LEVIATANI, DOV’È LA VITTORIA?

Un libro di Raniero La Valle sui precedenti e gli sviluppi della guerra in corso in Europa. Traccia della relazione sul tema “La guerra, e poi?” tenuta il 3 gennaio 2023 a Verona per la presentazione del volume

Raniero La Valle

Un libro di Raniero La Valle sui precedenti e gli sviluppi della guerra in corso in Europa. Traccia della relazione sul tema “La guerra, e poi?”  tenuta il 3 gennaio 2023 a Verona per la presentazione del volume

Raniero La Valle

La guerra e poi? È una bella domanda. Tanto più in quanto siamo all’inizio di un nuovo anno, quando appunto si tratta di predisporci al nuovo.

Ma la risposta arriva subito: e poi? Non lo sappiamo. Proprio la guerra che è in atto ci ha gettato nella massima imprevedibilità degli eventi. Come sarà il futuro non lo sappiamo. Se esso sarà dominato dalla stessa irrazionalità ed empietà – cioè mancanza di pietas – che contraddistinguono il presente, esso è del tutto imprevedibile, e soprattutto non lo possiamo progettare, non possiamo averne il controllo. Siamo nella stessa condizione che  durante la precedente guerra mondiale faceva scrivere a Dietrich Bonhoeffer, in una lettera dal carcere di Tegel, queste parole: “Noi siamo cresciuti nell’esperienza dei nostri genitori e dei nostri nonni, secondo la quale l’uomo può e deve progettare, costruire, plasmare la sua vita con le sue proprie mani, secondo la quale esiste nella vita un fine, che l’uomo deve scegliere e impegnarsi a raggiungere con tutte le sue forze. Oggi l’esperienza nostra è che non possiamo fare progetti neppure per l’indomani”.  È questa l’esperienza che stanno facendo i nostri giovani, a cui perfino i ministri del governo dicono: è inutile che cerchiate un lavoro “congruo” e il lavoro che vi piacerebbe di fare, è inutile che abbiate una laurea se dovete fare i camerieri, o gli stessi lavori degli immigrati, quelli che si pagano con i voucher  a tre euro all’ora. È a vostro rischio se pensate di sposarvi, di avere figli.

Ed è questa stessa esperienza di imprevedibilità che stiamo facendo con la guerra. Non sappiamo come finirà, perché in Ucraina il negoziato è stato proibito per legge, e prima di finire la guerra rivogliono la Crimea e vogliono entrare nella NATO;  negli Stati Uniti  Biden vuole che la Russia con la guerra sia ridotta a paria, dal momento che ha questa bella idea del mondo come di una società castale in cui gli americani sono la casta superiore e i russi devono essere gli intoccabili, i fuori casta, quelli che sono scartati, sono messi fuori come in India.

Perciò in questa incertezza dovremmo concludere, ancora con Bonhoeffer, che “più distintamente che in altre epoche noi siamo  in grado di vedere che il mondo è nelle mani di Dio”[1],  e anche questo lo dobbiamo dire con una certa cautela dato che siamo informati da molti nostri amici, anche cattolici, che ormai siamo in una società post-teista.

Non per tutto questo dobbiamo perdere la speranza.

Però se non possiamo prevedere e progettare il futuro, possiamo e dobbiamo ricordare  e giudicare il passato, perché solo se prendiamo la responsabilità del passato possiamo avere parte con Dio nel prendere in mano il futuro. E possiamo pensare al futuro, per dirlo ancora con Bonhoeffer, solo se per noi “pensiero e azione entreranno in una relazione nuova”, cioè se penseremo esclusivamente ciò di cui risponderemo agendo[2].

Stabilito così il nostro codice ermeneutico, interroghiamo il passato e perciò ci chiediamo come a questa guerra si è arrivati, quando è cominciata, che cosa c’era prima della guerra.

Ebbene, prima della guerra c’è stata ancora la guerra. La guerra infatti c’è stata fin dal principio. Lo ricordammo nel 1999 a Roma quando demmo vita a una Scuola di antropologia critica, che chiamammo VASTI, dal nome  della donna che aveva osato disobbedire al suo re e marito, che era il persiano Assuero, durante l’esilio di Babilonia raccontato dalla Bibbia[3]. Ebbene il primo seminario sperimentale che facemmo in quella Scuola ebbe per titolo “In principio era la guerra”.

