POPOLO STATO DEMOCRAZIA: QUALE SOVRANITÀ?

Il linguaggio politico contemporaneo ha sottoposto a grave usura termini classici della storia politica del mondo, snaturando il loro significato e rischiando di compromettere beni vitali come quello della democrazia, della rappresentanza, della sussidiarietà. Il mito della democrazia diretta e il superamento della sovranità
Vittorio Possenti

Dal punto di vista del personalismo

POPOLO STATO DEMOCRAZIA: QUALE SOVRANITÀ?

Il linguaggio politico contemporaneo ha sottoposto a grave usura termini classici della storia politica del mondo, snaturando il loro significato e rischiando di compromettere beni vitali come quello della democrazia, della rappresentanza, della sussidiarietà. Il mito della democrazia diretta e il superamento della sovranità

Vittorio Possenti

Dalla relazione tenuta al Convegno Democrazia e verità, promosso dal Centro Studi Filosofici di Gallarate”, Roma 26-28 settembre 2019).

1. Popolo (e populismo). Evidente appare oggi la perdita di carisma della democrazia liberale e rappresentativa, e lo spostamento verso democrazie leaderistiche, nelle quali accade la delegittimazione di Parlamenti, Partiti, Corpi intermedi e delle istanze civili e sociali non funzionali alla logica del capo di turno, che “parla direttamente” al popolo . Questa evoluzione in atto si collega ed è l’effetto di una profonda crisi del senso di comunità, della sua narrazione condivisa e dello sfaldamento del concetto di popolo: la società attuale appare fortemente disarticolata, e ripiegata nella ricerca di interessi privati.
Nella nozione personalista di popolo – il concetto di popolo e quello di persona si richiamano reciprocamente, onde il primo è valido se anche il secondo lo è, e viceversa – risalta la cultura della comunità ordinata e dotata di un’anteriorità sullo Stato e sul mercato, dei quali pure rispetta le essenziali funzioni . Il concetto personalista di popolo si oppone alla “mitologia dell’individuo” confinato in un’illusoria solitudine autocentrata, che pare crescere oggi con i radicali mutamenti antropologici, sociali e tecnologici. Essi prevalgono e talvolta travolgono le elaborazioni culturali e le prospettive morali che arrancano. Il centraggio sull’individuo ostacola il cammino verso un approfondimento della nozione di popolo, necessario per essere in pari con le nuove sfide. Quasi 90 anni fa Guardini osservava: «Non esiste più il dato di fatto “popolo” come mondo in sé rinserrato…un popolo ascende e decade con l’altro» . Il popolo come mondo chiuso non esiste più: economia, industria, mondo digital-mediatico, interdipendenze materiali e culturali tra popoli e Stati scompigliano largamente le carte mettendo in ogni istante tutti in contatto con tutti. Tutto ciò invita a guardare verso unioni comunitarie e/o federali tra popoli, e a meditare più attentamente su popolarismo personalista e populismo, marcandone la diversità.

Maritain e Sturzo. Nel grandioso dibattito accesosi nel XX secolo sul politico è nella tradizione del personalismo che si possono ritrovare le elaborazioni più solide sulla nozione di popolo. Valga il caso di Maritain e di Sturzo. Per il primo il concetto di popolo è il più alto e nobile tra i concetti e le realtà del politico: «Il popolo è la moltitudine delle persone umane che, riunite sotto giuste leggi e da una reciproca amicizia, per il bene comune della loro esistenza umana, costituiscono una società politica e un corpo politico» . Il popolo, depositario per diritto naturale dell’autogoverno (non della sovranità, come vedremo oltre), è soggetto di diritti e doveri, è una persona collettiva, mentre lo Stato non è persona. Lo schema di società che proviene da Maritain (e da Mounier) è personalista, comunitaria, pluralista, dove i cristiani hanno un compito essenziale da svolgere cui non possono sottrarsi. Ovvia la necessità di superamento dell’individualismo etico e della concezione dei diritti individuali come assoluti, e separati dai doveri, perché questi atteggiamenti, dissolvendo popolo e comunità, portano all’idea che ciascun uomo è un’isola.
Il popolo per Sturzo è una forza di resistenza etica, ma solo se si organizza in attività politiche e sociali a partire dal basso, diventando forza civilizzante, coscienza collettiva, valore morale. Ma non è fonte assoluta di sovranità come principio giuridico. «Nessuna ragione assoluta risiede nel popolo come unica fonte del diritto e come principio etico dello Stato» .
Il popolo non è un unicum corpus mysticum di cui si appropria il Capo di turno; il popolo è un’unità plurale e strutturata dove hanno grande portata le formazioni sociali intermedie a dimensione plurale, che risultano nuclei fondamentali di relazione e mediazione, ancor più necessarie nel mondo attuale sempre più interconnesso, casuale e disintermediato. In questo campo si manifestano reali possibilità rigenerative della democrazia.

