PERSEGUIRE L’UNITÀ DELLE FORZE PACIFISTE E PROGRESSISTE 

Le prossime elezioni  potrebbero essere l’ultima possibilità per l’affermazione di una democrazia sostanziale e la conversione ecologica 

Daniela Padoan 

Da tempo viviamo in un doppio registro di realtà, dove tutto viene nominato senza per questo assumere le conseguenze di ciò che implica. L’intreccio di crisi – climatica, pandemica, bellica, economica, politica – non viene negato; ciascuna di queste crisi viene anzi enfatizzata, e tuttavia privata di decisioni conseguenti. Anche noi, ridotti a consumatori e spettatori del disfacimento, sembriamo incapaci di reazione davanti a segnali non più equivocabili.  

Eppure nell’ultimo mese sono sfilate davanti ai nostri occhi, per poi subito dileguarsi come residui di incubi, immagini di un’apocalisse testardamente ignorata: i rondoni caduti dal cielo a migliaia, uccisi dal caldo, in Spagna; la distesa di bovini stramazzati al suolo a perdita d’occhio in un orrendo olocausto animale, in Kansas; i tronchi spezzati, le radici secolari divelte degli alberi del parco La Mandria di Venaria, pezzo di Piemonte sfigurato da un tifone; il crollo di un seracco di ghiaccio sulla Marmolada dopo che in vetta si continuano a registrare temperature inaudite; gli incendi che, nell’intera Europa, si cerca di spegnere con l’acqua che scarseggia. Guardiamo il Po morire mentre il suo greto in secca viene ulteriormente violato, ridotto a pista da motocross.  

Ma è come se vedessimo senza vedere, se sapessimo senza sapere, in un continuo addestramento a separare l’enormità di ciò che accade dalla necessità di azioni conseguenti. 

Il governo di ‘unità nazionale’ uscente, a causa della linea prevalente al suo interno e nonostante l’impegno di singoli ministri, ha riaperto le centrali a carbone come risposta a una guerra che esso stesso ha contribuito ad alimentare, inviando armi anziché cercare prioritariamente mediazioni di pace. Ha parlato di giustizia ambientale mentre teneva bloccato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici («rimasto nel cassetto», come denunciato dal presidente Mattarella) e rovesciava fiumi di cemento, disboscava, progettava ‘grandi opere’ e olimpiadi invernali con neve finta, quando non c’è più neve, e nemmeno acqua. Ha ignorato la volontà più volte espressa dai cittadini, includendo nella transizione ecologica un programma di ritorno al nucleare spacciato per ‘green’.  

Infine, senza fare passi coerenti per distanziarsi dalla cultura antropocentrica all’origine del disastro ecologico che ora si sta rovesciando sulle nostre esistenze, ha raccontato che la tecnologia è in grado di aggiustare ciò che distrugge: ma le specie estinte non si rigenerano; le coste erose, le foreste millenarie abbattute, i ghiacciai liquefatti non si ripristinano. 

A quanto pare, il feticcio della crescita costi quel che costi non può essere toccato, è la nostra orchestra del “Titanic”. Allo stesso modo, in tutta l’Unione, abbiamo visto trasformarsi in uno svuotato rituale il feticcio dei «valori europei» di democrazia e accoglienza – gli stessi che oggi staremmo difendendo con l’invio di armi in Ucraina – mentre si addestrava la guardia costiera libica, si facevano accordi di respingimento con la Turchia di Erdogan, si azzerava il soccorso in mare, si permetteva che l’agenzia delle frontiere Frontex guardasse i naufraghi annegare dalle telecamere di un drone con terminale a Varsavia senza intervenire; si ammassavano profughi «in condizioni che ricordano quelle cui sono costretti i migranti nei lager in Libia», come ha recentemente affermato la ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini parlando delle più di duemila persone, tra cui bambini e donne incinte, costrette a dormire e mangiare per terra, tra i rifiuti, rinchiuse nel ‘centro di accoglienza’ dell’isola.  