Esso partì da un detto del VI secolo a.C. divenuto famoso, un frammento di Eraclito che diceva così: “Polemos  – la guerra – è padre di tutte le cose, di tutte re, e gli uni disvela come dei, gli altri come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi”.

Dunque fin dal principio della nostra cultura la guerra è stata messa a fondamento della realtà e della storia, è stata assunta come principio antropologico; come ha osservato il filosofo Italo Mancini, a cui dobbiamo molto della nostra comprensione delle cose, e anche l’esergo in testa a questo libro, con la guerra  è  stata posta nel cuore dell’essere un’ontologia feroce e lupesca; la guerra sarà poi considerata come un dato di natura da Kant (e la pace invece un artificio), entrerà nella dialettica di Hegel, nel concetto di politico di Schmitt e giungerà fino alla guerra infinita di Bush e fino alla guerra di oggi, che è considerata come struttura permanente della realtà  mondiale dagli analisti della rivista “Limes”[4].

Dunque la guerra c’è sempre stata. Non è perciò la guerra che ci prende di sorpresa, che rende oggi imprevedibile il futuro. La vera novità è la rottura dell’unità del mondo. La guerra d’Ucraina chiude un ciclo storico e conferma il passaggio da un ciclo storico a un altro. Essa sovverte la visione del mondo che abbiamo avuto fin qui, un mondo che nonostante le guerre noi abbiamo pensato come un unico mondo. Perfino durante la guerra fredda la deterrenza teneva insieme le due parti del mondo, che erano contrapposte ma indivisibili, integrate come erano in un unico sistema, o vivevano insieme  o morivano insieme.  Questa guerra ci viene raccontata invece come un torneo ad eliminazione, oggi sarebbe in corso la semifinale per l’eliminazione della Russia, domani ci sarà la finale con la Cina.  L’ONU è sparita. Non c’è più un solo mondo come ce lo mostra il mappamondo o come lo vedono gli astronauti dallo spazio, non c’è una cultura capace di interpretare l’unità del mondo, non c’è una politica capace di stabilire la pace del mondo, non c’è un diritto capace di assicurare la continuità della vita del mondo. Il lungo cimento della storia, e anche il nostro tentativo di costruire l’unità della famiglia umana, di riconoscerne il comune destino, sono messi sotto scacco; e ciò proprio quando questo disegno sembrava più prossimo a realizzarsi; si era giunti  perfino alla nuova idea che anche gli infedeli  appartenessero al popolo di Dio,  che anche gli extra Ecclesiam fossero salvati, perché siamo fratres omnes, e noi stessi avevamo avanzato il progetto di una Costituzione per tutta la terra. Tutto questo oggi è entrato in crisi.

Del resto  questo processo di esclusione viene da lontano, ci ha pensato l’economia prima ancora che la politica.  Come ha detto il Papa fin dalla sua prima Esortazione apostolica Evangelii gaudium,  già erano stati esclusi i poveri, gli sfruttati, gli scartati, perché questa è un’economia che uccide, dove vige la competitività e la legge del più forte, dove il potente mangia il più debole[5].

Questo ci dice però che quella che oggi si rompe è la cattiva unità del mondo. Questa è la materia del peccato. Quella che ora cade a pezzi è la cattiva unità del mondo, quale  per secoli abbiamo concepito e proprio con le guerre abbiamo preteso di attuare, una pretesa unità che è stata fonte di grandissimi mali.

È stata questa l’hybris dell’Occidente, la sua scalata al cielo. Mentre fiorivano altre civiltà, a lungo abbiamo creduto che il mondo fosse tutto compreso nella koiné greco-romana; poi è arrivata a unificarlo la  tradizione giudeo-cristiana; questa si è costituita in cristianità, quel regime che come ha scritto lo storico austriaco Friedrich Heer va da Costantino a Hitler, dà forma allo “Stato totalitario europeo”, si annette il nuovo mondo. L’età costantiniana  finisce poi col Concilio Vaticano II; papa Francesco presentandosi al balcone di san Pietro rifiuta la mozzetta imperiale,  e quando riceve il premio Carlo Magno fa capire ai leader europei che quella corona se la possono riportare indietro.