2. Kelsen e Schmitt. Lontano dalle posizioni suddette si pongono invece le idee di persona e di popolo in Kelsen e in Schmitt. In Kelsen il concetto di persona è una finzione giuridica, un artificio del pensiero per trovare un centro di imputazione cui attribuire una responsabilità e un reato. Il passo falso di Kelsen risalta a mio parere là dove discute il concetto di persona, tentando di dissolverlo in un assoluto dualismo positivistico che considera l’uomo come concetto solo biologico e la persona come concetto solo giuridico . Per l’autore il soggetto di diritto o la persona «è soltanto un’espressione unitaria personificante d’un gruppo di obblighi e di autorizzazioni giuridiche, cioè di un complesso di norme» . La dissoluzione della nozione di persona implica quella di popolo, il quale per Kelsen è uno solo nel senso che è sottomesso allo stesso ordine giuridico statale, e più esattamente è un sistema di atti individuali regolati da tale ordine . Questa determinazione strettamente giuridica di popolo da parte di Kelsen cerca di coordinarsi con la regola democratica dell’autonomia: obbedire alla legge che ci si è dati.
In alcune parti del pensiero di C. Schmitt il popolo è inteso come la massa indifferenziata ed amorfa che acclama il Führer-duce, il leader che tiene in mano e lo Stato e il popolo; ciò produce lo sfaldamento del popolo e porta alla democrazia plebiscitaria e poi alla dittatura. Con il saggio Stato, movimento, popolo (1933) in cui Schmitt presenta una nuova idea di legittimità derivante dall’unità di razza-stirpe e dall’acclamazione del Führer, viene operata una profonda manomissione del concetto di popolo, trasformato in non-popolo. Forse non tutto il pensiero politico di Schmitt può essere ricondotto a questo saggio infelice, ma è un fatto che una nozione filosoficamente elaborata di popolo sembra in lui carente, e poco aperta alla pluralità delle formazioni sociali entro cui il demos prende vita e si esprime.
Eppure non manca in Schmitt la percezione che in ogni idea politica è immanente un’antropologia: «Non esiste alcuna antropologia che non sia rilevante politicamente» .
Nella sovranità moderna emergono due principali nuclei antropologici: un’antropologia pessimistica per cui l’essere umano è rappresentato come un individuo isolato, asociale, aggressivo (Hobbes, De cive), dunque come non relazionale, e inclinato al male ed alla lotta per il potere. Nello stato di natura l’individuo ha potere su tutto quanto la sua forza può raggiungere; egli, lottando per salvaguardare la propria vita e beni, entra nella condizione politica e sociale la quale è artificiale e tenuta insieme dalla sovranità dominatrice che fa da coesivo. L’altra antropologia rilevante nel moderno è quella fortemente individualistica che si rinviene in Rousseau: l’individuo è inteso «come un tutto che per se stesso è perfetto e chiuso», che non ha intrinseco bisogno di relazioni, le quali sono accidentali per la costituzione della persona .

La persona in relazione

3. Nel personalismo relazionale ed egualitario l’unità fondamentale di riferimento ontologico, assiologico e metodologico è la persona in relazione. Caratteristiche della persona sono socievolezza, libertà, responsabilità, creatività, che si svolgono al meglio quando le persone cooperano nel segno di un’idea e non solo di un interesse. Gettando lo sguardo all’indietro, si percepisce che le critiche degli autori del personalismo sono state rivolte certo al marxismo, ma poi a partire da circa un secolo all’ordine politico ed economico del liberalismo, del liberismo e dell’ordine capitalistico, critica che negli ultimi decenni e dopo il crollo del socialismo reale si è fatta alquanto flebile. Nel frattempo sono sorte nuove sfide all’idea stessa di persona, soggetta a radicali operazioni di decostruzione .
Lo Stato democratico si fonda invece su un’antropologia personalistica e relazionale, e così il suo modello di socialità, che è down-top, e che prevede le formazioni sociali intermedie e la sussidiarietà. Mentre il modello ‘sovranistico’ procede dall’alto al basso, in modo severamente unificante e non pluralistico; il modello radicato nel principio di sussidiarietà procede invece dal basso verso l’alto, con distinti livelli di autonomia ed autoorganizzazione, ma senza togliere al livello politico più alto la sua responsabilità primaria in ordine al bene comune ed agli scopi globali. Il principio di sussidiarietà non può comporsi con la sovranità ‘totalitaria’ e centralistica moderna, mentre si accorda con il concetto personalistico-comunitario di società politica, di Stato e di popolo.
In questo quadro si inserisce la distinzione tra Stato e società, e la costituzione della società civile come realtà viva, con autonomia, dinamica e struttura proprie, qualcosa di molto diverso dalla società civile hegeliana (Bürgerliche Gesellschaft), intesa come mero sistema dei bisogni, completamente destrutturata e senza alcuna idea di sussidiarietà, dove ciascuno è nulla per ogni altro. La distinzione tra Stato e società è l’esito di un lungo processo moderno che ha condotto allo Stato costituzionale di diritto a forma repubblicana e democratica. In questa transizione accade il passaggio da un’idea di popolo come unità amorfa creata dal potere-Leviatano ad un’idea personalistica di popolo come insieme di soggetti, come unità articolata di persone e di formazioni sociali intermedie tra singolo e Stato.

