e anche dalle loro famiglie. Questo perché il caporale trova lavoro per tutti, senza distinzione per nessuno. Importante è lavorare e non fare brutte figure con chi ti chiama a svolgere il lavoro. E’ una persona che svolge un lavoro utile ai datori di lavoro, in mancanza di altri modi per trovare i braccianti”. Detta così sembra che il caporale sia solo una brava persona? “Io sono così (sorride). E così sono anche altri miei amici che svolgono anch’essi quest’attività. Non tutti sono persone corrette come me. Ci sono caporali che anche a me danno fastidio perché sono scorretti, e sono anche violenti e pensano solo a se stessi. Sono egoisti e concentrati a fare denaro. Denaro.
Sono accecati, come sono accecati i padroni delle aziende che li chiamano. Non sono intermediari come mi considero io, ma sono delinquenti. Spesso lo diventano perché lavorano con imprenditori che fanno un prezzo troppo basso per il lavoro che gli chiedono di fare. Sono datori di lavoro arroganti, sfidano le autorità. Si sentono sopra la legge. I caporali più cattivi lavorano in genere con imprenditori cattivi e cinici. Disprezzano i loro operai stranieri. Imprenditori che trasmettono al caporale la loro furbizia e la loro malevolenza. Così questi caporali si rifanno con i braccianti: o questo salario o non lavori. Questa cosa la sentono loro stessi dagli imprenditori con cui lavorano: questo è il prezzo per questo lavoro, prendi o lasci. I caporali prendono sempre e non lasciano mai. Ma si rivolgono ai loro lavoratori con la stessa identica filosofia: prendi o lasci. Sapendo che non possono lasciare”.
Ma tu, per il lavoro che fai, quanto prendi dai tuoi lavoranti? “Io prendo il giusto. Dico a loro: l’imprenditore Caio mi dà tot, io vi posso dare tot. Va bene? Ho le spese del trasporto e della persona che porta il furgone. Ho tre furgoni e quindi tre persone come autisti. Questi lavorano anche, perché coordinano il lavoro. A volte possiamo decidere che per una volta il compenso è più basso, e un’altra è più alto. Sta qui la correttezza: pagare gli operai in base a come ti paga l’imprenditore. E’ un rapporto di fiducia. Se il caporale nasconde quello che riceve dal datore e paga male gli operai la squadra si potrà reggere solo con il ricatto, la truffa e l’inganno. Importante però è lavorare. Ma dipende come ti rapporti con gli operai. Se li derubi, li truffi o li fai restare senza salario non ti cercano più. Ti cercano solo le persone più fragili, più vulnerabili. Questo modo di lavorare è negativo per me. Perché per lavorare sempre devi portare persone che sanno lavorare, che hanno esperienza e l’esperienza si fa lavorando bene e in modo tranquillo. E pagare il dovuto concordato insieme e tolte le spese. Questa è la mia filosofia. E questo è il motivo per cui non vengo arrestato” (ride).
Ma non ti pesa essere considerato un caporale, dato che per il comune sentire si tratta sempre di una persona che sfrutta gli operai? “No. Perché io faccio il mio lavoro di mediatore … di mediatore culturale, anche. Porto persone a lavorare ogni mattina, e parlo con il datore di lavoro e gli dico come comunicare con loro. Certo attraverso me, ma io sono ben voluto perché sono onesto. Ho la fila di braccianti che vogliono lavorare con me, e la fila degli imprenditori che si fidano di me (ride). Qui a Canicattì ci sono caporali molto duri. Ma io non ci parlo neanche. Li conosco, certo. Ma li tengo a distanza. Sono conosciuti anche da altri … anche dai vigili urbani. Ma sono come degli intoccabili. Questo non lo capirò mai. A Bucarest questi andrebbero in prigione, qui camminano la sera per strada e mangiano le arancine al bar centrale come se fossero persone normali. Nessuno li ferma. Nessuno li porta al Commissariato. Ma sai cosa dovrebbero fare le istituzioni?”dice Sorin prima di salutarmi. Dimmi. “Mettere in regola quelli che come me fanno un servizio di trasporto ai braccianti che devono andare al lavoro, darci una licenza e regolarizzare tutto. In trasparenza, e in caso di truffa c’è l’arresto” (ride ancora).
