I COLONI: NON CI SONO ALTERNATIVE ALL’ESPULSIONE DEI PALESTINESI

Un articolo e un’intervista di Francesca Mannocchi su “La Stampa” . Lo stato d’animo dei coloni: «Non si può fare un’equazione, tra i nostri morti del 7 ottobre e le vittime di Gaza. Avrebbero potuto pensarci prima». La catastrofe (Nakba) come soluzione

Quelli che seguono sono un articolo di Francesca Mannocchi su “La Stampa” del 12 dicembre 2023, e una sua intervista a una colona israeliana dell’insediamento di Otniel. Tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania vivono oggi circa 750.000 ebrei, la cui presenza viene dai più considerata illegale (in base alla Convenzione di Ginevra del ’49); nella prima metà del 2023 – prima dei fatti del 7 ottobre – è stata registrata in quest’area una media mensile di 95 aggressioni di coloni ai palestinesi. Questo l’articolo:

Hebron. Joel Copeland ha 46 anni, è il responsabile del dipartimento di consulenza finanziaria di un grande gruppo di investimenti immobiliari in Israele. È, o meglio sarebbe, perché ora è tempo di guerra e si parla meno di investimenti e più di difesa. È in uniforme, fucile in spalla, quando arriva all’ingresso dell’insediamento ortodosso di Otniel, venti chilometri a sud di Hebron. È in uniforme perché ha il turno della sicurezza dell’area. L’insediamento è stato fondato quarant’anni fa e oggi ci vivono circa 1500 persone, 250 famiglie, ognuna con una media di sei, sette figli. Considerato illegale secondo il Diritto Internazionale, come gli altri insediamenti israeliani in Cisgiordania, Otniel è lo specchio della convivenza impossibile di due popoli che si guardano da una parte all’altra delle colline. Da un lato le comunità palestinesi, la cui terra è erosa anno dopo anno, dall’altro gli insediamenti in crescita. È lo specchio anche della violenza che attraversa questi due mondi, prossimi geograficamente, eppure senza pace. Nel 2002, quattro studenti di Otniel furono uccisi e dieci feriti in un attacco di uomini armati palestinesi nella yeshivah  (scuola ebraica per lo studio della Torah e del Talmud), nel 2011 il rabbino Dan Mertzbach, anche lui residente nell’insediamento, venne ucciso quando una pattuglia delle forze armate israeliane, allertate per la presunta presenza di militanti armati, sparò sulla loro auto mentre si recavano, all’alba, a pregare alla Tomba dei Patriarchi a Hebron, nel 2016, un giovane palestinese fece irruzione in casa di una donna pugnalandola a morte di fronte ai tre figli, da ultimo quattro abitanti dell’insediamento hanno perso la vita durante la strage di Hamas del 7 ottobre.

«La violenza di prima era parte della nostra quotidianità – dice Joel Copeland – ma dal 7 ottobre nessuno farà più ritorno». Cammina nel punto più alto di Otniel, è tardo pomeriggio, un gruppo di adolescenti sta piantando ulivi, gli adulti costruiscono la continuazione della strada che unirà la principale a quello che un giorno sarà lo “spazio eventi”, con cucine, spogliatoi, campi giochi per i bambini. «Invece di prendere una pietra e lanciarla per la rabbia, la prendiamo per costruire». Joel ha un figlio sul fronte meridionale a Gaza e due figli sul fronte settentrionale al confine con il Libano. Le immagini di Gaza le vede tutti i giorni, i cadaveri dei bambini estratti dalle macerie, le migliaia di uomini, donne e anziani in fuga forzata dalle loro case. Pensa che non lo meritino ma che, in fondo, avrebbero dovuto pensarci prima. Sa che sono civili ma all’equazione di vittime civili da entrambe le parti non ci sta. «Non si può fare quest’equazione, tra i nostri morti il 7 ottobre e le vittime di Gaza. Avrebbero potuto pensarci prima, hanno scelto di stare da parte e ne pagano le conseguenze, se non avessero supportato la leadership di Hamas, ciò che sta accadendo non sarebbe accaduto». A nulla valgono le prove e i numeri, a nulla serve dire che più del 60% delle 20 mila vittime dell’offensiva militare israeliana coinvolge donne e bambini, come a nulla vale l’evidenza che quasi metà della popolazione della Striscia di Gaza è composta da minori. Adolescenti, bambini che nulla hanno a che fare col sostegno ad Hamas, che di certo non li hanno votati, che nel 2007 – quando è iniziato il blocco sulla Striscia – non erano neppure nati. «Hanno costruito la loro educazione mettendo odio nei loro cuori, è molto triste ma…». Tace. Poi guarda dall’altra parte della collina, verso i palestinesi, poi di nuovo verso l’insediamento, e conclude «ma è quello che dobbiamo fare». Copeland non ha un dubbio. La soluzione dei due popoli e due Stati è morta, non è più possibile non è realistica «uno Stato che si chiami Palestina non è realistico». Il passaggio successivo è quello che fanno tutti, negli insediamenti. Gli ebrei hanno diritto ad avere uno Stato e ad averlo da soli. Ci sono tanti Stati arabi, dove i palestinesi possono essere dislocati. È già successo in passato, che accada ancora. È stata la Nakba, la catastrofe, lo è di nuovo, e da qui è chiaro a tutti. Israeliani e palestinesi sanno che la prima Nakba non si è mai conclusa. I palestinesi la temono e resistono, la maggioranza degli israeliani in Cisgiordania, la vede oggi come l’unica opzione possibile per risolvere il conflitto. Non quello iniziato il 7 ottobre, quello iniziato decenni fa. Per questo Joel pensa che se la guerra a Gaza finisse domani non ci siano alternative all’espulsione dei palestinesi dalla Striscia e anche dei palestinesi dalla Cisgiordania. I primi verso l’Egitto, i secondi verso la Giordania. «I negoziati non hanno funzionato mai, di sicuro non funzionano ora. Dobbiamo avere il coraggio di prendere una decisione e portarla fino in fondo. Uno Stato solo per un solo popolo».