4. Il personalismo deve oggi fare i conti col populismo, concetto lato e che può essere inteso in prima battuta come qualsiasi movimento politico diretto all’esaltazione demagogica delle qualità e capacità delle classi popolari, e che cerca un rapporto diretto, carismatico e leaderistico con esse. Per raggiungere tale esito si ricorre largamente a drastiche semplificazioni, che ostacolano la comprensione della grande complessità del mondo contemporaneo ed anzi la nascondono. Il populismo si associa con un permanente sospetto verso gli organi istituzionali di controllo e di garanzia, e con il gregarismo quale ossequio incondizionato al capo.
Il populismo europeo (e italiano) degli ultimi lustri deriva anche dalla difficoltà delle democrazie di resistere all’impatto delle grandi trasformazioni economiche e tecnologiche e all’onda impetuosa della globalizzazione che innescano vari processi: il mercato globale diminuisce fortemente il potere delle democrazie nazionali; si fa più forte, sin quasi all’egemonia, il peso dei poteri economici su quelli politici; il sistema tecnologico-mediatico e il web tendono a svuotare il concetto stesso di rappresentanza e mediazione degli interessi che dovrebbe stare al centro del sistema democratico.
Collegati al populismo e in generale a dinamiche degenerative della politica democratica appaiono la comunicazione pubblica e i relativi linguaggi. Già coi primi anni ’90 il linguaggio politico italiano aveva manifestato un netto peggioramento che poi si è riprodotto e moltiplicato in varie forme. Educare i cittadini è anche educare al retto uso del linguaggio, e al dialogo che non sia rissa permanente, ma capacità di discutere, di offrire motivazioni valide che possano aiutare a trovare una posizione condivisa o almeno alla comprensione delle posizioni dell’altro. E’ difficile pervenire in maniera appena sufficiente ad un tale esito, quando imperano messaggi brevissimi e parole d’ordine che fanno leva sull’emotività, la passionalità, e sul rifiuto della rappresentanza politica.

Il popolo vacilla

5. Popolo e democrazia. La democrazia funziona male perché il demos o popolo vacilla: esso si polverizza in una serie di individui senza relazioni effettive o obiettivi comuni. Le democrazie non riescono più a catalizzare e infondere entusiasmo per il raggiungimento di soluzioni ai problemi di tutti, a proporre disegni in grande la cui mancanza lascia spazio crescente ai movimenti di protesta, di mera negatività e ripiegamento. La caduta del socialismo reale ha tolto l’alibi cui si era ricorso per giustificare la distanza tra ideale e reale con l’assunto che la lotta contro l’avversario esigeva restrizioni. Nel frattempo è fortemente aumentato il peso dei tecnici e degli esperti in democrazia, cosiddetti epistocrati che conoscono il know how in un mondo sempre più complesso che richiede adeguate competenze, mentre rimane uno spazio per la democrazia locale dove è meno arduo intessere interazioni dirette.
Noi qui facciamo riferimento ad un’idea di democrazia, che trova la sua realizzazione effettuale e strutturata nella formula di Lincoln: government of the people, by the people, for the people (discorso di Gettysburg, 19 novembre 1863). Democrazia come autonomia e non come sovranità, democrazia come autogoverno: darsi regole cui obbedire, compresa quella di poter entrare in ambiti di governo più ampi, cedendo di comune accordo quote di ‘sovranità’ a entità superiori. Le radici storico-filosofiche della democrazia possono essere individuate nel sentimento dell’uguaglianza umana e in profondità nell’idea dell’homo homini homo, contrario dell’homo homini lupus da cui secondo Hobbes si esce solo col contratto sociale (pactum societatis et subjectionis). La vita sociale e la stessa democrazia sono fondate più sul sentimento della comunanza umana che sulla paura della morte violenta; sono basate sull’idea che occorra stabilire il diritto e la giustizia e minimizzare il male politico.