Ma in un altro continente intanto è attecchito il mito della cristianità, nel messianismo americano, che diventa la fonte di una nuova unità. I padri fondatori eleggono l’America come la nuova terra promessa, gli Stati Uniti ne sono gli eredi. Dapprima essi esaltano la solitudine americana: c’è un filone che attraverso tutta la storia americana, c’è il mito del bastare a se stessi, del farcela da soli, che è legato all’idea di libertà come mancanza di vincoli; la mia libertà finisce dove comincia la libertà del mio vicino; in un seminario di Vasti un grande studioso dell’identità americana, Alessandro Portelli, ha ricordato  il grande pioniere di fine ‘700, Daniel Boone, che diceva: “quando vedo il fumo della casa del mio vicino, è il momento in cui vado altrove”, è la stessa cosa che gli strateghi americani hanno detto dopo l’11 settembre: se gli altri staranno con noi nella lotta al terrorismo e agli Stati canaglia bene, se no l’America farà da sola.

Ma è da questa unicità e solitudine dell’America che deriva l’idea del messianismo americano, gli Stati Uniti come il buon Samaritano delle nazioni, come doveva dire il cardinale Spellmann, arcivescovo di New York alle truppe americane che era andato a trovare in Vietnam.

Dopo la fine dei blocchi a fare l’unità ci pensa la globalizzazione; ma essa fallisce perché estende  il mercato capitalistico a tutto il mondo, ma non riesce a sostenerlo tutto,  ne può sostenere solo una parte, non ci sono risorse per tutti, non c’è cibo per tutti; l’economia discrimina tra sviluppati e Paesi in via di sviluppo; la scelta che fa l’Occidente è di un mondo contro l’altro, la società dello scarto, i presi e i lasciati . Ma dopo l’11 settembre l’America si sente minacciata dal mondo, e promulga come unico modello di società valido per tutti,  quello riassumibile nel trinomio di democrazia, libertà e libera impresa. Su di esso, ai fini della loro stessa sicurezza, gli Stati Uniti intendono fondare un nuovo Impero presidiato dalla loro soverchiante macchina militare; l’assioma è che nessun altro Paese possa non solo superare, ma neanche eguagliare la potenza militare americana.

Questa è la cattiva unità del mondo che ora ci sta scoppiando tra le mani.

Essa è franata  in Ucraina, che è divenuta la vittima di tutti, della Russia, dell’America, dell’Europa. Ma non solo: l’Ucraina è stata sacrificata dal suo stesso leader che pur avrebbe dovuto salvarla con un negoziato del tutto possibile e che invece l’ha usata come sgabello ai suoi piedi per costruirvi sopra il suo mito, e l’ha offerta in olocausto all’Occidente come Abramo offrì a  “Dio” il suo figlio Isacco salendo sul monte Moira.

L’unità è franata in Europa a causa della Russia che questa volta non riesce a cambiare il suo pensiero politico, come seppe fare al culmine della guerra fredda. Oggi la Russia non riesce a venir fuori da una guerra incauta e sbagliata, un crimine di diritto internazionale che ha commesso con l’ingenuità di credere che non gliel’avrebbero fatto pagare, come erano rimaste impunite le guerre combattute  dall’America e dalla NATO dopo la caduta del muro di Berlino.

L’unità del mondo si rompe oggi anche con l’isolamento della Cina. Essa è stremata da un’epidemia che si è abbattuta  su  un Paese da poco uscito da una povertà che nel 1978 ancora gravava su 770 milioni di contadini, con un tasso di povertà del 97.5 per cento sulla popolazione totale (notizie ufficiali di parte cinese). Questo Paese era tuttavia  giunto oggi ad assicurare cibo e sussistenza a una popolazione di oltre 1,3 miliardi di persone,  e il mondo invece di accorrere al capezzale della Cina per contribuire a soccorrerla, ne aspetta l’annichilimento allo scopo di non averla più come concorrente nel mercato mondiale e nella costruzione di un unico Impero.

