Grazie a voi che siete qui e a chi ha promosso questa fiaccolata al termine di una campagna elettorale così povera di parole di speranza e di vita.
Qui a Castel S. Angelo non posso non ricordare un altro momento vissuto in una piazza vicina, piazza S. Pietro, quando nel 1962 la sera dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, Giovanni XXIII si affacciò alla finestra e disse: questa è stata una grande giornata di pace. Mi pare si possa dire che questa è una serata di pace perché, anche se siamo pochi, finché c’è qualcuno che lotta per la pace, la pace non è perduta.
Siamo in un momento di massimo pericolo. E oggi i pericoli sono ancora aumentati perché l’idea di uscire dalla guerra non con le armi ma con dei referendum è bollata come esecrabile. Ma come alternativa alle armi un referendum che per quanto maldestro si appella all’autodeterminazione dei popoli, non è un’alternativa più iniqua delle sanzioni con cui dall’altra parte si vorrebbe stroncare l’intero popolo russo. Sanzioni che Draghi ha definito senza precedenti, e che è andato all’ONU a esaltare, mentre senza alcun mandato ha condannato i referendum. La verità è che non vogliono affatto che la guerra finisca. E questa è una novità perché mentre di ogni guerra si vorrebbe che finisca al più presto, questa si vuole che continui a proprio vantaggio e la si alimenta in tutti i modi.
E l’opposizione alla guerra è troppo debole.
Chi ricorda le grandi manifestazioni per la pace che si facevano ai tempi della guerra fredda, i ragazzi che strappavano le cartoline precetto per la guerra in Vietnam nei campus delle università americane, un milione di firme raccolte in Italia contro i missili a Comiso, si meraviglia che oggi non ci sia una simile mobilitazione in una situazione di guerra ancora peggiore.
Oggi ci sono altre mobilitazioni. Tutti abbiamo visto la grande folla che per 11 giorni in Inghilterra ha partecipato alle celebrazioni per la morte della Regina, a cui hanno assistito mediante la TV altri milioni di persone riunite nelle ambasciate inglesi o semplici spettatori televisivi in tutto il mondo; una mobilitazione che si è risolta in una impressionante apoteosi del potere. E poiché è stato messo in scena un rito antico, quello che ne è venuto fuori è stato un messaggio in cui cielo e terra si prosternavano per rendere omaggio a un potere terreno, sacro e sovrano, i cui simboli sono lo scettro la corona e la sfera d’oro che rappresenta il mondo, trasformato in turibolo per incensare il potere che lo domina.
Ma questo potere terreno è molto pericoloso. L’ultimo atto della Regina prima di morire è stato quello di dare l’investitura al governo come prima ministra a una certa Liz Truss, che già era stata ministra degli esteri del Regno Unito. Questa era stata interrogata poco tempo prima in TV , e le era stato chiesto: come si sentirebbe lei se, come responsabile delle forze nucleari, dovesse dare l’ordine di sganciare le armi nucleari, da cui scaturirebbe la “distruzione totale”? E lei ha risposto: “Penso che sia un dovere importante per il primo ministro e sono pronta a farlo”. Primo ministro lo ha detto al maschile tanto perché sia chiaro che in questa gara a distruggersi le donne non sono da meno degli uomini. E interrogata di nuovo: “Ma lei come si sentirebbe a dare quest’ordine?” ha risposto: “Sono pronta a farlo”. Questa è l’Inghilterra.
Quanto alla Russia la sua dottrina sull’uso dell’arma nucleare è che essa può essere usata se viene messa a repentaglio l’esistenza stessa o la sovranità o l’integrità territoriale dello Stato. Cioè userà l’atomica se sarà fatto a lei quello che lei sta facendo all’Ucraina. Qui si parla di armi nucleari tattiche, ma come ha spiegato sul “Fatto quotidiano” il generale Mini, non c’è una vera differenza tra il nucleare strategico e le armi nucleari cosiddette di teatro, e anche queste sono capaci di distruggere dieci grandi città.
A loro volta gli Stati Uniti hanno 5.500 testate nucleari, ma ce ne vogliono molto meno per un’ecatombe totale. La loro dottrina sulla sicurezza nazionale è stata stabilita e pubblicata nel 2002 dopo il tragico attentato alle Due Torri di New York e non è più cambiata da allora. Essa dice che la deterrenza, che in passato ha impedito la guerra, non basta più, che la difesa per essere efficace deve essere preventiva, che – testuale – “la migliore difesa è l’offesa”. Ma soprattutto il documento che fissa la strategia della sicurezza nazionale americana sostiene che nessuno deve avere una forza non solo superiore, ma nemmeno pari a quella degli Stati Uniti, la cui sicurezza sta in definitiva nel dominio sul mondo.
E quale mondo?