6. Digressione su democrazia e verità. Dedico a questo nucleo solo un cenno. E’ abbastanza chiaro che i fautori di un concetto personalistico di popolo siano favorevoli ad un collegamento significativo tra democrazia e verità, almeno la verità antropologica sull’essere umano e la verità morale sul bene, il giusto, la libertà, i valori. Il personalismo non accoglie la posizione di Kelsen sull’opposizione insuperabile tra democrazia e verità, per cui coloro che non sono relativisti, sarebbero un permanente pericolo per la democrazia. Alcuni decenni dopo, riprendendo la separazione kelseniana tra democrazia e verità, R. Rorty conclude all’irrilevanza della filoso¬fia per la democrazia: «La verità… non è rilevante per la democrazia politica. E così la filosofia, come spiegazione delle relazioni esistenti tra un simile ordine [un ordine antecedente a noi e dato] e la natura umana, non è a sua volta rilevante. Quando vengono in conflitto, la democrazia ha la precedenza sulla filosofia» .
In realtà in democrazia è necessaria una verità pratica in qualche modo condivisa. La democrazia non è l’ambito della ragion pura, ma della ragion pratica che tanto spesso è una ‘ragione impura’, non perché sporca ma perché capace di vedere la complessità dell’azione. In merito la proposta di Maritain svolta nella celebre conferenza a Città del Messico nel 1947 all’Assemblea dell’Unesco rimane centrale: nel suo discorso egli osservava che, nonostante il disaccordo teoretico insuperabile tra le diverse visioni, il consenso pratico sulla Carta dei diritti umani poteva condurre a formulare insieme principi comuni d’azione . Settant’anni dopo la prospettiva rimane ancora possibile, e viene a congiungersi con le culture della democrazia deliberativa e del processo comunicativo volto all’intesa, sebbene il contesto storico e valoriale risulti in Occidente notevolmente più frastagliato di allora per le notevoli differenze nelle ermeneutiche dei diritti umani.
Tranne le posizioni del puro proceduralismo, in cui si sostiene una democrazia contrattualista e procedurale, sorretta da forme deboli di razionalità fredda, nelle altre prospettive si ritiene che la democrazia non possa reggersi solo su regole e procedure, e non anche su convinzioni e princìpi pratici, ma il consenso pubblico su di essi appare diminuito. La discussione pubblica può certo continuare, senza dimenticare che anche la democrazia comunicativa deve decidere; se essa è sana rimane la possibilità di rivedere le sue decisioni alla luce di ragioni migliori. Non possiamo assumere che i più siano in linea di principio dalla parte del vero. Forse si potrebbe ricordare un detto di Jonathan Swift secondo cui la falsità spicca il volo e la verità la segue zoppicando.

L’illusione dell’ “uno vale uno”

7. La democrazia diretta. Evidente appare oggi la spinta verso la democrazia diretta e l’insofferenza verso quella rappresentativa. L’utopia della democrazia diretta sta nell’idea che il popolo decide e governa ad ogni istante su tutto; democrazia rappresentativa significa invece che il popolo sceglie coloro che dovranno governarlo. Nella rappresentanza politica democratica non vi è vincolo di mandato, il rappresentante non è un commissario o un delegato o un procuratore che opera entro le direttive del delegante. Il legame diretto e immediato tra rappresentante e rappresentato è impossibile con i grandi numeri delle democrazie attuali. Inoltre nella democrazia diretta filtra il rischio della predominanza di un potere (delle masse) su altri poteri, mettendo così in crisi l’assunto centrale delle liberaldemocrazie secondo cui il potere limita il potere, ossia il bilanciamento tra poteri.
Nella democrazia diretta il detto “uno vale uno” mostra la sua astrattezza dinanzi alle poche potenze mediatiche globali, dove ciascuna non vale uno ma un milione e dove un milione di normali uno valgono zero. In questa situazione l’appello diretto e immediato al popolo indica non democrazia diretta ma un nuovo paradigma della politica, fortemente influenzato dai nuovi modelli economici globali e dalla diffusione delle tecnologie, il cui effetto combinato è una radicale disintermediazione che muove dall’ambito economico a quello politico, investendo alla base la funzione dei gruppi intermedi e dei partiti. Dovunque soffrono le reti di mediazione sotto l’avanzata delle nuove forme di commercio e di politica che saltano ed eliminano le precedenti forme di intermediazione tra produttore e consumatore, tra cittadino e sfera pubblica, dando ai soggetti sentimenti di libertà e di immediatezza quando invece si tratta di sensazioni effimere, poiché spesso rimane ignoto ciò che sta dietro la disintermediazione.
Lasciamo parlare Il contratto sociale di J. J. Rousseau: «I deputati del popolo non sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari…ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla…Il popolo inglese pensa di essere libero ma s’inganna gravemente; è libero solo nell’istante delle elezioni dei rappresentanti, ma subito dopo ridiventa schiavo» . Commissario del popolo è il termine che Lenin e i bolscevichi introdussero nella loro prassi, intendendo che i commissari erano meri esecutori della volontà generale dell’Assemblea, che poi – come ben si è visto – era subordinata al Comitato centrale e infine al ‘capo supremo’. Il miraggio della democrazia diretta si muta facilmente in oligarchia e poi in dittatura, e tutto sempre in nome del popolo e dei suoi amici: essere “amico del popolo” è un prerequisito tanto indispensabile quanto vuoto.
L’idea di democrazia diretta, che forse poteva ancora andar bene in un piccolo cantone svizzero di secoli fa, in cui il popolo non comprendeva donne, bambini e anziani, ma solo i capi famiglia, è addirittura assurda se applicata a nazioni di 50, 100 o più milioni di persone. Essa ignora la forza manipolatrice delle immense reti mediatiche che avvolgono e penetrano in ogni interstizio del nostro vivere, plasmano e riplasmano in ogni momento le nostre esperienze: l’espressione più adatta per tale situazione è che viviamo in una ristretta oligarchia mediatica che senza adeguati contrappesi può diventare dittatura mediatica, in cui fonti monopolizzate diffondono un unico paradigma. La tecnologia sembra inoltre favorire i governi autoritari che possono controllarla e indirizzarla per i loro scopi di potere.