Lo sfollamento dei palestinesi dalla Cisgiordania occupata e la crescita degli insediamenti sono due processi che vanno di pari passo da decenni. È quello che accade dal 1967.

Le comunità palestinesi vivono sotto la minaccia e la pressione della violenza militare e di quella dei coloni e la formula che descrive meglio lo stato delle cose, nelle parole dell’organizzazione per i diritti umani israeliana B’tselem è «creare un “ambiente coercitivo” in modo che i palestinesi se ne vadano di loro spontanea volontà»; il governo israeliano rilascia permessi di costruzione per gli insediamenti, emette ordini di demolizione per i palestinesi, impedisce così la continuità territoriale per le loro comunità, per spingerli a lasciare le loro terre, «meccanismi burocratici ufficiali, sostenuti dai ministeri del governo, dall’esercito, da molti tribunali israeliani – dice ancora B’tselem – entità che lavorano insieme per raggiungere lo stesso obiettivo, cacciare i palestinesi e impossessarsi della loro terra». Le principali città e centri abitati palestinesi sono come buchi nel formaggio, dove il formaggio è l’Area C, che comprende poco più del sessanta per cento della Cisgiordania, area che gli insediamenti stanno via via inghiottendo, illegalmente. Così oggi in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est ci sono più di duecentocinquanta insediamenti e più di settecentocinquantamila coloni. La situazione è precipitata ancora di più con l’ultimo governo Netanyahu che ha messo l’espansione degli insediamenti in cima alla sua agenda e ha promosso migliaia di nuove unità abitative negli insediamenti e autorizzato retroattivamente diversi avamposti in Cisgiordania, decisioni a cui è seguito un aumento degli episodi di violenza già all’ordine del giorno negli anni precedenti, basti pensare che secondo un rapporto delle Nazioni Unite, nel 2022 ci sono stati circa due attacchi al giorno di coloni contro i palestinesi, il doppio della media dell’anno precedente e nei primi otto mesi del 2023, la media giornaliera è salita a tre, la cifra più alta da quando le Nazioni Unite hanno iniziato a registrare i dati sul fenomeno, nel 2006.

Questa l’intervista:

Yael Anaf ha 24 anni, ha già due figli, e la chiamano “la regina di Otniel”. È comunicativa, il sorriso cortese, su un viso e un corpo esile. A differenza degli altri parla arabo e prima, cioè prima del 7 ottobre, aveva amici palestinesi a Gerusalemme Est. Oggi non parla più con nessuno. Alla soluzione dei due popoli e due Stati ha sempre creduto poco perché dice «ci avete sempre voluto credere voi che vivete altrove, noi qui siamo da tempo molto più pragmatici». Pensava possibile un unico Stato con cittadini palestinesi con permesso di residenza, oggi anche quella possibilità, che non fatica a descrivere «un’inutile illusione», ha lasciato spazio a una concretezza feroce. «La speranza di convivenza non è più possibile e dovete prenderne atto come ne abbiamo preso atto noi. Non si tratta più di discutere la pace, la parola pace, oggi, è storta se applicata qui. Si tratta di accettare la fine di una impossibile coesistenza. Prima lo fate, prima possiamo vivere nel nostro Stato, perché non abbiamo un altro posto dove stare, a differenza degli “arabi”». Cioè i palestinesi, che non chiama mai così perché, come tutti, pensa che la Palestina non esista, né sia mai esistita. Né mai esisterà.

Francesca Mannocchi da “La Stampa” del 12 dicembre 2023

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