Si tratta di un mondo a una sola dimensione: un solo governo, un solo Impero, una sola ideologia. Questa ideologia prevede un solo modello che si riassume in tre parole: libertà democrazia e libera impresa, senza varianti e senza alternative. L’America ha la missione di fare un mondo così, e gli Stati che non si adeguano sono Stati canaglia, rogue States, (che vuol dire Stati zizzania) e prima o poi, al contrario di ciò che della zizzania dice il Vangelo, devono essere estirpati: come si è visto molte volte, anche con la guerra.
Il dominio del mondo comporta anche un dominio del clima a scopi bellici. Lo prevedeva un rapporto redatto già nel 1996 dal Department of Defense School Environment of Academic Freedom e presentato alla Air Force degli Stati Uniti dal titolo: Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025 (Il clima come forza di moltiplicazione. Possedere il clima nel 2025). In tale rapporto i ricercatori militari parlavano di un dominio del clima a livello planetario entro il 2025, che avrebbe permesso, in caso di conflitto, di far ricorso a interventi volti a provocare siccità, impedire il rifornimento di acqua pura, intensificare la forza distruttiva di temporali e altre perturbazioni, indirizzando grandi masse di energia verso obiettivi militari; si può immaginare con quali conseguenze per la natura e la popolazione civile. Sembra inverosimile come sarebbe sembrata inverosimile la bomba atomica se lo si fosse previsto prima del suo uso sul Giappone.
Dunque siamo in un momento di massimo pericolo; come durante la guerra fredda gli scienziati facevano avanzare le lancette del loro immaginario orologio verso la catastrofe, così oggi questo rischio ritorna: e il papa che finora aveva parlato di una guerra mondiale a pezzi, oggi, come ha fatto il 10 settembre all’Accademia Pontificia delle scienze, dice che siamo già in una guerra mondiale totale, e che “i rischi per le persone e per il pianeta sono sempre maggiori”; nell’incontro delle religioni nel Kazakhstan, lui che viene da una Chiesa che finora si è dichiarata l’unica via di salvezza, ha fatto appello a tutte le religioni del mondo, cristiane e non cristiane, perché uniscano i loro sforzi e abbiano “un sussulto” per costruire la pace, e contro ogni uso politico della religione ha chiesto che il sacro non sia puntello del potere e il potere non si puntelli di sacralità. In seguito, interrogato nel volo di ritorno sull’invio di armi all’Ucraina ha riaffermato il principio del diritto di difesa (che è considerato un “diritto naturale”) ma ha detto che è immorale se esse servono a “provocare più guerra o vendere le armi o scartare quelle armi che a me non servono più…”,
In realtà è in corso un imponente trasferimento di armi di ogni tipo, per cui questa di fatto è diventata una guerra tra la NATO e la Russia, e sullo sfondo la Cina: una guerra che può precipitare in una guerra nucleare.
Dunque bisogna al più presto uscire da questa guerra. Ma la richiesta di porre termine alla guerra non va rivolta solo agli altri, prima di tutto la dobbiamo rivolgere a noi stessi, perché con Draghi e con Letta e la Meloni ci vantiamo di essere i primi atlantisti e i primi a rimpinzare di armi l’Ucraina. E se questa è un guerra mondiale vuol dire che tutti vi siamo coinvolti, come aguzzini o come vittime.
Perciò il nostro slogan non deve essere, come di solito è in questi casi, “cessate il fuoco”, ma al contrario noi dobbiamo dire “cessiamo il fuoco”, perché il fuoco lo stiamo facendo anche noi, anzitutto con le armi sul campo, perché esse non uccidono di meno perché sono maneggiate dagli ucraini o dai mercenari e non direttamente da noi; e poi lo dobbiamo dire perché stiamo facendo fuoco ogni giorno e in ogni serata televisiva con la nostra propaganda e il nostro pensiero unico, che è un pensiero di guerra.
E la guerra non è solo quella militare, è anche quella economica che oggi si combatte con le sanzioni alla Russia. Esse mentre danneggiano anche noi, hanno lo scopo di togliere i beni vitali a un intero popolo di 150 milioni di persone, di escluderlo dal mercato, di metterlo fuori della storia, di impedirgli di “comprare e vendere”, che è una misura apocalittica, espressamente evocata nell’Apocalisse, che è l’ultimo libro della Bibbia ed è il libro della fine. Biden, nel promettere le sanzioni come ritorsione all’attacco russo all’Ucraina, ha detto che si doveva portare la Russia a condizione di paria. Ma i paria in India sono gli intoccabili, i Dalit, quelli che non solo appartengono a una casta inferiore, ma sono fuori casta, sono considerati impuri. Essi non esistono come uomini, devono essere esclusi. Rientrano in quella che il papa ha chiamato la cultura dello scarto.
Questa condizione di inferiorità della casta dei paria non è solo sociale e politica, tale perciò che se ne possa uscire con una lotta di classe, ma è metafisica, non se ne può uscire per passare ad un’altra casta se non con la morte.
La Costituzione indiana ha abolito le caste, che però sono rimaste sotto la superfice nella cultura indiana, e non nella cultura di questa o quella corrente dell’induismo, ma in tutte le culture indiane.