8. Quale Sovranità? Modello istituzionale unitario-sovrano, e modello pluralistico-sussidiario. Col termine sovranità si vuole indicare nella modernità politica il potere di comando in ultima istanza in una società politica: un potere unico, indiviso e indivisibile, non derivato che da se stesso, ossia superiorem non recognoscens. Il concetto di sovranità è stato un potentissimo strumento teorico per l’affermazione dello Stato moderno. Bodin, Hobbes e Rousseau formano una filiera dell’idea di sovranità secondo cui il potere non può che essere concentrato ed accentrato: la celebre immagine posta nel frontespizio del Leviatano rappresenta l’uomo collettivo o la moltitudine dei cittadini legati insieme nel grande corpo mortale che è lo Stato o il sovrano, sopra di cui vi è solo il grande Dio immortale.
La sovranità moderna si è costruita in base ad un modello errato di socialità, quello hobbesiano che esclude che nell’arena internazionale siano possibili cooperazioni invece che la lotta fino alla guerra tra le sovranità . In tale modello l’essere umano o vive nello stato di natura o in quello civile nato dal pactum societatis et subjectionis del Leviatano. Questa tradizione pesa ancora nella cultura, sebbene ben pochi oggi identificherebbero il diritto solo con quello statale. Lo schema di socialità di tipo dualistico e non aperto, si erge come opposto allo schema di socialità aristotelico che inizia dalla famiglia come unità minima di socialità, si apre al villaggio come insieme di famiglie e poi alla polis in cui si possa raggiungere la vita buona. Schema aperto che può integrare in sé forme più alte di espressioni politico-sociali, come lo Stato e le unioni o comunità tra Stati .
Dopo il ‘600, l’epoca d’oro della sovranità e degli Stati assolutistici, accade una lenta evoluzione dallo Stato sovrano assoluto allo Stato liberale e costituzionale. Questo però in vari casi, e forse in specie in Francia, non pratica la sussidiarietà ma considera solo individuo e Stato (paradigmatica è in merito la legge Le Chapelier del 1791). Solo più tardi e con fatica lo Stato accentratore inizia a riconoscere il pluralismo delle formazioni sociali e tende ad aprirsi e a offrire spazio alla sussidiarietà. L’evoluzione secolare (o forse meglio, rivoluzione) trasforma una suprema potestas indivisibile e perpetua (Bodin) in autorità e poteri multilivello diffusi nella società con caratteri di autonomia, ma senza rinunciare alla capacità di guida verso l’ottenimento dello scopo sociale.
Il modello sussidiario e pluralistico presuppone l’uscita dal modello moderno della sovranità statuale – una, suprema e indivisibile. Il principio di sussidiarietà, che opera su molti livelli e possiede un significato multiplo, vale a mio parere secondo un duplice significato: come un principio universale di ordinamento e strutturazione dei rapporti economici, sociali, civili e politici (nazionali e internazionali) dai livelli micro sino a quelli macro; e come un criterio di azione, la quale si svolge al meglio quando nasce in maniera sussidiaria, coordinata e cooperativa: esso opera validamente se i fini globali al livello più alto e i relativi poteri sono adeguatamente definiti. Il popolo non è un insieme amorfo, un variopinto caos di individui casuali, ma è organizzato in formazioni sociali, gruppi, reti, associazioni.
La sussidiarietà, riscoperta negli anni ’90 ma poi presto abbandonata, trae nutrimento da un’idea antropologica che fa leva sull’iniziativa, autonomia e relazionalità della persona. Lo scopo dell’attività sociale è di aiutare i membri ed i gruppi del corpo sociale, non di assorbirli o distruggerli per azzerare ogni intermediazione.