(Il colloquio è stato effettuato in un bar di campagna fuori Canicattì. Sorin non ha voluto farsi registrare, ma ha permesso di prendere qualche appunto mentre parlava. Il nome è di fantasia).
Dal Senegal a Ribera
Non sanno più appendersi ai sogni
Q. è un uomo di quasi 40 anni, di nazionalità senegalese, non ha il permesso di soggiorno e dunque è considerato irregolare sul territorio italiano. La moglie e le sue due bambine vivono nel Paese d’origine. Q. non vede la propria famiglia da più di tre anni. Non ha nemmeno un telefonino di ultima generazione che gli permetta di avviare una chat per connettersi con la famiglia. Nella primavera del 2016 decise di intraprendere il suo viaggio verso l’Europa. Partì con un gruppetto di uomini per giungere sulle coste marocchine e attraversare, così, quel piccolo pezzo di mare che separa la costa africana da quella europea. Arrivò in Spagna per poi raggiungere la Francia e infine l’Italia. Q. racconta di aver conosciuto tante persone nel suo lungo viaggio; persone che come lui stavano lottando per avere quel futuro migliore tanto desiderato. Riuscire finalmente a garantire cibo, istruzione e benessere alla propria famiglia. “Si parte per questo. Si lotta per questo”, dice fieramente Q.
Q. ha una bassa istruzione e, sia prima che dopo il suo arrivo in Italia, verso la fine del 2017, i problemi che ha dovuto affrontare non sono stati pochi. Le barriere culturali e linguistiche hanno causato come effetto finale un’estrema condizione di precarietà, a tutti i livelli. Difficoltà a imparare le nuove lingue, ma soprattutto la difficoltà a trovare un lavoro onesto, un alloggio dignitoso, cibo, affetti, igiene e non per ultimo rispetto. Anche in Francia, dove la lingua non rappresentava un vero ostacolo, la situazione non è stata sicuramente migliore. In Spagna e in Francia Q. è riuscito a sostenersi a stento lavorando come ambulante e come bracciante agricolo occasionale. Un giorno, durante la sua permanenza in Francia, conobbe un gruppo di connazionali che da lì a poco sarebbero partiti per l’Italia. Q. decise di partire con loro e giunse così in Sicilia, dove la promessa di poter lavorare stabilmente in agricoltura si avverò in fretta.
La prima città siciliana che Q. conobbe fu Catania, dove viveva e lavorava con i connazionali conosciuti in Francia. Q. non capì per molto tempo come le condizioni di lavoro a cui era soggetto fossero profondamente sbagliate. Racconta di uomini africani come lui ma di nazionalità marocchina, i quali trovavano il lavoro per loro. Avevano grossi pulmini o vecchie auto con cui si partiva la mattina all’alba, in squadre, verso le varie destinazioni. Lavorando anche in provincia di Siracusa, Ragusa, Messina e Caltanissetta, non sempre si tornava a casa. Si dormiva in zone di campagna, in caseggiati, sprovvisti spesso di quasi tutto. Quando si tornava, invece, era così tardi che non si desiderava altro che andare a riposare. Di pasti – dice – ne ha saltati tanti, e lo dice sorridendo. Questo è ciò che stupisce di Q. e di molti che come lui non hanno più le unghie nemmeno per appendersi ai sogni, e cioè che non sono affranti, in apparenza ovviamente. Sorridono, sono gentili, non si lamentano. Però sì, sono affranti, sono stanchi, sono delusi. Sono soli.