Ora se Biden vuole ridurre la Russia a paria, vuol dire pensare a una società internazionale divisa in caste, la quale funziona così: al di sopra di tutti gli Stati Uniti, sotto gli altri, fuori i nemici, gli “Stati canaglia”, e la Russia immeritevole di stare al mondo (si è giunti a voler cancellare perfino Dostoewski e il Lago dei cigni!)
I delitti che si compiono in nome delle caste sono spesso impuniti. La stessa uccisione di Gandhi fu un delitto castale, perché lui le caste le voleva abolire (i Dalit li chiamò harijan, cioè «creature di Dio») e non gli fu perdonato.
Questa cultura è stata riciclata e portata in Europa dal nazismo. In Italia durante la guerra ci furono molte stragi compiute dai tedeschi. Una di queste fu quella che ricordiamo come la strage di Marzabotto che portò la morte a Monte Sole, a Casaglia e in molte altre comunità tra il Setta e il Reno nel 1944. In un bellissimo libro che le ricostruisce, di Luciano Gherardi, c’è un’introduzione di un grande Padre costituente, Giuseppe Dossetti, in cui egli dice che quegli eccidi, che colpivano indiscriminatamente uomini, donne, vecchi, giovani, bambini non erano “crimini di regime”, “crimini di classe”, delitti politici e nemmeno crimini di guerra, come sono le rappresaglie, ma furono delitti castali, perché come i delitti castali compiuti in nome di un’ideologia sacrificale, che era officiata dalle SS ed era diretta contro persone considerate come non-uomini, da escludere dalla vita. Pertanto ridurre i russi a paria, metterli fuori dalla società degli uomini, vuol dire compiere un delitto castale Può darsi che per Bidem questa sia solo retorica o che non sappia quello che dice, ma in ogni caso l’immagine evocata è terribile.
Ma a ben vedere tutta la guerra e tutte le guerre, nella misura in cui tendono non semplicemente alla vittoria, ma all’annientamento del nemico, sono delitti castali.
Perciò ne sono colpevoli tutti quelli che pensano che la guerra d’Ucraina debba finire non con un negoziato, con una composizione politica che risponda alle esigenze vitali dell’una e dell’altra parte, ma con la vittoria dell’uno o dell’altro. Il mito della vittoria è lo spettro più pericoloso che si aggira oggi sull’Europa e sul mondo, ed anche sull’Ucraina che la pretende, e che i suoi falsi amici le promettono. La vittoria rivendicata come condizione preliminare per il negoziato e la pace, sarebbe la più grave sciagura.
Non c’è vittoria sopra le macerie, ha detto il Papa. E che vittoria sarebbe quella che mettesse la Russia fuori dal mondo o al contrario rappresentasse la definitiva cancellazione dell’Ucraina?
Ma se questi sono i prezzi di una guerra che pure all’inizio sembrava una guerra limitata e territorialmente circoscritta , un “pezzo” e non il maggiore di quella che secondo il Papa era una guerra mondiale “a pezzi”, e sta diventando una guerra generale, ciò vuol dire che non solo da questa guerra dobbiamo uscire, ma dalla realtà stessa della guerra, dal pensiero di guerra, e da una visione del mondo che nella nostra cultura è modellata, rappresentata e vissuta come indissolubile dalla guerra.
Per tornare ai funerali della Regina, era impressionante che il carro funebre che trasportava le spoglie di una donna ormai accomunata nella morte a tutte le altre, fosse un fusto di cannone, e che perfino i familiari e i civili che la accompagnavano marciassero come dei soldati in parata al ritmo della fanfara, e nella preghiera quello che nella espressione simbolica è chiamato il “Dio degli eserciti” (angelici) nella traduzione del cronista televisivo diventasse il “Dio delle armate”.
Occorre pertanto bandire la guerra, fare della guerra stessa un ”paria”, buttarla fuori dalla società, cacciarla dalla storia, e non solo per i mali futuri che potrebbe provocare, fino alla distruzione della stessa umanità, ma anche come giudizio e come condanna per gli immensi mali provocati nel passato, per cui il termine più appropriato per definire tale abbandono è quello usato nella Costituzione italiana, che è quello di “ripudio”, non solo “rinunzia a”, ma rinvio con riprovazione, e vuol dire uscire da un legame che finora con essa è stato indissolubile.
E questo ripudio lo dobbiamo estendere a tutte le nazioni, a tutti gli Stati. Per questo abbiamo proposto un Protocollo per il ripudio della guerra e la difesa dell’integrità della Terra, e abbiamo chiesto ai candidati a queste elezioni che se ne facciano promotori nel Parlamento della prossima legislatura.
Un ripudio che rimanga solo nostro non basta infatti a fermare la guerra,. Perché la guerra non si fa da soli, ma con e contro gli altri. Ma se il ripudio diventa comune la guerra è messa fuori della storia. Questo è l’impegno che anche la tragedia che stiamo vivendo ci esorta a prendere.
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