Il bene comune mondiale

9. Critica del concetto di sovranità e apertura verso il bene comune mondiale. Il concetto moderno di sovranità come potere assoluto, indiviso, superiorem non recognoscens, è insostenibile: si è concretato in una concezione bellicistica all’esterno, e severamente accentratrice all’interno. Il concetto stesso di sovranità dovrebbe essere espunto dal linguaggio politico, che ne è stato infettato da secoli, e sostituito da quelli di autonomia e di indipendenza nel cammino verso unioni più alte. La sovranità moderna non si sente più legata da leggi diverse da quelle positive, e spesso evolve verso un puro normativismo, in cui il diritto è posto in ultima analisi dalla volontà più forte in un certo momento storico. Il normativismo cerca oggi di imporsi a livello planetario attraverso un diritto “sconfinato”, ossia che attraversa ogni confine e che è denotato dalla calcolabilità e dal criterio di utilità adottato dalle potenze più forti. La nozione di popolo tende a scomparire, sostituita da quella di popolazione, intesa come un insieme calcolabile di soggetti in uno spazio-tempo globale entro cui ritagliare funzionalmente confini più o meno arbitrari; discorso analogo vale per la nozione di terra, entro cui radicarsi, sostituita dalla nozione calcolabile e funzionale di territorio. Su questo punto M. Weber ha mostrato un’insensibilità notevole, dal momento che per lui la sovranità è l’esercizio della violenza legittima su un territorio, entro il quale l’autorità statuale detiene il monopolio della costrizione fisica .

9.1. Della sovranità si manifestano due forme: quella esterna nel rapporto verso altri Stati, e quella interna, che d’altronde sono tra loro collegate.
La sovranità verso l’interno negli Stati contemporanei costituzionali è intesa come rule of law, democrazia, diritti e doveri, entro un quadro normativo che stabilisce la suddivisione e l’equilibrio dei principali poteri dello Stato, ma che non nasconde in più casi la tendenza al centralismo con indebolimento del principio di sussidiarietà ai vari livelli e delle energie della società. Nella prassi anche negli Stati costituzionali vi può essere un esercizio sovranistico del potere, in cui predomina l’accentramento in poche mani delle decisioni, l’esautorazione di livelli istituzionali di governo e delle istituzioni di garanzia, un continuo appello al popolo o al supposto popolo, con possibili derive verso la democrazia plebiscitaria in sede nazionale e con un atteggiamento pregiudizialmente conflittuale in sede internazionale. Di per sé il sovranismo è contro il federalismo e l’unione di qualche genere con altre società politiche. Il logoro concetto di sovranità è recuperato dai sovranisti europei attuali per contrastare le aperture federaliste, e per non cedere quote di sovranità nazionale .
Rispetto alla posizione amorfa e indifferenziata di un globalismo mercantile che nega l’esistenza concettuale di popoli reali, portatori di diritti collettivi, e rispetto ai sovranisti, che invece affermano il diritto inconcusso dei popoli di liberarsi dei poteri sovranazionali, intesi solo come oppressori e rapinatori, Maritain e Sturzo rappresentano una terza posizione: occorre una Europa forte e coesa, che superi il nazionalismo attraverso un federalismo che non ripeta ad un livello più alto il vizio della sovranità moderna e possa integrare il principio di sussidiarietà a vari livelli.
Nel volume L’Europe et l’idée fédérale (Mâme, Paris 1993), steso e pubblicato negli USA nella primavera del 1940 poco prima della disfatta della Francia, Maritain auspica per il dopoguerra una Germania federale entro un’Europa federale. Un elemento notevole è soggiacente al testo: l’idea che un’Europa federale non potrà venire alla luce se lo spirito cristiano non la farà esistere (p. 45). Affermazione analoga si trova nel libro di Guardini sopra citato, in uno scritto del 1946 (p. 59) .
Ma già nell’appello di Sturzo del gennaio 1919 ai “liberi e forti” esplicito è l’invito a riconoscere che «è imprescindibile dovere di sane democrazie e di governi popolari trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali… e a congiungere, nell’amore alla patria, il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo». Dopo esser tornato dall’esilio Sturzo affermerà spesso che la democrazia è autentica solo quando è «solidale».
Mi sono talvolta interrogato se sia stata un’idea riuscita iniziare la nostra Carta costituzionale con la nota enunciazione per cui «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Molti ricorderanno che dopo le elezioni politiche italiane del 2018 l’art. 1 venne citato dai sovranisti a metà, omettendo la parte «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Veniva così taciuto che la sovranità popolare è limitata dalla legge fondamentale, che opera come criterio “antisovranista”.
Secondo Maritain «l’espressione più esatta riguardo al regime democratico non è quella di “sovranità del popolo”. E’ invece la definizione di Lincoln» . Non è soltanto questo il punto: il fatto è che il concetto di sovranità è intimamente incoerente e chiuso verso l’alto, verso la costituzione di società politiche più ampie. Se poi si volesse ricorrere ancora all’idea di sovranità, la sovranità politica è stata da tempo largamente sostituita dalla sovranità del denaro e della finanza.
I personalisti continuano a ritenere che una soluzione federale per l’Unione europea sia la strada maestra verso il futuro e concretamente mirano a passi misurati, meditati e indispensabili nel lungo processo. Questo cammino può essere percorso se i Paesi dell’UE riusciranno a mettere in comune forme di condivisione concreta degli obiettivi e dei rischi, devolvendo importanti quote di “sovranità” nei settori vitali. Dopo la gravissima crisi economica e finanziaria mondiale del 2007 e dopo che il sistema di welfare, la capacità di creare lavoro, l’uguaglianza sociale, la qualità dell’educazione e dell’istruzione, la cura dell’ambiente si sono indebolite in molti Stati, una loro ripresa e assestamento su base comunitaria sarebbe un notevole passo avanti in quella condivisione dei rischi che appare necessaria, e su cui il richiamo alla sovranità dei singoli Stati appare un inganno. Si dice: spesso sono i cittadini dell’Unione che non vogliono passi avanti nella condivisione. Sarebbe invece meglio osservare che sono i capi politici, spesso del campo sovranista, ad essere contrari e non di rado volti a favorire forme di paura collettiva sfruttate per meri interessi elettorali. Il metodo seguito è forse riassumibile nella formula: crea la paura e cerca di stabilizzarla in rancore e magari in odio.