La gestione delle crisi consiste nel metterle sotto un tappeto con parole ampollose, commissioni e piani, come si è fatto con il Covid-19, con la povertà, con il clima. Ma arriva il momento in cui i tappeti non bastano, nemmeno quelli fatti di eufemismi, greenwashing e business as usual (finte svolte verdi e ‘si è fatto sempre così’). 

Nel pieno di un’estate di siccità, incendi e razionamento d’acqua, con un’inflazione superiore all’8%, la crisi finale della politica italiana si è manifestata con una fuga dalla responsabilità dinanzi a un Paese che vanta il livello salariale tra i più bassi d’Europa e la triplicazione delle persone in povertà assoluta negli ultimi 15 anni. Un Paese dove il tracollo dei pronto soccorso e la dismissione delle Unità di continuità assistenziale contro il Covid, proprio mentre risalgono contagi e morti, dice di una determinazione – nel migliore dei casi di una rassegnazione – ad abbandonare gli anziani e i più fragili, e subito dopo chi non ha accesso alla sanità privata.  

Se a questo aggiungiamo la prospettiva di un inverno di riscaldamento contingentato, davanti ai nostri occhi si apre uno scenario di guerra. Una guerra contro le persone e contro l’ambiente. Il contrario dell’affermazione per cui «giustizia sociale e giustizia ambientale sono facce della stessa medaglia» – ridotta da più parti a slogan ripetuto e ignorato, fino allo svuotamento di senso. 

Le prossime elezioni, precipitate in un momento disperante, potrebbero essere l’ultima possibilità per l’affermazione di una democrazia sostanziale che fermi la corsa irresponsabile a trasformarci nel Paese dei ciechi così lucidamente prefigurato da Saramago.  

Quando l’analfabetismo funzionale dilaga al punto da situarci tra gli ultimi Paesi in Europa; quando il lavoro perde ogni giorno valore, con un neoschiavismo diffuso e un numero crescente di precari e persone che, pur avendo un impiego, non riescono a superare la soglia di povertà; quando la sanità pubblica viene progressivamente smantellata e la scuola impoverita, e tutto questo non trova voce concreta, allora la stessa educazione, lo stesso lavoro, la stessa salute cominciano a non valere nulla, nemmeno nella nostra percezione, nemmeno quando riguardano direttamente le nostre esistenze; e lo stesso accade per il collasso climatico cui stiamo andando incontro. Similmente, il voto, la rappresentanza, le istituzioni perdono significato. Non è indifferenza, ma una sorta di nichilismo dato dalla disperazione.  

Lo stesso nichilismo che sembra aver precipitato in una nebbia impenetrabile e autorecludente quelle forze politiche che affermano di voler rappresentare la parte più debole della nostra società, di voler riequilibrare le intollerabili diseguaglianze, di voler fermare o almeno rallentare il processo di erosione che sta devastando il nostro Paese; ma che anziché unirsi nello sforzo, appaiono già rassegnate a un’inevitabile sconfitta che giustifichi, anche per il futuro, la loro sostanziale inazione. 

È contro questa inerzia esiziale, che chiediamo a tutte le forze ecologiste e progressiste di uscire dal microcosmo rissoso e autoreferenziale in cui si sono trincerate, e di unirsi per costruire nuovi spazi dove la realtà abbia casa; di tornare a incontrare le persone, ricreare comunità, mostrare consapevolezza che siamo parte della natura e che senza di essa non esistiamo.   

Chiediamo parole vere, nate attorno alla transizione ecologica – o, meglio, alla conversione ecologica – e un impegno ad agire concretamente per la pace, consapevoli che «le energie rinnovabili rappresentano il piano di pace del XXI secolo», come ribadito dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres.  

La politica può sopravvivere solo se riacquista un significato di speranza, di cambiamento positivo nella vita delle persone, ritrovando linfa per un processo trasformativo dell’esistente. Se ricomincia ad alimentare quello che Ermanno Olmi, il grande maestro del cinema neorealista, chiamava «il sentimento della realtà». Se torna a pretendere la realtà, e la serietà che ne consegue. 

 Daniela Padoan 

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