L’unità del mondo è rotta dalla NATO che passando dalla prima, alla seconda e alla terza alleanza, dal 1948 al 1999, si è proposta come gendarme del mondo volendo mettersi al posto dell’ONU e decidendo in proprio le guerre da fare, come ieri quella jugoslava e oggi quella in Ucraina.

E ancora l’unità del mondo è rotta dall’Europa la cui voce per il lungo silenzio parea fioca, e che ora si dà un’identità politica con l’invio delle sue armi e con i suoi porti chiusi in faccia agli immigrati.

A questa cattiva unità del mondo noi abbiamo cercato di offrire la garanzia del diritto e addirittura di scrivere una Costituzione della Terra. Questo libro, “Leviatani, dov’è la vittoria?” racconta la dolorosa presa di coscienza dell’irrealismo di questa prospettiva. Non a caso in quello che si può considerare l’incipit di questo libro, al momento dell’inizio della guerra in Ucraina, più volte ricorrono le parole  “Noi abbiamo sbagliato”. E questa espressione ritorna in quel capitolo conclusivo in cui si prende atto del “mondo com’è”, non come vorremmo che fosse, e si cita la lezione di Raimundo Panikkar, che scrive a padre Balducci confutando la sua idea dell’uomo planetario. Coniugando la sua cultura indiana e quella cattolico-spagnola, Panikkar dice che la tesi dell’uomo planetario e della città pianeta è “un’altra forma della sindrome occidentale di una nuova universalità. Siamo molto d’accordo con la difesa del pluralismo, ma se esso non vuole (o non deve) essere irrazionale, è incompatibile  con qualsiasi visione che non sia puramente formale della globalità e planetarietà; in ultima analisi, con il monoteismo religioso e la riduzione all’unità di una filosofia che sia esclusivamente  razionale». In effetti, scrive Panikkar nella sua “Opera omnia”,  contro tutti i miti “coloro che parlano del mercato mondiale, di democrazia globale, di scienza o tecnologia universale, vivono ancora in regime di cristianità, il che non lascia spazio ad altri ordini mondiali”[6]. E in una intervista a Francesco Comina:  «Il monoculturalismo, ossia la credenza che una cultura abbia, in linea di massima e in linea di principio, la soluzione ai problemi del mondo, è molto pericoloso. Monoculturalismo a me fa venire subito in mente la parola colonialismo: una cultura unica che vale per tutto il mondo. Credo che il problema che dovremmo porci sia diametralmente opposto: come renderci conto che nessuna cultura è isolata e che nessuna religione può cavarsela da sola? Non siamo unici, ci sono altre culture e ogni cultura  ha una sua totale dignità che sta alla pari della dignità delle altre culture. … Il darwinismo sociale pensava che ci fosse una linea evolutiva nel cammino culturale che andava culminando, evidentemente, al livello più alto, il nostro”. È vero, ci sono i Paesi in via di sviluppo, ma “l’unico sviluppo è quello di arrivare all’Homo sapiens sapiens che sarà possibilmente quello che noi abbiamo come ideale. La grande sfida del terzo millennio è di prendere sul serio le altre culture, senza volerle fagocitare, assorbire, convertire, manipolare”.

Questo dice Panikkar. E noi, quando abbiamo visto come fosse irreale che delle grandi Potenze che si stavano scannando sul terreno dell’Ucraina si sedessero a un tavolo e d’amore e d’accordo varassero una Costituzione della Terra, abbiamo visto dove stava l’errore.

Ma allora questa lezione deve diventare il principio di un’altra unità, di una buona unità del mondo, non quella di un’unica cultura, di un’unica società, di un unico Impero.

Non più il modello del Leviatano, che promette sicurezza, istituisce la guerra e toglie libertà. Non più il branco di Leviatani, travolti dalla crisi mimetica, in competizione e in lotta tra loro.  Qui ci vuole il colpo di genio ermeneutico, come è stato chiamato quello di Hobbes, che come uscita dal caos dello stato di natura, della lotta di tutti contro tutti, individuò lo Stato, questo “Dio mortale”, questo Leviatano, questo uomo artificiale fatto da una moltitudine di uomini insieme, per venirne fuori.