9.2. Sovranità nell’arena internazionale. La sovranità presentataci da Hobbes sta in intimo contatto con gli elementi della forza, del potere, del terrore allo scopo di liberare i cittadini dal rischio dell’essere uccisi, garantendo loro sicurezza all’interno. Ma che dire al di fuori dei confini statali? Quei mali da cui vogliamo proteggerci: disordine, guerra, violenza, caos, ingiustizia, paura, terrore, e per il cui precario controllo facciamo appello alla sovranità, non li troviamo forse portati all’eccesso quando entriamo nell’arena internazionale? Quella sovranità che vuole essere potente verso l’interno, risulta debole e impari all’esterno. La guerra che Hobbes toglieva col Leviatano dall’interno delle singole comunità politiche, veniva proiettata nell’ordine internazionale e rafforzata dall’elaborazione della sua filosofia politica che non prevede nessun patto federativo internazionale, quasi lasciando intendere che la guerra è indissociabile dallo Stato.
Kant nel progetto sulla pace perpetua ha intuito la necessità di unioni federali di Stati a forma repubblicana, senza però cogliere adeguatamente – per il fatto che ha assegnato un rilievo quasi esclusivo al diritto (internazionale e cosmopolitico) -, la necessità dell’autorità politica e il suo rapporto intrinseco col bene comune, ossia col raggiungimento dello scopo della vita comune. Maritain in L’uomo e lo Stato (1951) ha con profondità esplorato l’elemento della sovranità e del suo necessario superamento in una autorità politica mondiale. Di questa l’ONU è una sbiadita prefigurazione, poiché resta un’organizzazione di Stati sovrani, la quale tende a registrare le posizioni di quelli più potenti .
L’enciclica Pacem in terris (1963) si è posta in tale solco, elaborando in maniera felice la connessione fra bene comune e autorità politica, e sottolineando il dislivello strutturale fra bene comune ormai planetario della famiglia umana e dimensione locale o al massimo regionale dell’autorità politica. Dislivello che va colmato con la creazione di istituzioni su scala mondiale e che dovrà culminare nella formazione progressiva di un’autorità politica mondiale. La sua mancanza è forse la causa fondamentale del disordine mondiale e delle guerre, e dell’incapacità di porvi rimedio: vivere appunto insieme, a contatto di gomito, senza un’autorità politica comune (naturalmente strutturata secondo sussidiarietà), incaricata di gestire i problemi di tutti e di dirimere in maniera pacifica le controversie ineluttabili.
Gli assunti di Maritain e della Pacem in terris, ampiamente ripresi e sviluppati nella Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009), aprono la strada verso una società politica ed una au¬torità politica mondiali, verso un diverso schema di rela-zioni internazionali, non più ancorato al paradigma secolare dei rapporti interna-zionali basati sulla sovranità dello Stato, che non accetta di conferire quote di sovranità a livelli più alti. «I due concetti di sovranità e di assolutismo sono stati forgiati insieme sullo stesso incudine. Insieme devono essere messi al bando» . Sino a quando lo Stato nazionale possiederà una sovranità che si riassume nello jus ad bellum, una pace durevole resterà un sogno .