Dunque, il lavoro non mancava, era vero, ma tutto come sempre ha il suo prezzo. Q. racconta, infatti, che dei 45 euro promessi per ogni giorno di lavoro (5 euro l’ora) a malapena gliene restavano 30/35. La restante quota veniva trattenuta dagli uomini marocchini per il trasporto, per l’alloggio e per le altre spese richieste. Le ore di lavoro variavano da 8 a 10, escluso il tempo impiegato per i viaggi da e per il lavoro. Stanco di tutto ciò decise di andarsene. Non ha mai avuto un contratto di lavoro che lo trattenesse.
Q. per qualche settimana si trasferisce a Cassibile con la squadra gestita da un caporale marocchino. In questa località ormai famosa poiché sono attivi caporali aguzzini che trattano con imprenditori altrettanto aguzzini e al contempo sede di diversi aggregati spontanei non autorizzati (i cosiddetti ghetti), che ospitano ogni anno quasi mezzo migliaio di lavoratori stranieri, Q. non resiste per le aspre condizioni di lavoro. Q. viene a sapere, parlando con altri connazionali, che in provincia di Agrigento c’è anche da lavorare e le condizioni sono migliori, anche perché c’è la possibilità di alloggiare gratuitamente, condizione che per Q. non appariva strettamente significativa.
Ed è proprio a Ribera, un piccolo comune dell’agrigentino, che conosciamo Q. Ribera è molto famosa per le sue arance. Ogni anno in questo piccolo paesino convergono centinaia di braccianti agricoli stranieri in cerca di lavoro. Vengono da ogni dove: dalla Sicilia stessa, dalla Calabria, dalla Puglia, dalla Campania e Basilicata, nonché da diverse zone del Nord Italia. Cosicché verso la seconda metà del 2018 Q. iniziò a lavorare nella raccolta delle arance. Ogni mattina, insieme a molte altre persone, aspettava che il datore di lavoro, o anche un connazionale occupato nella stessa azienda, con il suo furgoncino o pulmino, lo “caricasse” per andare a faticare. Ma la realtà, a Ribera, non era esattamente come gli era stata descritta. L’alloggio gratuito di cui si parlava faceva parte di 10 palazzine, ognuna con decine di loculi abitativi, costruite in origine con cemento depotenziato. I proprietari delle case hanno abbandonato il posto e oggi vivono in alloggi temporanei finché non verranno ricostruite le proprietà perdute .
Da quel momento tali palazzine (grosso modo siamo nel 2015) sono state occupate da migranti di diverse nazionalità, tutti lavoratori (fino appunto all’estate scorsa). Questi alloggi, facenti parte di una proprietà molto vasta, quando sono entrati i braccianti, si presentavano in una totale condizione di devastazione. Spogli di ogni rifinitura, senza luce, acqua e gas, senza arredi, senza bagni e in mancanza ovviamente della raccolta dei rifiuti urbani, e quindi cumuli di immondizia dappertutto. La pavimentazione esterna ed interna è del tutto assente. Alcune stanze erano adibite a toilette e la cucina era costituita da pentole invecchiate e inadeguate. Il fuoco per cucinare era anch’esso ricavato alla meglio. Ma perché vivevano tutti in questo posto? Nonostante fossero braccianti ingaggiati dai datori di lavoro della zona, una zona con prodotti di eccellenza nazionale. Arance vendute anche all’estero.
Perché gli abitanti di Ribera non affittano le loro case a questi devoti e rispettosi lavoratori? Perché si preferisce lasciare vuote le case e non affittarle a braccianti stranieri che con il loro lavoro arricchiscono parti consistenti dell’intera comunità di Ribera? Nell’estate del 2019 perdiamo le tracce di Q. Giusto nel momento in cui viene ufficializzato l’inizio dei lavori di demolizione delle palazzine. Saputa la notizia questi braccianti vanno via tutti. Attualmente (ottobre 2019) la fase di demolizione è conclusa. A Riberada molti anni la manodopera locale per la raccolta delle arance non è più sufficiente e c’è chi spera che i braccianti stranieri tornino l’autunno successivo.
(La storia è stata acquisita dagli operatori della Cooperativa Proxima che interviene a Ragusa e ad Agrigento sulle forme di sfruttamento, in particolare per quelle sessuali elavorative).
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