Il colpo di genio ermeneutico può consistere oggi nell’assumere come norma non l’esclusione, ma la cura. Nel prendere come simbolo non il Leviatano, ma il Pellicano.

Il Pellicano è un simbolo potente, che a differenza del Leviatano non è preso dalla Bibbia, anche se la tradizione cristiana lo identifica con Gesù che dà la sua vita per la vita degli altri. Noi lo prendiamo piuttosto dalla nostra storia, addirittura dalla nostra storia militare.

Come si racconta in questo libro, “Pellicano” è il nome con cui fu chiamata la nostra missione militare in Albania, dopo la caduta del regime di Hoxha, quando i soldati del nostro contingente, che in Albania erano andati senza portare le armi con sé, ogni mattina si inerpicavano sulle montagne per portare il cibo alla popolazione stremata.

Dunque lo Stato non come il territorio esclusivo di una “nazione” chiusa tra confini armati, ma lo Stato come spazio giuridico in cui vige la legge che deve essere osservata da tutti quanti dormono sotto il suo cielo, nativi e migranti, a tutti assicurando quanto è necessario per vivere e realizzarsi, come dovrebbe essere proprio dello “Stato sociale”; lo Stato non  come l’uomo macchina hobbesiano formato da tanti individui messi insieme e omologati da un’unica cittadinanza e da un’incontrollata ragion di Stato, ma come un mosaico di disegni diversi, in cui ogni tessera si unisce con le altre in vari colori, in infinite forme e innumerevoli figure e invenzioni musive. I pellicani sono anche animali che vivono in colonie numerose e volano in stormi e quindi sono segno di aggregazione e cooperazione. La comunità dei popoli della Terra dovrebbe a sua volta proporsi come armonia di diversi ordinamenti giuridici cospiranti a un bene comune garantito da istituti internazionali che, dove singoli Stati e popoli non possono o non intendono provvedere, assicurino salute, cibo e altri beni fondamentali a tutti, ciascuno lasciando con la sua cultura e con il suo Dio: quel costituzionaliasmo oltre gli Stati, “per un’ONU dell’età globale”, che Luigi Ferrajoli proponeva già nel 1993, dopo la rimozione del Muro.

E infine si potrebbe pensare a una giurisdizione internazionale sussidiaria e integrativa, che però non sia nelle forme di un supertribunale d’appello di carattere universale per sostituire i giudizi locali di assoluzioni e condanne, ma nelle forme di un’Avvocatura internazionale di difesa delle persone e dei popoli, che dovunque sia richiesta intervenga per dire la giustizia e il diritto, e difendere la causa della mitezza e della equità.

La stessa giurisdizione degli Stati non dovrebbe essere concepita come l’artificio di una pesata uguale, male per male, che in realtà ruba sul peso e addossa ai poveri e ai colpevoli dei pesi insopportabili, a cominciare dalle carceri, ma come l’eccedenza della cura, della prevenzione, del lenimento, della misericordia che arriva per prima, che “primerea” come dice il Papa.

Pellicano dunque contro Leviatano, comunione della società umana, fratres omnes, un Dio per tutti e ogni popolo con il suo Dio, unità umana senza oscuramento delle differenze, e senza sbiancatura dei diversi colori:  perché sono i sepolcri che sono imbiancati, non i volti, la natura, e le culture degli uomini; quei volti che, come dice Italo Mancini nell’esergo di questo libro, devono “ritornare” ed essere messi al centro di tutto.

 

[1] Dietrich Bonhoeffer, Lettere a un amico, Pensieri per il giorno del battesimo di D. W. R. del maggio 1944.

[2] Ibidem.

[3] Ester, 1, 12 seg.

[4] Limes, “La fine della pace”, n. 3, 2022. “La guerra connaturata all’uomo” (v. tra gli altri Nicola Cristadoro, pag. 45.

[5] Evangelii Gaudium, n.  53-54.

[6] Raimon Panikkar, Opera Omnia, Volume III/2, Jaka Book, Milano 2015, pp. 443-444

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