Newsletter n.38 del 15 maggio 2021 – SE NON CI SI CONVERTE

Newsletter n.38 del 15 maggio 2021 Se non ci si converte Care e cari Costituenti della Terra, a partire dall’11 maggio un giorno dopo l’altro la Televisione ci ha mostrato […]

Newsletter n.38 del 15 maggio 2021

Se non ci si converte

Care e cari Costituenti della Terra,

a partire dall’11 maggio un giorno dopo l’altro la Televisione ci ha mostrato torri e palazzi di 12 e 14 piani a Gaza abbattersi al suolo con i loro abitanti sotto i bombardamenti israeliani. Le immagini in diretta immediatamente richiamavano alla memoria con impressionante somiglianza le corrispondenti immagini dell’11 settembre 2001 quando furono abbattute le Torri gemelle a New York. Ma mentre allora il mondo si fermò e il compianto fu universale, questa volta nulla si è fermato e pianto non s’è visto.

È la guerra, dicono, ma è impossibile dire quando questa è cominciata. Il giorno prima, con le migliaia di razzi sparati da Hamas su Israele, tanto più numerosi quanto più inefficaci, più politica che guerra, paurosamente asimmetrici rispetto alla potenza di fuoco israeliana? Oppure è cominciata il 7 maggio quando l’esercito di Israele ha fatto irruzione sulla spianata delle moschee, si è scontrato con i Palestinesi lì manifestanti o in preghiera? O è cominciata quando le famiglie palestinesi povere sono state sfrattate dal quartiere Sheik Jarrah per lasciare le case ai coloni occupanti sionisti? O è partita con la guerra dei 6 giorni del 1967 e la conquista ebraica di Gerusalemme Est? O con la Nakba, o “catastrofe” palestinese, e gli Arabi espulsi dalle loro terre nel 1948? O è cominciata con la Shoà, il genocidio, la lunga persecuzione degli Ebrei?

Non è il caso qui di intraprendere un’analisi che ci troverebbe divisi. Ma una cosa è certa: che questo lungo inumano conflitto non ha una soluzione politica. E speriamo fermamente che nessuno pretenda e si illuda di dargli una soluzione di forza, che nessuno pensi a una mazzata militare finale. Invece c’è una sola soluzione possibile, e c’è una condizione imprescindibile per una soluzione politica, ed è una conversione.

Per conversione deve intendersi una conversione religiosa, che implica un mutamento della natura ebraica dello Stato di Israele. La natura ebraica dello Stato, nonostante la mascheratura laica, è stata impressa fin dal principio nella formazione statuale israeliana, incorporata nel suo evento fondatore, di fatto poi associata a tutte le sue scelte politiche e militari e dal luglio 2018 è anche formalmente sancita in una legge di portata costituzionale che fa di Israele lo “Stato-nazione” degli Ebrei, nel quale al solo popolo ebraico è riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, gli altri sono un popolo soggetto, da “scartare”. In forza di ciò in Israele ci sono due cittadinanze e una sola legittimità, la cui fonte è un diritto non di origine umana ma un diritto divino.

Si tratta di una figura storicamente già nota. Tale è stato il regime costantiniano, o meglio teodosiano, in cui si è incorporato tra il I e il II millennio il cristianesimo, tale lo Stato della Chiesa che ancora nell’800 praticava a Roma le esecuzioni capitali alla mazzola e squarto a piazza del Popolo, tale “la cristianità” vigente in Occidente fino al Concilio Vaticano II, tale il regime di cristianità dal quale ora papa Francesco proclama risolutamente la Chiesa essere uscita; ma questo è anche il modello che ancora sussiste nelle velleità e nei sogni dell’estremismo islamico e dei suoi riesumati e falliti califfati.

Uscire da questo ibridismo politico-religioso non è solo la condizione della democrazia e la prima stazione della pace, ma sarebbe anche una straordinaria epifania di Dio, una correzione delle sue fuorviate immagini, una guarigione delle perverse rappresentazioni fornitene da ogni tradizione. Per la religione e il popolo d’Israele, come pur imperfettamente lo è stato per i cristiani, una tale conversione sarebbe un dono inestimabile anzitutto per se stessi, ma anche per l’umanità tutta, oggi alle prese con il compito storico di dare una risposta alla crisi ambientale, di salvare il pianeta, far continuare la storia. Il miglior cristianesimo e il miglior Islam si sono già abbracciati su questa frontiera nel documento di Abu Dhabi del febbraio 2019 in cui insieme essi hanno preso le distanze dall’uso politico della religione, divenuto fonte di “violenza, estremismo e fanatismo cieco”, mentre un documento cattolico dogmatico sul monotesimo e la violenza del 2013 aveva già sconfessato ogni “tentazione di scambiare la potenza divina con un potere mondano” e aveva postulato, come inizio di una nuova storia, l’avvento di “una religione definitivamente congedata da ogni strumentale sovrapposizione della sovranità politica e della signoria di Dio”.

Questo pone un problema politico anche per noi. La durezza della risposta armata dello Stato di Israele, ancora rappresentato da un Netanyau ricusato dal suo stesso elettorato, e la passività o la reazione maldestra dell’Unione Europea, degli Stati Uniti, degli Stati arabi e asiatici di fronte a questa tragedia, ci dice che non saranno certo gli Stati, con la loro spietatezza, unendosi o federandosi tra loro, che faranno la pace e daranno impulso a un processo costituente della Terra, ma potranno esserlo solo i popoli e le altre formazioni sociali, potranno farlo le culture, le sinagoghe le moschee, gli ashram, le pagode e le chiese; è in questa direzione che dovremo lavorare.

Con i più cordiali saluti

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