La prospettiva e il progetto di un costituzionalismo globale

Da anni le ragioni del multilateralismo e dell’universalismo si sono notevolmente indebolite. Alcune frasi del discorso del Presidente Trump all’assemblea generale dell’ONU (24 settembre 2019) rappresentano il clima che si diffonde: «Il futuro non appartiene ai globalisti. Il futuro appartiene ai patrioti. Il futuro appartiene alle nazioni sovrane e indipendenti», chiaro invito a far pesare la propria forza sulle ragioni dell’equilibrio, e rilancio del primato dello Stato nazionale.
Nonostante la difficoltà dell’attuale situazione si riflette da tempo su un “costituzionalismo globale”, capace di creare istituzioni sovranazionali, e infine mondiali, di garanzia. Esse avrebbero il compito di controllare l’implementazione dei patti internazionali e del relativo diritto in ambiti vitali come l’ambiente, la corsa agli armamenti, l’istruzione, i diritti sociali, la lotta alle diseguaglianze, il contrasto alla tratta di esseri umani e alla criminalità internazionale. Qualcosa di analogo ai compiti svolti dall’OMS e dalla FAO nei loro campi rispettivi. J. Habermas ha parlato di ‘politica interna del mondo’ e in Italia L. Ferrajoli ha sostenuto che il costituzionalismo ha un futuro solo se allargato oltre lo Stato . Le istituzioni di garanzia perseguono infatti fini universali nei modi prestabiliti dalla legge e dal diritto internazionali, e contribuiscono a limitare i poteri assoluti. Ma è proprio in questo campo che il cammino è più arduo, poiché mancano quasi completamente leggi di attuazione e di controllo.
Per quanto concerne l’Europa sono in movimento processi contrastanti: da un lato il perseguimento del processo costituente europeo, a cui deve subentrare un procedimento di integrazione politica volto alla protezione e promozione dei diritti umani; dall’altro si riscontra in vari Paesi una crescita dei populismi, che tendono a separarsi dai processi di unione per visioni nazionalistiche che comportano disgregazione comunitaria. L’alternativa è di andare avanti nel cammino già iniziato conducendolo a nuova maturità, oppure si torna indietro perdendo le conquiste ottenute.

Commiato. I due fattori del self-interest dell’homo oeconomicus e la necessità di “costrizioni sociali” (hobbesiane e/o contrattualistiche) per ottenere un minimo di ordine sociale e non il caos, hanno avuto largo ascolto nella filosofia politica ed economica della modernità. Là dove l’ordine sociale non può essere garantito in modo cooperativo, poliarchico e sussidiario, si è pensato che potesse emergere dalla combinazione di self-interest e di “contratto-regole”.
L’idea politica del personalismo solidale, federalista e aperto a cooperazioni e unioni più alte del livello nazionale è tuttora valida, ed ha compiuto dopo la seconda guerra mondiale concrete attuazioni, nonostante i riflussi recenti e le pretese sovranistiche. Le grandi idee camminano sulle e con le gambe di popoli che possiedano la benedizione di avere capi politici degni di questo nome, ossia di «statisti» attenti a ragioni più ampie e durature del solo interesse immediato.

Annesso. Sussidiarietà e devoluzione. Il principio di sussidiarietà si distingue dalla mera devoluzione di funzioni dal centro verso la periferia; la sussidiarietà non significa portare le decisioni al livello più basso in assoluto, ma al livello proprio, ossia a quel livello dove può esprimersi un gruppo sociale e l’autorità ad esso pertinente. Ogni attività sociale è per sua natura sussidiaria in quanto deve sostenere i membri del corpo sociale cui si riferisce.
In certo modo il principio di sussidiarietà rimonta ad Aristotele secondo cui l’unità dello Stato è per sua natura plurale: sarebbe un errore se la polis-civitas avesse un’unità massima come quella disegnata nella Repubblica da Platone. L’unità dello Stato è minore di quella della famiglia, la quale a sua volta è minore di quella dell’individuo (Politica, 1261a17ss). La diversità interna alla società non può essere ridotta a quantità; e d’altro canto la società è una unità d’ordine, non un’unità sostanziale. Questa impostazione che ha avuto ed ha vita lunga, percorre vari filoni del pensiero medievale e moderno (si ritrova ad es. in Tommaso d’Aquino). E riemerge nella seconda metà dell’800 nell’insegnamento sociale della Chiesa sino a trovare specifica formulazione nell’enciclica Quadragesimo anno

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