Per una “Helsinki 2”

Di fronte alla contesa sull’Ucraina che rischia di innescare una crisi incontrollabile e alle altre cause di instabilità è necessario tornare al metodo e allo spirito di Helsinki

Di fronte alla contesa sull’Ucraina che rischia di innescare una crisi incontrollabile  e alle altre cause di instabilità è necessario tornare al metodo e allo spirito di Helsinki

Inutile nasconderlo, e dannoso rivelarlo con politiche dissennate: l’attuale assetto geopolitico paneuropeo soffre di una carenza di stabilità dovuta a mancanza di completo e concorde riconoscimento di tutte le delimitazioni politico-territoriali esistenti. Ciò lo rende profondamente diverso (in peggio, almeno sotto questo aspetto) da quello che si era definitivamente stabilizzato fino al 1990 dopo l’Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla cooperazione e la sicurezza in Europa e già a muovere dai trattati conclusi tra la Repubblica di Bonn e i suoi vicini orientali (inclusa, con alcune riserve reciprocamente accettate, la RDT) tra il 1970 e il 1974.
Le questioni aperte includono l’esistenza del Kosovo come Stato indipendente e l’appartenenza della Crimea alla Federazione Russa. In Europa, l’esistenza del Kosovo come Stato indipendente non è riconosciuta dalla Grecia, dalla Spagna, dalla Slovacchia, dalla Romania, dalla Bielorussia, dalla Russia, né perfino dall’Ucraina (nonché, ovviamente dalla Serbia). La legittimità e la validità del referendum popolare che comportò l’ingresso della Crimea nella Federazione Russa non è formalmente riconosciuta da alcuno Stato europeo, a parte orientamenti favorevoli manifestati dalla Bielorussia e dalla Bosnia. Lo status della Transnistria, dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud come soggetti di diritto internazionale resta debole oltre che ampiamente contestato, e ancora più debole (ma non certo irrilevante) è quello delle Repubbliche del Doneck e di Lugansk, di cui gli accordi di Minsk del 2015 prevedono uno status di larga autonomia all’interno dell’Ucraina, restando per altro inattuati soprattutto per volontà di Kiev (e della NATO).
L’insieme di queste situazioni di instabilità e di tensione, che si manifestano in ricorrenti episodi bellici più o meno intensi e durevoli, è caratterizzato da una stretta connessione o con la dissoluzione della Jugoslavia o con quella dell’Unione Sovietica tra il 1991 e il 1992. In effetti, quei processi determinarono situazioni di fatto il cui grado di legittimità (concetto sempre relativo e convenzionale in tale campo, sebbene in gradi diversi di rilevanza ed efficacia) non si colloca comunque ai livelli più alti, in termini di comparazione storica. Il frettoloso riconoscimento della Croazia e della Slovenia da parte della Germania e della Santa Sede, e poi a catena da parte dell’Unione Europea e così via, nel 1992, chiamò in causa l’alquanto screditato principio di nazionalità (sinistramente trionfante n Europa tra il 1919 e il 1939) in modo fortemente selettivo, cioè calpestando i diritti di una nazionalità jugoslava largamente diffusa, ma umiliata e offesa specialmente durante il terribile assedio di Sarajevo (da fuori come da dentro). Inoltre, se si assume la manifestazione di volontà popolari come criterio, il passaggio della Crimea dall’Ucraina alla Federazione Russa nel 2014 dovrebbe essere giudicato almeno tanto “legittimo” quanto la rottura dell’Unione (“sovietica” o meno) che legava reciprocamente Ucraina e Russia dal Settecento in poi, se non di più. Quella rottura, infatti, consistette largamente in una vera e propria spartizione di bottino tra i rappresentanti di distinti gruppi della “nomenklatura” cleptocratica protagonista della fine dell’URSS: mentre del resto le manifestazioni della volontà popolare, rispettivamente il 17 marzo 1991 in Ucraina come in tutta l’Unione (circa il mantenimento dell’Unione stessa sotto forma di patto tra Repubbliche “sovrane”) e il 1° dicembre di quello stesso anno in Ucraina (sulla Dichiarazione d’indipendenza adottata dal parlamento di Kiev proprio e non a caso nei giorni dell’infelice tentativo di golpe militare a Mosca) avevano dato risultati forse solo apparentemente contraddittori. Ricordare queste cose non comporta naturalmente favorire o auspicare rimescolamenti altrettanto drammatici che ormai non gioverebbero a nessuno, ma semplicemente curare che il fondamento dei nostri giudizi sia comunque corretto. Nella misura in cui vi è ragione di inoltrarsi sul terreno dei giudizi di valore, poi, si dovrebbe anche discutere il senso di distinguere tra la volontà dei crimeani di separarsi dall’Ucraina nel 2014 e quella degli ucraini di separarsi da qualunque forma di unione con la Russia (se di questo si trattò) nel 1991: analogie possono esservi, se mai, comparando l’effetto psicologico del tentato golpe a Mosca nel secondo dei due casi menzionati e del fin troppo riuscito golpe a Kiev nel primo di questi.
Pertanto, un ragionevole ritorno a un punto zero, su tutto questo insieme di questioni aperte, appare più utile dell’insistenza su posizioni preconcette e largamente strumentali. Inoltre, l’ordine di rilevanza dei problemi sembra avere bisogno di una radicale revisione. È più importante discutere sul diritto di ogni paese o a stringere alleanze militari o entrare in blocchi militari esistenti (come per esempio la NATO), oppure sforzarsi di spiegare meglio, se c’è modo di farlo, l’utilità e il beneficio di tali alleanze e di tali blocchi? È più importante discutere su quanto ogni paese sia più minaccioso di un altro nel fabbricare o acquistare costosissimi ordigni destinati a produrre inferno, o cominciare a ridurre ed eliminare in modo bilanciato questi maligni prodotti dell’operosità umana a favore di altri ben altrimenti utili e ben più urgentemente necessari? Senza alcuna pretesa di rimettere il dentifricio nel tubetto, allora, sembra ormai finalmente il momento di adattare alla nuova situazione, e al modo di trattarla, il metodo e lo spirito di Helsinki, il cui senso stava anche in una matura e seria capacità di relativizzare e ridimensionare l’importanza della cartografia politica e della collocazione dei segnali di passaggio dallo spazio di esercizio di un’autorità a quello di un’altra, concentrandosi piuttosto sul modo in cui sia possibile vivere indifferentemente da una parte oppure dall’altra. È ciò che allora Brandt esprimeva sostenendo che rendere il Muro ”permeabile” fosse meno drammaticamente costoso che mirare ad abbatterlo, e Moro dimostrava efficacemente per quanto riguardava il Brennero e anche, soprattutto, Gorizia.

(da Raffaele D’Agata, “Per un partito nuovo”, 3 gennaio 2022)

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